I giovani e il mito della rivoluzione

Tre sono i concetti fondamentali che chiarirò: il concetto di giovani, di mito e di rivoluzione, e cercherò di vedere se c’è un nesso tra questi tre concetti.

E’ assolutamente necessario compiere quest’opera di onestà intellettuale e critica, non foss’altro perché intorno ai giovani corre gran retorica.

Paul Nizan all’età di 25 – 26 anni cercava una dimensione di libertà più aperta e scrisse un libro di memorie, di saggi, di meditazioni e di impressioni che inizia proprio con queste parole: “Avevo vent’anni: non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bell’età della vita”.

Giovane

Iniziamo con lo sfrondare il termine “giovane” da tutta la retorica. Il termine è per sua natura ambiguo, perché ambiguo è il termine “iuvare” da cui giovane deriva. Il termine significa da una parte “giovare, aiutare, essere d’aiuto a qualcuno”, ma, dall’altra parte, vuol dire anche, in senso assoluto, “essere bello, valido per sé”. Quest’ambiguità non consente una precisa individuazione semantica del termine alla sua stessa origine.

Vorrei individuare la drammaticità costitutiva radicale del termine “giovane” e quindi dimostrare quanto sia drammatica la succitata affermazione di Nizan.

La retorica iniziale è di tipo biologico: quando noi cerchiamo di individuare in termini non superficiali il concetto di giovinezza, questa veramente sfugge ad una chiara e precisa individuazione empirica. Quando noi cerchiamo di determinare quando comincia e quando finisce la giovinezza, veramente questo ci sfugge. Ci sono dei giovani per l’età, ma è difficile accettarli come giovani perché niente delle caratteristiche essenziali che costituiscono la giovinezza sembra caratterizzarli. L’aspetto biologico oggi sembra essere l’unico apparentemente valido della giovinezza, per questo assistiamo con enorme pena ad una gran quantità persone, anche anziane, che cercano di prolungare nell’aspetto esteriore la giovinezza: così si va incontro ad una giovinezza falsa, come i genitori che vogliono essere amici dei loro figli. I genitori sono padri e madri dei loro figli, non amici; il che è tutta un’altra realtà e dimensione.

L’aspetto biologico è una potenzialità che, proprio per la sua natura, può risolversi in senso positivo o negativo, può generare un’attuazione o una dissoluzione. Il termine di potenzialità sotto l’aspetto biologico, che sembra caratterizzare i giovani, mantiene la sua caratteristica essenziale di ambiguità.

Né sembra determinante per il concetto di giovinezza l’aspetto socio-giuridico. Non dimentichiamo che già la nascita è un fatto ambiguo. Si nasce soli, ma non da soli: il rapporto con l’altro si fa radicale nel nostro stesso venire al mondo, il momento del rapporto con l’altro inerisce costitutivamente all’essere uomini. Se così è, questo non può diventare una caratteristica soltanto di un certo momento della vita in cui si entra nella società. Nella società si è nel momento stesso in cui si viene al mondo, anzi nel momento stesso in cui si è concepiti: non si entra nella società con la giovinezza. La dimensione sociale dunque , pur potendo essere, come quello biologico, un elemento che può caratterizzare entro certi limiti la giovinezza, non può costituirne la matrice, non può esserne l’elemento determinante, dal momento che inerisce sempre, in qualsiasi momento, all’uomo in quanto tale.

Non può essere elemento determinante della giovinezza nemmeno l’aspetto giuridico: basterebbe pensare al fatto che una volta si votava a 21 anni e oggi si vota a 18 per dire che dal punto di vista giuridico non si sa con esattezza quando comincia la giovinezza e quando l’età matura. Il diritto è veramente impotente a definire una realtà così complessa ed inquietante come la giovinezza. A parte l’ironia che potremmo fare sulla fragilità della legge, il fatto che il diritto nasce ed è continuamente travolto dal mondo vitale, rende quasi impossibile che esso determini o costituisca un concetto così complesso come quello della giovinezza.

Altrettanto accade per l’aspetto pedagogico. La giovinezza non può coincidere con il momento dell’impegno educativo: non c’è bisogno di chiamare i santoni della pedagogia contemporanea per dire che la vita educa sempre, che siamo sempre alunni e scolari, non foss’altro che della verità. E se tutta la vita educa, il periodo in cui andiamo a scuola può caratterizzare la vita nel suo complesso, non un momento della vita in quanto tale. Quindi il momento pedagogico non può definire la giovinezza.

A questo punto prendiamo atto e coscienza di un aspetto particolarmente importante: la giovinezza non riesce a definirsi in una dimensione empirica. Il movimento biologico, quello sociologico, quello giuridico e quello pedagogico non caratterizzano né definiscono in modo non ambiguo il concetto di giovinezza. In altre parole, possiamo dire che la giovinezza non è un dato, non è uno status, non è nemmeno un ruolo e tantomeno un istituto.

Resta il problema: che cos’è la giovinezza se l’empirico non la definisce e non l’interpreta?

Bisogna che noi cerchiamo le matrici dell’interpretazione stessa non nell’empirico, ma in una dimensione dello spirito. A mio giudizio, la giovinezza è il momento entro cui si definisce l’esistenza come modo di porsi di fronte alla realtà. E’ un momento veramente fondamentale e radicale nella vita di ognuno, così radicale per cui non si può essere uomini se non si è stati giovani. E’ il momento della scoperta del nostro porci in modo assoluto di fronte alla realtà, dell’impegno e della responsabilità di dare senso al mondo, della scoperta dell’assoluta libertà, dell’assoluta elezione, della dimensione assoluta della moralità.

La giovinezza è per sua natura in polemica contro qualsiasi proposta ed atteggiamento di limite. Di qui il rifiuto di qualsiasi limitazione di libertà, di qualsiasi concetto di limite e la scoperta inebriante della libertà come assoluto senso e impegno di dar significato al mondo.

Cito un documento francese del 1968 :”Utopisti sono coloro che credono ci si possa accontentare di cambiare le strutture sociali, mentre noi cambieremo lo spirito dell’uomo; la bandiera rossa può morire, la bandiera nera pure; che i pittori inventino per noi mille e mille bandiere, simbolo di ricerca, di rivoluzione intima, di entusiasmo, di creazione”. E’ questo un passo che rende il significato di questa scoperta inebriante della dimensione assoluta, che nel momento in cui si dà come tale si fa immediatamente rifiuto di qualsiasi determinazione storica e di qualsiasi concetto di limite.

Se questa interpretazione può avere un senso, ne viene come conseguenza che proprio la giovinezza in quanto tale si pone in una prospettiva che è insieme radicalmente rivoluzionaria e di dimensione mitica. Allora i termini giovane, mito, rivoluzione cominciano a definirsi come termini che si implicano profondamente.

Mito

La cultura del giovane nasce dalla scoperta dell’assoluto morale, dell’assoluta libertà. E’ una cultura mitica, ma in che senso? E’ ovvio che utilizzo questo termine “mito” con un significato non molto corretto. Bisogna anzi esaminare attentamente questo termine per uscire dall’equivoco in cui incapperemo. In genere intendiamo per mito un racconto spesso immaginoso riguardante prevalentemente, anche se non esclusivamente, gli dei; il nostro atteggiamento, o meglio, l’atteggiamento della cultura di cui siamo portatori e che condividiamo, è decisamente critico nei confronti del mito.

Donde nasce questo diffuso atteggiamento di svalutazione e di rifiuto del mito in nome di una razionalità, di una riflessione filosofica che pur nasce dal mito? Sono almeno tre le matrici di questo atteggiamento.

La contrapposizione mito/logos è un tema vecchissimo e nasce con la filosofia stessa. I sofisti volevano essere liberatori della cultura e del sapere dal riferimento al mito e dalla componente mitica. Quindi la sublimazione del mito nel logos è una grande eredità che riceviamo dal mondo greco. Se noi guardiamo la tradizione di tipo aristotelico, che poi cresce nello scientismo dell’età moderna fino al neopositivismo contemporaneo, la filosofia sembra insegnarci questo atteggiamento di liberazione dal mito come da qualcosa di torbido che impedisce di poter guardare la realtà in termini di razionalità e sublimarci nella riflessione filosofica come riflessione razionale pura. E’ una lunghissima tradizione che arriva fino a noi e spiega questo nostro atteggiamento.

C’è anche una componente religiosa: la rivelazione, in quanto si dà come vera religione, considera “fabulae” tutte le altre interpretazioni di tipo religioso. San Paolo, quando si riferisce alla mitologia greca, chiama sempre i miti “fabulae” che sono da superare in nome della verità rivelata. San Pietro ribadisce che ciò vale anche quando le “fabulae” sono “doctae”.

La terza matrice del nostro rifiuto del mito nasce dall’esasperato irrazionalismo contemporaneo, che deriva da Nietzsche e Sorel. Esso ha generato necessariamente una reazione. Voglio ricordare al riguardo un filosofo scomparso che merita il nostro rispetto e la nostra considerazione, Remo Cantoni. Voglio riferirmi al suo libro suo “Mito e Storia” in cui, proprio in reazione all’irrazionalismo contemporaneo, propone un’interpretazione di polarità fra mito e scepsi, intendendo per mito una ragione sostanzialmente dogmatica e per scepsi la ragione che accetta l’inesistenza di un punto di vista assoluto.

Ho tralasciato di proposito Platone, un autore che ha interpretato profondamente il mito, utilizzandolo largamente. Eppure Platone, pur riconoscendo la funzione filosofica del mito, ha una posizione ambigua, come quella che ha di fronte all’arte. Da una parte il mito è l’incanto dell’anima e, come tale, è splendido e pericoloso insieme, perché può incontrare l’anima, fascinosamente attrarla e tenerla presso di sé. Dall’altra parte il mito è la condizione per esprimere l’inesprimibile, è la dimensione che consente di superare le insufficienze e i limiti della ragione. In Platone il mito è insieme qualcosa di più e qualcosa di meno della religione.

Per Schelling (benché si debba riconoscere che dobbiamo al Romanticismo la scoperta della validità del momento poetico, del momento mitico) il mito è il politeismo mitico di oggettivazione dell’unità da ricostruire attraverso la rivelazione.

Importante è ricordare che oggi il rapporto col mito è profondamente cambiato. Tutti hanno sentito parlare di “demitizzazione”: il significato primo e generico che forse vi si dà è di spogliare di un rivestimento sostanzialmente falso o deformante la realtà. Il vero senso del mito è invece di esprimere un significato sotto forma allegorica, dando un’interpretazione in forma simbolica di ciò che si muove al di sopra dell’umano a che come tale non può avere una sua forma valida per sempre. Demitizzare significa quindi essenzialmente individuare interpretazioni espressive sempre più consone alle successive forme della cultura e della civiltà. Da qui nascono degli studi estremamente seri intorno al mito, non solo nella interpretazione allegorica di miti, storica e teoretica, ma anche a livello profondamente filosofico.

Qual è il ruolo che il mito gioca oggi nella riflessione filosofica in quanto tale?

Ricordiamo Cassirer per il quale “il mitico è intrinseco al pensare”, in quanto il pensare è per sua natura simbolico. Riflettiamo intorno al mito che ci propone Crisdore in “Mite and Metaphisic”, il quale vede nel ritorno alla coscienza del mito non solo una giusta reazione all’irrazionalismo e al razionalismo esasperato, ma sostiene innanzitutto la complementarità radicale fra pensiero riflesso e pensiero mitico. La riflessione purifica l’immediatezza e la concretezza, ma il mito ripropone l’istanza ontologica dell’uomo. Cioè, senza pensare mitico, noi saremmo incapaci di un’autentica dimensione della vita, di un’autentica coscienza ontologica. Se il problema metafisico, se la dimensione metafisica, se la dimensione ontologica costituiscono l’impegno di riflessione fondamentale dell’uomo, questa continua sollecitazione della dimensione ontologica e metafisica nasce dal momento mitico intrinseco al pensare stesso. Se possiamo accettare questa definizione, se oggi non guardiamo più il mito come qualcosa che deve essere esorcizzato, rifiutato o sublimato nella purezza del logos, ma ci rendiamo conto che non possiamo pensare solo filosoficamente senza accettare il momento mitico come condizione della nostra possibilità di riflessione sul nostro essere, allora ne viene come conseguenza che la dimensione mitica diventa la caratteristica essenziale della scoperta della giovinezza.

L’atteggiamento che la giovinezza ha di fronte al mondo, la visione che della vita e dell’universo nasce immediatamente nel giovane nel momento in cui egli scopre la dimensione dell’assoluto, ebbene questa sua cultura e prospettiva è una prospettiva mitica. E’ mitica in quanto è pensare totalizzante e trasfigurante, non pensare storico. Non è un pensare riflesso, ma trasfigurato miticamente. Dovendo il giovane comunicare l’incomunicabile, cioè l’incomunicabilità drammatica e tesissima della sua scoperta dell’assoluto, egli non ha a disposizione che la dimensione mitica.

Basterebbe pensare come il giovane tende ad esprimersi per slogan. Cosa significa questo esprimersi per intuizioni immediate, per slogan che traducono questa esigenza di intuire totalmente una situazione? Cosa significa l’insofferenza che il giovane ha per la comunicazione critica che, in quanto tale, è riconoscimento di limite? Il giovane la rifiuta proprio perché la sua visione è totalizzante e, pertanto in quel momento, la dimensione mitica prevale radicalmente su quella riflessa e critica.

Rivoluzione

Il senso che noi diamo comunemente alla parola è di genesi socio-politica. Normalmente per rivoluzione intendiamo la sovversione violenta di un ordine politico-sociale al fine di modificarlo profondamente o di sostituirlo con uno radicalmente uno nuovo.

Notiamo che questo è l’ultimo e più recente significato del termine, è l’ultimo valore semantico di una dimensione interpretativa della realtà molto più lontana.

Quando si dice rivoluzione con questo significato politico, senza volerlo, pensiamo alle prime rivoluzioni che hanno creato l’età moderna, alle rivoluzioni inglesi del ‘600. Queste rivoluzioni non hanno nulla della rivoluzione totale, del sovvertimento violento di una realtà. Anzi, si può constatare che per lungo tempo il termine rivoluzione è stato sinonimo di quella che chiamiamo restaurazione. Difatti il termine rivoluzione sostanzialmente nasce nel clima scientifico dell’età moderna. Il primo significato di rivoluzione è astronomico, di rotazione della terra intorno al sole. Da qui nascono tutti gli altri significati, come quello in senso spaziale di giro completo o quello metaforico di girare intorno ad un argomento; solo molto più tardi nasce il significato odierno, che nel suo senso più moderno possiamo far risalire alla rivoluzione francese. La Costituzione del 1793 definisce proprio la rivoluzione francese affermando: “Se un governo lede i diritti del popolo è dovere sacrosanto e indispensabile l’insurrezione violenta” o rivoluzione; il termine serve a restaurare dei diritti violati, non a crearne di nuovi.

Il vero concetto moderno, contemporaneo di rivoluzione lo troviamo negli scritti di Marx, nel “Manifesto del partito comunista” del 1848, dove afferma la necessità storico-metafisica del rovesciamento violento di tutto l’ordine sociale. Cominciamo così a scoprire che il termine è estremamente recente in questa accezione, ma è significativo che Marx, nel momento in cui parla della forza della rivoluzione come propellente della storia, affianchi immediatamente quella della religione. Non è un caso che i due termini siano vicini anche in Marx, che è l’ultimo interprete di una visione sostanzialmente giudaico-cristiana della storia. Il concetto di rivoluzione è, infatti, di natura religiosa. Noi oggi gli attribuiamo riduttivamente un valore semantico socio-politico, ma questo non è che un aspetto dovuto alle circostanze storiche in cui ci muoviamo.

La matrice del concetto di rivoluzione è un concetto assolutamente religioso; San Paolo afferma che noi siamo della razza di Dio: se così è, dobbiamo essere capaci di una vera e totale rivoluzione di noi stessi e del nostro rapporto col mondo, di una rivoluzione mentale e spirituale senza la quale il messaggio evangelico non ha senso, non è acquisibile e noi non possiamo divenire figli di Dio. Questo dice San Paolo quando contrappone l’uomo vecchio all’uomo nuovo, per cui l’uomo vecchio deve morire perché nasca un uomo totalmente nuovo. Vi è poi l’altro concetto espresso nel Vangelo di San Giovanni, nel passo in cui narra di Nicodemo, dove Cristo afferma che dobbiamo rinascere una seconda volta. Nicodemo non capisce cosa significhi “rinascere una seconda volta” e Cristo gli dice che se non coglie questa necessità di nascere nuovamente, di essere totalmente nuovo, non può entrare nel Regno dei Cieli. E’ un concetto autenticamente rivoluzionario, esige una totale trasformazione di noi stessi, la capacità di generare un uomo radicalmente diverso da quello vecchio. Ancora San Paolo, parlando della filiazione adottiva, dice: “Se voi resterete legati alla concezione di essere figli secondo la carne, non entrerete mai nel Regno dei Cieli e non diventerete mai figli di Dio”. Bisogna diventare figli adottivi, vale a dire accettare questa dimensione tutta spirituale della paternità con Dio. Solo allora si diventerà eredi del Regno di Dio. Questi sono concetti veramente rivoluzionari.

Perciò la rivoluzione è un concetto assolutamente religioso. Nel momento in cui il giovane scopre questa dimensione assoluta di responsabilità di dar significato al mondo, la contempla nella sua visione sostanzialmente totalizzante e trasfigurante, di sfondo mitico, e scopre questa necessità profondamente rivoluzionaria che è quella della responsabilità di cambiare prima di tutto se stesso.

Se la giovinezza è la scoperta della dimensione dello spirito come assoluta elezione o assoluta moralità o assoluta libertà, di qui vengono certe caratteristiche essenziali che sono proprie dei giovani: la forte tensione morale, la severità, l’intransigenza, la richiesta di assunzione totale di responsabilità, ma anche i loro radicali limiti. Anzitutto emerge il loro moralismo, il loro interpretare tutto come se fosse un momento morale e, nello stesso tempo, la loro anomia etica. Da qui nasce la loro assunzione di responsabilità totale e, nello stesso tempo, la loro irresponsabilità. Sono i limiti che nascono dal loro rifiuto sostanziale del limite, perché non esiste libertà assoluta: la libertà è sempre all’interno di un limite.

Se io non accetto il limite, non lo vedo, non lo colgo, la mia libertà resta pura possibilità e non diventa mai vero valore che possa incidere nella storia. La libertà esige il limite, ma poiché il limite è rifiutato; la libertà del giovane resta sempre pura possibilità e non diventa mai esercizio e testimonianza concreta di libertà. Perciò la moralità dei giovani si caratterizza per questi aspetti: essere giudici ma mai esecutori di atti morali. La libertà e la moralità non consentono al giovane di essere vero operatore di storia perché esigono il limite.

Se è vero che la giovinezza ha una visione mitica e trasfigurante, vengono da qui alcuni atteggiamenti che ne possono spiegare la fantasia, l’immaginazione, la spontaneità, l’abbandono ad ideali totalizzanti, la tensione religiosa ma anche la religiosità senza teologia che si abbandona ad una dimensione esclusivamente creativa, spesso solo a livello sociologico. I giovani vogliono salvare il mondo senza spiegare agli uomini perché debbano salvarsi. I giovani inseguono un sapere che non sia imparare, perseguono il rifiuto della criticità che è coscienza di vita, quindi della fatica e della pazienza dello studiare; la loro presunzione e l’impazienza ne sono logica conseguenza.

La riluttanza a sottoporsi ad esami è un altro aspetto della loro visione mitica, così come il loro integralismo ideologico e, talvolta, la loro regressione all’infantilismo. La loro prospettiva rivoluzionaria è rifiuto della storia in bilico tra passato ed avvenire; polemizzano col presente che non vivono, solo lo giudicano e rifiutano. I giovani sono giudici spietati del presente e tentano di rifugiarsi nel mito rivoluzionario e nell’utopia. Ne conseguono spesso gli atteggiamenti velleitari, lo scarso impegno operativo, l’inquietudine, la rivoluzione spesso degradata a distruzione che finisce per assumere un significato quasi estetico o, secondo Marcuse, un piacere creativo.

Il rifiuto del limite, cioè l’interpretazione della storia come caduta e dell’utopia come dovere, è il momento veramente caratterizzante del giovane. Qui riscopriamo la dolorosa drammaticità dell’essere giovani: scoperta dell’impegno di dare significato al mondo e allo stesso tempo rifiuto dell’unica possibilità di riuscirvi, cioè l’accettazione della storia come momento, limite e condizione dell’essere liberi, responsabili, attivi operatori di storia. La difficoltà drammatica e dolorosa che i giovani hanno di accettare i limiti della storia e di farsi operatori di quest’ultima, di “imparare la propria parte nel mondo”, come dice Misan, sta proprio qui.

Nella misura in cui il giovane impara ed accetta il limite, che è la storia ed il coraggio di essere libero e responsabile operatore di storia, cessa di essere giovane e accetta la propria parte nel mondo.

Il suo è il tempo delle scelte più drammatiche, più radicali ed ogni cosa rappresenta, ancora con Misan, una minaccia: l’amore, le idee, la perdita della famiglia, l’ingresso fra i grandi. Accettare di imparare la propria parte nel mondo altro non è che accettare la responsabilità tremenda di dare concretamente e quotidianamente senso al mondo, cioè di farsi umili, coraggiosi, liberi, responsabili operatori di storia. Nella prospettiva che i giovani ci suggeriscono nelle loro istanze, anche se non sempre con le loro azioni, la storia si definisce come rischio etico-religioso che la ragione deve guidare e interpretare attraverso la coscienza del limite come condizione di giudizio critico. Vivere secondo ragione è scoprire nella ragione stessa le possibilità di risposta alla vocazione etico-religiosa, di giustificare cioè nella riflessione la scelta radicale della storia.

La vita da una parte è perciò rischio, consapevolezza, libertà, lavoro, moralità, religiosità, arte, cultura, garanzie socio-politiche e allora la storia si dà come storia della salvezza; dall’altra è insignificanza, cioè gestione biologica ed occasionale senza senso alcuno che non sia il proprio egoistico piacere, senza diritti perché affidata solo alle leggi, cioè ai misteriosi capricci dell’uomo.

NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 14.4.1978 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.