Filosofia e religione in Immanuel Kant

La religione in Kant

  1. Dio nella Critica della Ragion pura

La Religione nei limiti della semplice ragione è, come si sa, opera tardiva (1793,1794) e del resto alle domande cui l’uomo non può sottrarsi e in cui si articola l’esigenza critica -Che cosa posso conoscere? Che cosa debbo fare? Che cosa mi è lecito sperare? – essa risponde all’ultima e già presuppone che si sia risposto alle prime. Ma occorre notare che ciò non vuol dire che essa sia l’ultima a sorgere: la preoccupazione religiosa è sempre sullo sfondo del pensiero kantiano come suo momento condizionante nell’attesa di un definitivo approfondimento, e nell’opera di Kant appaiono costantemente riferimenti ad essa. Del resto le tre domande enunciate si riassumono nell’unica domanda di fondo -Cos’è l’uomo?- e in ognuna di esse le altre sono contenute. Si deve poi aggiungere che la teoria filosofica della religione di Kant è già tutta contenuta in una celebre lettera al teologo svizzero Lavater del 1775 e in una nota della Critica della ragione pratica (1788, cap. II, §4, nota a), opera che talvolta si è voluta separare dalla Religione nei limiti della semplice ragione come contenente tutto il vero pensiero etico-religioso di Kant nei confronti di quello che fu considerato spesso come un lavoro marginale o addirittura tale da risultare infedele allo spirito più profondo dell’etica dell’illuminismo esposta nella prima.

Nell’impossibilità nel tempo concessomi di seguire il complesso sviluppo del pensiero kantiano su questo punto, mi limiterò a qualche accenno alla Critica della Ragion pura e alla Critica della ragion pratica.

La risposta data della Critica della ragione pura (1781,1787) alla domanda su che cosa possiamo conoscere è ben nota e qui basterà qualche accenno ad essa per quel che riguarda il nostro problema. Essa consiste in una riflessione sui limiti e le possibilità della nostra conoscenza che fissa questi limiti nell’esperienza, sicché non sono valide le conoscenze che pretendono oltrepassare l’esperienza. Ma occorre spiegare come la conoscenza che si tiene nei limiti dell’esperienza abbia quella validità oggettiva (nel senso di universale e necessaria) cui pretende. Ora la risposta di Kant è che la nostra conoscenza inizia dall’esperienza ed ha in essa il suo limite ma non si esaurisce in essa. Una conoscenza oggettiva delle cose implica la loro collocazione in un tempo unitario e in uno spazio unitario: il che significa che ogni cosa per essere conosciuta deve essere posta in un complesso di relazioni. Ora l’esperienza ci fornisce un complesso di impressioni, ma non le loro relazioni, che sono un prodotto dello spirito umano in risposta all’esigenza di una conoscenza oggettiva. Lo spazio e il tempo unitario in cui noi collochiamo le cose costituiscono costruzioni dello spirito umano, dello spirito cioè che è in ognuno di noi e costituisce la nostra comune radice. Kant ritiene che spazio e tempo siano forme a priori (cioè non derivate dall’esperienza) della nostra intuizione sensibile nel senso che, essendo condizioni di ogni possibile esperienza, non derivano da essa. Nulla possiamo così intuire o percepire se non collocandolo nello spazio-tempo; ma spazio e tempo ricevono la loro unità dalla spontaneità dell’intelletto umano che per unificarli si avvale di certe forme di pensiero (sostanza, causa, relazione reciproca, etc..) che non sono necessariamente connesse con la nostra sensibilità e le sue forme sicché possiamo anche usarle al di fuori di questo rapporto.

Da tutto ciò si debbono trarre due conclusioni: 1) noi non conosciamo le cose come sono in sé, ma solo come appaiono al nostro spirito ( dal fatto che non possiamo intuire le cose nello spazio- tempo non ne deriva che siano realmente nello spazio tempo (è la celebre distinzione kantiana fra cosa in sé o noumeno e sua apparizione o fenomeno); 2) le forme non necessariamente connesse con la sensibilità ci spingono, direi quasi naturalmente, a oltrepassare l’esperienza alla ricerca di un’unità ultima capace di raccogliere in sé la totalità dell’esperienza. Per rendere tutto quel che ho detto in maniera facile e intuitiva mi esprimerò così: conoscere per Kant vuol dire unificare un complesso di impressioni o sensazioni date che costituiscono il momento primo passivo della nostra vita spirituale, una prima unificazione si ha nello spazio e tempo, che a sua volta sono unificati dalle forme dell’intelletto in uno spazio-tempo unitario (in cui cioè si diano delle relazioni oggettive), ma la ragione umana non si ferma qui, cerca un’unità ultima e totale che le sfugge, e le sfugge necessariamente perché la totalità dell’esperienza non può mai essere un’esperienza. Impossibile fare tacere questa tensione verso l’unità, impossibile soddisfarla. La ragione, nel tentativo di soddisfarla, mette capo a tre idee (quella dell’anima come totalità dei fenomeni interni, quella del cosmo come totalità dei fenomeni esterni, quella di Dio come totalità assoluta, fondamento ultimo di ogni fenomeno e noumeno), ma si tratta di tre idee nei confronti delle quali non è possibile affermare una realtà esterna né per via intuitiva, né per via argomentativa (Kant, com’è noto, svolge un’aspra critica delle prove dell’esistenza di Dio elaborate da quella che per lui è la metafisica tradizionale). Questo movimento dialettico attraversa lo spirito umano: in esso è la tendenza ad un’unità ultima impiantata nella nostra stessa ragione che però ci sfugge, che non può essere obiettivata. Il che è come dire che l’uomo porta seco inevitabilmente la domanda su Dio anche se non ha i mezzi teoretici per soddisfarla. Insisto su quest’ineliminabilità: troppo spesso i lettori di Kant dall’impossibilità di soddisfare la domanda hanno argomentato l’insignificanza della domanda stessa, che è quanto di più antitkantiano ci possa essere.

  1. La religione nella Critica della ragion pratica

La ragione umana non ha soltanto un uso teoretico, sibbene anche un uso pratico. Essa non solo conosce ma è anche in grado di determinare la volontà ed è in grado di determinarla di per sé, indipendentemente dalla sensibilità: questo è il senso della celebre espressione kantiana “ragion pura di per sé stessa pratica”. In questo senso la ragione porta seco una legge, è legislatrice. “Agisci in modo che la massima della tua azione possa essere elevata a norma di una legge universale”, dice Kant. E’ la ragione a dare la forma della legge alla mia massima, cioè al principio in base a cui agisco; essa è pertanto in grado di fondare la legge di una comunità ordinata escludendo tutto quello che la può turbare. Occorre distinguere la ragion pratica da quella che sarà chiamata ragion strumentale: la ragion strumentale è sempre subordinata ad un fine empirico e al raggiungimento di tale fine, la ragione pratica ha invece un valore assoluto, determina la volontà secondo la legge universale che esprime senza alcuna considerazione di fini pragmatici. Kant ritiene che basti analizzare la nostra vita interiore per accorgersi di questo potere che l’uomo ha di agire disinteressatamente, di essere spettatore disinteressato di se stesso e degli altri nell’applicazione di una legge universale. Se questa formulazione appare troppo formale, si ricordi l’altra che gli è equivalente: “agisci in modo da trattare l’umanità in te e negli altri sempre anche come fine e mai solo come mezzo”. Qui emerge veramente il significato della distinzione fra ragion pura pratica e ragione strumentale. Se non vi fosse che ragion strumentale o se prendessimo la ragione strumentale come norma di vita gli altri non potrebbero essere considerati che come strumenti ai nostri fini, l’emergenza di un’etica del rispetto che oggi ci sembra l’unica possibile da applicarsi alle relazioni umane sarebbe una chimera.

Di più, data la difficoltà della ragione pragmatica-strumentale a raggiungere i fini che si pone progettati sempre in riferimento a un futuro, che non può che essere incerto, e data la chiarezza indiscutibile con cui la ragion pratica formula il nostro dovere, Kant si domanda se non si debba dire che la ragione ci sia data proprio per il suo uso pratico-morale (domanda che, come vedremo, troverà una risposta affermativa). “Dovere! Nome sublime!”. L’uomo è un essere razionale finito, ha la razionalità ma non è la razionalità; oltre che ragione è sensibilità e la sensibilità è qualcosa di anarchico nei cui confronti la legge deve farsi valere. La ragione acquista perciò il carattere di dovere e si pone come espressione di un imperativo, cose tutte che hanno senso solo se l’uomo è libero. Sul piano della ragion pratica è affermata la libertà umana che per Kant ha un duplice senso: essa consiste nel determinarsi secondo la forma pura della legge trascendendo ogni impulso sensibile che la rinchiuderebbe in una necessità impostagli dal di fuori, ed è la stessa capacità di determinarsi per la legge o per gli impulsi sensibili. Ma c’è di più, l’oggetto di una volontà determinata dalla legge è la realizzazione del Sommo Bene, la somma di virtù e felicità condizionata dalla virtù. Il Sommo Bene così concepito è un Sommo Bene derivato, perché radicato nella volontà razionale dell’uomo come suo compito. Ma, si domanda Kant, avrebbe senso un sommo bene derivato senza un sommo bene originario? Se non vi fosse a fondamento dell’universo un Bene originario, così mi pare di potere interpretare Kant, il nostro impegno morale, i nostri sforzi morali, non potrebbero certo sfuggire alla loro nullificazione, collocandosi ed ergendosi sullo sfondo di un universo di insignificanza. L’assunzione della possibilità di un Sommo Bene derivato, di un mondo in cui regni incontrastata la virtù e la felicità da essa condizionata, implica quella di un Sommo Bene originario. da cui dipenda un mondo che non è lasciato al caso, ma orientato verso il bene come sua somma possibilità. Se condizione della validità della legge morale come determinante la volontà è la libertà, condizioni del Sommo Bene come oggetto di una volontà determinata dalla legge morale, quindi “praticamente necessario”, sono l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima umana. Libertà, esistenza di Dio e immortalità dell’anima sono postulati della ragione pratica, cioè proposizioni teoretiche, ma come tali non dimostrabili, che ineriscono necessariamente a una legge valida a priori, cioè alla legge morale inscritta come si è vista nella nostra ragione. Tenendo ferma questa destinazione ultima pratica della ragione, Kant giungerà a parlare di un ordinamento saviamente predisposto delle nostre facoltà razionali: se ad es. la dimostrazione dell’esistenza di Dio fosse possibile, poiché una dimostrazione necessaria equivale ad un’intuizione, la “tremenda maestà di Dio” ci sarebbe sempre dinnanzi e come allora parlare di libertà umana? Qui si ha l’idea pascaliana di un Deus absconditus, l’idea vivissima nella nostra tradizione filosofica d’un Dio che si ritrae per lasciarci liberi.

E’ possibile ammettere la realtà oggettiva dei postulati che l’unione di virtù e felicità richiede e quella della libertà, solo se si riconosce che l’esistenza sensibile possa anche non essere l’unica esistenza per l’essere razionale finito (cosa che come si è visto la Critica della Ragion pura ammetteva, in quanto riconosceva la distinzione fra fenomeni e cose in sé). La legge morale cui è soggetto lo rende così membro di un mondo intelligibile (solo in esso può essere collocata la libertà), la cui causa (l“Autore intelligibile della natura”) può subordinare la natura alle esigenze della moralità, commisurando la felicità degli esseri finiti alla loro virtù.

Questa dottrina dei postulati è stata tante volte considerata come un’aggiunta indebita all’etica kantiana, qualcosa che tradisce il suo carattere di etica autonoma. Ora il senso del carattere di autonomia dell’etica kantiana riguarda a mio parere la necessaria subordinazione del sensibile all’intelligibile (motivo della grande etica occidentale da Platone in poi), non come tante volte è assunto la separatezza dell’etica dalla religione. Un’etica senza religione per Kant non ha senso: affermare l’impossibilità del Sommo Bene sarebbe per lui “considerare la legge morale fantastica e diretta a fini vani e immaginari, e quindi falsa in sé medesima”. Del resto già nella Critica della Ragion pura, nella parte metodologica dove schizza il senso del suo intero lavoro scrive: “Io crederò inevitabilmente nell’esistenza di Dio e in una vita futura, e sarò sicuro che nulla può fare vacillare questa fede, poiché altrimenti risulterebbero rovesciati i miei stessi principi morali, ai quali non posso rinunciare, senza diventare spregevole ai miei stessi occhi”. Un’etica senza religione per Kant non ha senso, ma anche non ha senso una religione senza etica, e non v’è altra via d’accesso alla religione che quella etica. In questo senso mi pare più seria la critica che è stata rivolta a Kant di riassorbire la religione dell’etica, di non considerare la religione se non come un’insieme di condizioni che rendono possibile la vita morale: ci sarebbe insomma in Kant, piuttosto che un’etica separata dalla religione o viceversa, un’identificazione fra etica e religione. In realtà parlare di identificazione tout court mi pare troppo: resta invece vero che l’unica via di avvicinamento alla religione, che le impedisca di rovesciarsi nella superstizione, è quella della ragion pratica. In un bel saggio sul Fallimento di ogni tentativo in teodicea (1791), Giobbe, quello che la tradizione ha sempre considerato come l’eroe religioso per eccellenza, è considerato invece come eroe morale. Gli argomenti con cui gli amici si rivolgono a Giobbe, come quelli con cui Giobbe risponde agli amici, hanno secondo Kant poco di notevole, ma un punto è importante: quando gli amici consigliano Giobbe di dichiararsi colpevole e riconoscere che il castigo di Dio è giusto, Giobbe rifiuta, perché questo non è il suo convincimento interiore, e cadrebbe allora nella massima abiezione morale, la falsità. C’è nell’oscurità del mondo in cui ci troviamo (tutto il saggio è percorso da un senso dell’inaudita potenza di Dio e del mistero, che si accentua proprio quando Dio parla direttamente a Giobbe) qualcosa che splende in noi, la legge morale; tradire questa legge vorrebbe dire tradire quello che solo in questo mondo parla di Dio, precludendosi così l’unica ragione di credere in Lui anche se non si riesce a comprendere le vie attraverso cui si manifesta la sua saggezza nel corso del mondo. “Con questo suo atteggiamento egli mostrava di non fondare la sua moralità sulla fede, ma la fede sulla moralità; e in questo caso la fede per quanto debole possa essere è d’una specie più pura e autentica d’ogni altra, tale cioè da fondare una religione, che consiste non nella ricerca di favori, ma nella buona condotta”. La fede in Dio nonostante la presenza del male nel mondo è tutta fondata sulla legge morale e sul suo carattere imperativo, che qui è vissuto (come sempre avviene in Kant quando parla del trapasso dalla morale alla religione come atteggiamento vissuto) nella pienezza delle sue conseguenze esistenziali. La presenza della legge morale in noi e il comando del Sommo Bene sono l’unico motivo per sperare che il male, che pure ci attanaglia e ci circonda da ogni parte, non è ultimativo, anche se la sua presenza e il modo del suo accordarsi con la Saggezza morale di un Creatore del mondo restano per noi insondabili.

Ma il problema del male e del male come falsità non può non portarci alla Religione nei limiti della semplice ragione, dove quel che è peculiare alla religione, il “di più” di essa nei confronti della moralità, emerge a mio parere in modo indiscutibile

  1. La religione nei limiti della semplice ragione e la dottrina del male radicale.

L’opera nelle intenzioni di Kant rispondeva certo alla terza domanda, che cosa posso sperare? Essa indubbiamente si pone come un prolungamento di motivi critici svolti nelle tre critiche precedenti ed è una risposta alla terza domanda in termini di criticismo, ma c’è a mio parere qualcosa in più: essa mostra il potere che i risultati a cui il criticismo è giunto -con la sua enucleazione delle strutture trascendentali che rendono possibile la vita conoscitiva e pratica dell’uomo- hanno di illuminare la situazione umana nella sua concretezza. Kant non rifiuta certo la definizione della religione“come considerazione di tutti i doveri come comandamenti divini” a cui era giunto nella Critica della ragion pratica, ma la considera in un contesto più ampio che ha i suoi termini (è qui la novità che scandalizzò anche i suoi amici) nelle tesi del male radicale e della sua redenzione. Di più questo orientamento verso la concretezza della situazione umana, che raggiunge anche i suoi momenti storico-sociali, lo porta ad un confronto diretto e approfondito con il Cristianesimo.

Vediamo anzitutto il significato del titolo. Kant ci dice che con esso non indica una religione costruita sulla base della pura ragione, tratta da essa, con esclusione della rivelazione divina, ma piuttosto una religione situata nei suoi limiti. Kant cioè non contesta la possibilità e neanche la necessità di una rivelazione “come mezzo divino per introdurre la vera religione”. In ciò il suo programma è ben diverso da quello fichtiano di critica ad ogni rivelazione. C’è però una religione della pura ragione che consiste in quanto della religione può essere affermato stando nei limiti della pura ragione e stando entro questi limiti è possibile sviluppare una dottrina filosofica della religione. Dice Kant: “in quest’opera io volevo presentare, in un quadro coerente, solo ciò che nel testo della religione ritenuta rivelata per fede, nel testo della Bibbia, può essere riconosciuto anche attraverso la pura ragione”. Nella prefazione alla seconda edizione del libro (1794) enuclea quello che per lui è il rapporto fra la “religione ritenuta rivelata per fede” e la religione della pura ragione come un rapporto fra due sfere concentriche; poiché la rivelazione può comprendere in sé anche la religione della pura ragione, ma questa non può contenere l’elemento storico della rivelazione, si potrà considerare la rivelazione come la sfera più ampia che include in sé la sfera più ristretta della religione della pura ragione, a cui il filosofo teologo, come “insegnante della ragion pura” deve attenersi. Egli potrà astrarre da ogni esperienza ed attenersi ad essa, ma anche potrà, prendendo come punto di partenza una rivelazione ammessa come tale, far astrazione dalla ragion pura come un sistema di per sé sussistente, e considerare la religione in quanto sistema rivelato nei suoi concetti morali, “frammentariamente”, per vedere se in questo modo si è condotti al medesimo sistema razionale puro di religione: il risultato di questa indagine sarà che fra la Scrittura e la ragione non solo c’è compatibilità, ma anche accordo. L’idea dei due cerchi concentrici implica ovviamente che nella religione rivelata, che pure contiene in sé la religione puramente razionale, vi sia qualcosa di più di quello di quanto si ritrova in quest’ultima. Ora questo “di più” riguarda sia la forma che il contenuto della religione rivelata. La forma, perché la religione rivelata si rivolge all’uomo tutto intero, che non è soltanto ragione ma anche sensibilità, e servendosi di analogie tratte dal mondo della natura e dei sensi si sforza di rendere comprensibile il soprannaturale e il soprasensibile ( per esempio l’amore di Dio per l’uomo è illustrato con la rappresentazione del sacrificio del suo unico figlio). In base a questa dottrina Kant interpreta istituzioni e dogmi della Chiesa rivelata. In realtà questi schemi o simboli che la religione rivelata usa sono dalla ragione indeducibili ma le si aggiungono senza violarla anzi soddisfacendola. Egli però ondeggia fra la considerazione di questi schemi come necessari per l’uomo che, in quanto essere razionale finito è dotato di sensibilità, e l’assumerli invece come legati ad una situazione fattuale dell’umanità, che potrebbe anche essere anche provvisoria, secondo il principio illuministico in base al quale un’umanità veramente matura potrebbe anche fare a meno di essi. Ma c’è un di più di maggior interesse che riguarda il contenuto, che Kant afferma dicendo che la religione rivelata può servire a colmare la manchevolezza teorica della fede razionale su certe questioni rispetto a cui confessa la sua indigenza ( per es. sull’origine del male, sul passaggio dal male al bene, etc..). La fede razionale pura riflettendo su di sé esperisce dunque certe manchevolezze, e a questo proposito trova lumi nella rivelazione, che a sua volta illumina dal di dentro. Con questo voglio dire che la religione anche nei confronti di questi problemi avrà un potere discriminativo, potrà accettare quel che dalla rivelazione le viene solo distinguendo forme autentiche da forme superstiziose di religione, quali sarebbero quelle che tendono a negare o anche solo ad attenuare lo sforzo morale. Compito della ragione è qui quello di delineare una zona di credenze possibili e nel discriminare da quelle superstiziose. Con ciò ancora una volta è affermata la funzione purificatrice che la ragion pratica può avere nei confronti della rivelazione, ma ancora una volta è esclusa l’idea di una ragione ripiegata su se stessa, esclusiva di ogni rivelazione. Kant parla di Parerga della religione della pura ragione, alla lettera aggiunte, ma aggiunte necessarie, alla religione nei limiti della semplice ragione, sussidi attigui, elementi supplementari che fungono da sostegno, che trattano di questi problemi che sorgono ai limiti fra le esigenze della ragione e l’ambito della rivelazione, religione razionale e religione rivelata. La loro trattazione mostra come per Kant la religione si articoli sulla base delle esigenze della ragione senza peraltro ridursi ad essa. Si tratta di idee che la rivelazione custodisce, come quelle di mistero e grazia, che Kant chiama trascendenti, di cui non posiamo fare nessun uso né conoscitivo né pratico, ma di cui la ragione non può contestare né la realtà né la possibilità, che anzi deve ammetterle come termini di quella che Kant chiama fede riflettente, una fede che, a differenza di quella morale o razionale ( la fede dei postulati) che nasce dalla ragion pratica di per sé presa, nasce invece dalla riflessione che la ragione esercita sulla situazione umana nella sua concretezza, sulla moralità nel suo esercizio concreto, sulla sua possibilità in un contesto fattuale che sembra minacciarla o addirittura frustrarla. Sembra così che le due sfere concentriche non manchino di punti di contatto: come quello che Kant chiama “il teologo biblico” difficilmente può fare a meno della ragione, il “teologo filosofo” nello svolgimento della sua problematica trova motivi che lo aprono ad una rivelazione trascendente, nei cui confronti non cesserà di fare valere le esigenze della ragione, ma che intanto non può negare e dalla quale le vengono aiuti a colmare le sue lacune teoretiche. Occorrerebbe al proposito un approfondimento teorico che qui non posso fare: cercherò però di illustrare questo punto in modo spero criticamente soddisfacente riportandolo all’intero discorso kantiano.

Al centro della dottrina kantiana è il tema del male radicale: già nella citata lettera a Lavater Kant aveva parlato di una fragilità umana, di un “male insuperabile” del cuore umano; ora riprende questo motivo, approfondendolo e facendone il fondamento della sua meditazione, a cui tutte le altre parti del libro si riattaccano e che ne costituisce la novità e l’originalità non soltanto rispetto alla produzione kantiana precedente, ma rispetto alla stessa filosofia del secolo.

La tesi kantiana è che l’uomo sia cattivo per natura, dove però per “natura” intende la natura dell’uomo come essere razionale finito dotato di libertà: con un atto originario, che precede ogni atto che si svolge nel tempo e di cui si ha esperienza, l’uomo si è collocato nel male, ha scelto cioè la deviazione dalla legge morale. Il riportare il male ad un atto di libertà, in una sorta di trascrizione razionalistica del racconto biblico del peccato, a cui Kant si rifà, gli serve a sottolineare sin da principio la sua contingenza (in nessun modo, egli sottolinea, il male può essere fatto coincidere con la semplice finitezza umana). Occorre distinguere la tendenza al male, che c’è in ciascuno di noi come effetto di questa scelta primordiale, dalla disposizione al bene che è tratto essenziale della nostra natura e con cui questa tendenza può convivere ma che in nessun modo può distruggere. In che cosa consiste questo male radicale, questa “macchia putrida” dell’umanità? Kant risponde “nella falsità”. Il bene consiste nella volontà buona, nell’azione che non solo è conforme alla legge morale, ma motivata da essa, al punto che, come si sa, la presenza di ogni motivo che non sia la legge stessa inquina la moralità nella sua purezza, rovinandola. Ora il male radicale non consiste solo nel lasciare che nello spazio riservato alla motivazione morale entrino altri motivi, com’ è proprio della fragilità umana, che si mescolino con la motivazione umana com’ è proprio della impurità umana, ma in una vera e propria perversione per cui la motivazione morale è subordinata a motivi tratti dagli impulsi sensibili. Si noti che non si tratta neppure di un’azione che non sia conforme alla legge, di un disconoscere la legge, ma di un’azione che, pure nella conformità alla legge, subordina l’obbedienza della legge a motivazioni altre che il rispetto della legge. La perversione si spinge allora sino a presentare come morali azioni che, lungi dall’essere motivate dalla legge, sono soltanto vagamente nella sua direzione, a cercare di giustificare azioni che oltre che essere non motivate dalla legge non le sono conformi, aggirando la legge; sempre riconoscendo l’autorità ma trovando motivi sofistici che nell’atto di questo riconoscimento ne giustifichino la disobbedienza. Si ha allora un mentire non solo agli altri, ma innanzi tutto a noi stessi. Il male di cui Kant parla non ha il manto scarlatto della ribellione che tende alla negazione alla distruzione della legge morale (un tal male Kant lo considera diabolico) ma è il male che si insinua nella nostra quotidianità, che mostra come direbbe Gogol quanto poco bene ci sia in quello che noi facciamo passare per bene. Tutte le volte che leggo le pagine di Kant su questo punto non posso non pensare a Gogol, alla sua commedia Il revisore. In una cittadina si attende un revisore dei conti pubblici: arriva un ometto simpatico, lo si accoglie lo si porta di qua e di là raggirandolo in tutti modi, poi la commedia finisce con l’entrata in scena di due gendarmi che annunziano: “è arrivato il revisore!”. Si dice che alla prima rappresentazione un gelo accompagnò nella sala queste parole. Certo ci si può comportare con la legge morale come con il revisore, ma verrà il momento in cui saremo posti di fronte a noi stessi alla luce di una verità non più aggirabile …e sarà momento tremendo.

L’effetto terribile della falsità è che essa impedisce l’istituirsi di una comunità etica genuina, fondata non sulla contingenza degli affetti ( paura, allettamento etc… sempre riportabili all’unico motivo dell’egoismo), ma sulla stabilità dell’”intenzione” come ferma “convinzione” interiore -il termine tedesco Gesinnung veicolo entrambi i significati, intenzione e convinzione. Ad essa Kant riserva il nome di Chiesa. In realtà Kant insiste molto di più sul potere inquinante che la tendenza al male ha nei confronti della comunità costituita (che del resto per lui nasce già inquinata): celebre è la sua polemica contro il falso culto che consiste, sul piano teoretico, nell’ispessimento dei simboli religiosi sino a dimenticare la loro simbolicità assumendoli per realtà, e, sul piano pratico, nella obbedienza a leggi statutarie esterne; anche qui si ha un’inversione di principi e una sorta di autoinganno che annulla l’impegno morale, il vero culto, che consiste nella consapevolezza che solo la condotta morale può renderci graditi a Dio e mantiene i simboli nella loro trasparenza.

  1. La religione nei limiti della semplice ragione: la conversione e la grazia.

La tendenza al male così delineata è invincibile? Essa, come si è visto, non cancella la disposizione al bene che in noi con essa coesiste e che ci comanda di vincerla con il “tu devi, quindi tu puoi”, della legge morale. Se è vero che ci siamo collocati nel male, con un atto di libertà, con un atto di libertà posiamo uscirne. Kant giunge a dire, quando parla come ho detto del mito di Adamo, de te fabula narratur, in quanto il nostro permanere nel peccato è come un passare continuo dall’innocenza al peccato, perché in ogni momento lo ratifichiamo non compiendo quel che la legge morale esige, perché in ogni momento ci si può liberare dalla tendenza al male, instaurata dall’atto originario di libertà, con un atto altrettanto originario, perché da nulla preceduto. La conversione si configura, secondo Kant, come un atto unico e fondamentale che consiste in una specie di rinascita, di rivoluzione interiore, di cangiamento di cuore: esso avviene fuori del tempo e si traduce nel tempo in una riforma continua di costumi, in un progresso che non cessa mai di impegnare l’uomo convertito, il quale agli occhi di Dio che sa leggere le intenzioni nell’intimo nei cuori, ha già con il suo atto di conversione realizzato un’umanità gradita a Dio, è divenuto soggetto suscettibile di bene, un uomo fondamentalmente buono. Agli occhi di Dio dicevo, ché agli occhi del convertito la conversione è continuamente problematica, continuamente messa in forse sicché egli non può che pensare che se mai si compirà pienamente, si compirà nell’eschaton, quando Dio lo accoglierà nel suo seno.

Si è visto come dal male radicale fosse travagliata la stessa Chiesa, la comunità etica che Dio chiede agli uomini di instaurare e organizzare. L’uomo, come essere razionale finito, ha bisogno di simboli e di istituzioni quali “sostegni sensibili” di più altri principi razionali, e la Chiesa ha un aspetto per cui è Chiesa visibile, ma simboli e istituzioni debbono esseri valutati per il loro accordo con la pura religione morale e la Chiesa sarà tanto più pura quanto più saprà rispondere a questa esigenza, sino a fare delle leggi statutarie che la caratterizzano un mezzo per la sua conservazione e diffusione, qualcosa che vale solo se ravviva la nostra fede e le nostre convinzioni morali. Il criterio di valutazione della Chiesa visibile è la Chiesa invisibile, l’idea della Chiesa nella sua purezza (al di là di ogni ispessimento dei simboli e di quello che si è visto essere il falso culto), alla realizzazione della quale dobbiamo mirare ma rispetto alla quale egli talvolta afferma che siamo ancora a una distanza infinita tanto che sembra che anche qui essa potrebbe anche solo avvenire nell’eschaton.

Non posso qui approfondire l’esame delle difficoltà teoretiche di questa teoria della conversione, che richiede, da parte del lettore di Kant, un supplemento interpretativo che deve prendere a suo rischio.        .

Kant è tuttavia giunto a un tal senso della profondità del male che è portato ad aggiungere a queste considerazioni sulla conversione le parole seguenti: dobbiamo metterci sulla via del bene “anche se ciò che possiamo fare dovesse essere per sé insufficiente e ci rendesse soltanto capaci di ricevere un concorso inesplicabile”. L’uomo deve sforzarsi di divenire migliore, di realizzare in sé un’umanità gradita a Dio e fare tutto ciò che è in suo potere a questo fine, nell’assunzione che se ciò non basterà Dio lo aiuterà a realizzare il bene a cui mira: la moralità pura. Entra qui il tema della grazia, che Kant non nega ma intende collocare nel suo giusto posto, ché la vita buona non è quella di andare “dalla giustificazione per la grazia alla virtù, ma dalla virtù alla giustificazione per la grazia”. Alla lotta per la purezza dell’intenzione morale si accompagna così un atteggiamento di “umile fiducia” in un aiuto dall’alto o dal profondo dell’essere, là dove i nostri sforzi non bastano, che è apertura ad una trascendenza genuina ed è atteggiamento religioso. Certo sarebbe una concezione spuria e superstiziosa della grazia quella che, in base ad essa, portasse a negare o anche solo a diminuire lo sforzo morale, donde anche la diffidenza di Kant verso la preghiera (che non risulti in una vivificazione del sentimento morale) e l’invocazione, che rende la sua teoria della religione, anche solo da un punto di vista fenomenologico, incompleta Ma è estremamente importante che la grazia, pur ridotta per così dire al suo minimo, non venga da Kant negata, anzi risulti imprescindibile. Si ha un passo ulteriore rispetto alla Critica della ragion pratica e alla dottrina dei postulati: Dio è qui considerato più che altro come colui a cui l’uomo si apre nella propria indigenza per il compimento della sua moralità, e non soltanto come il garante del sommo bene, quasi la condizione metafisica di esso. Ma c’è di più: queste riflessioni kantiane non indicano una correlazione fra esperienza del male e apertura genuina alla trascendenza religiosa? E’ proprio l’idea del male radicale e d’una possibile liberazione da esso che spinge Kant in quella zona dell’insondabile, del mistero, che urge ai limiti della ragione in una sorta di insistito rimando. In tal modo Kant, pur senza rinunciare all’intenzione di fare valere sino in fondo i diritti della ragione, si pone veramente ai limiti di essa, e il senso del mistero non è ignoto alla sua filosofia. Del resto anche più in generale essa è una filosofia dei limiti della natura umana e della trascendenza, come tale conosce l’umiltà, sentimento religioso per eccellenza di fronte ad un realtà che mai giunge a piena trasparenza, che non è possibile dominare con il pensiero. Si aggiunga la sua teoria del male e questa umiltà prenderà nell’uomo la sua forma religiosa radicale. Questa problematizzazione ultima della ragione di fronte al male raccoglie un’inquietudine che percorre tutta la sua opera che giustamente è stata qualificata come quella di un “illuminista insoddisfatto”.

  1. Conclusione

Concluderò osservando che questa correlazione fra esperienza del male e trascendenza, è di grande importanza per Kant per quel che riguarda lo stesso problema della teodicea, perché proprio quel male che sembra costituire un ostacolo all’affermazione di Dio ci apre invece a Lui in un orizzonte di mistero. Un punto che viene confermato dall’ateismo contemporaneo che, per potersi affermare, ha dovuto espungere da sé la considerazione di tutti gli elementi negativi dell’esistenza, che impediscono il sì incondizionato al mondo sino e un assorbimento dell’uomo in esso cui mira. Il senso della presenza del male nell’universo non permette all’uomo una piatta accettazione dell’universo stesso, lo apre in qualche modo ad un orizzonte trascendente.

Questo mi pare un motivo di forte attualità, a cui ne aggiungerei due altri.

In primo luogo l’idea di una realtà positiva del male nella sua negatività. Il male non è soltanto privazione, mancanza, ecc.., né si riduce alla finitezza umana: non è lo zero di virtù, ma la presenza del vizio, che impedisce alla virtù di venire all’essere, forza negativa. Qui Kant avanza l’idea del male come sovversione di principi che apre una via nuova al pensiero occidentale.

In secondo luogo l’insistenza del male come falsità, falsificazione del bene. La sua analisi su questo punto, che ci porta di fronte al male quotidiano, alla sua diffusione e gravità, in quanto è presente anche quando si veste dei panni dell’innocenza o addirittura del bene, è particolarmente attuale. Contro il male non basta la non violenza: occorre anche la non-falsità. Soffriamo inequivocabilmente del male in entrambe le forme: le considerazioni di Kant su questo ci invitano a riconsiderare il problema del nesso necessario violenza-falsità e la meditazione del suo pensiero può aiutarci a riportare al centro della nostra attenzione il grande problema della filosofia d’Occidente, quello della verità, contro il tradimento che opera chi troppo irresponsabilmente giunge a negarla negando con ciò la stessa falsità (chi nega la verità è costretto a risolvere il male nella violenza, lasciando l’uomo disarmato contro la falsità, che nel nostro tempo a livello sempre più macroscopico ci si riversa addosso). Un grande russo, Soloviev, ha rappresentato l’Anticristo come la falsificazione del bene, anche Kant come si è visto è su questa via: l’Anticristo con la sua imposizione della morale la riduce alla sfera del diritto, impedisce il passaggio dell’uomo da un semplice ordine giuridico a un più altro ordine morale, estinguendo in lui ogni idealità, ricacciandolo in forme banali di vita che non vanno oltre quella situazionalità che è la vita quotidiana governata da norme giuridiche e consuetudinarie immanenti, riducendo la moralità ad un insieme di norme coattive capaci tutt’al più di garantire una superficiale coesistenza estrinseca, impedendo così quella pratica della virtù sgorgante dall’interiorità che pone fra gli uomini legami ben più intimi e saldi, distruggendo il bene stesso degradato a forza materiale. Alla base dell’opera dell’Anticristo è per Kant il riassorbimento della moralità nella legalità, fatta passare per moralità, e la diffusione quindi di una falsità universale. Se mai l’Anticristo prevalesse, la fine del “breve regno dell’Anticristo”, “considerato come il precursore dell’ultimo giorno”, sarebbe allora la fine dell’umanità per una sorta di esaustione morale.

Per questi motivi oserei dire che questa dottrina della religione che ha il suo centro nella considerazione del male radicale ha un’attualità che è lungi dall’essere esaurita. I suoi limiti, che certo esistono, e che forse possono ridursi all’unica ma decisiva obiezione, che l’ispirazione fondamentalmente etica del suo filosofare, l’appassionata concentrazione sul momento morale che ne è il centro, lo porta a discutere la religione sempre in riferimento all’imprescindibile e intrascendibile esigenza morale, a mantenere e giudicare le rappresentazioni religiose sempre e soltanto per il rapporto che hanno con la nostra vita morale, non deve farci dimenticare la sua grande rilevanza.

NOTA: testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 24.2.2006 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.