Idee fondamentali della politica

(si sviluppa come domande, rivolte da Paolo Ferliga, e risposte)

Domanda:
Il primo punto che sottopongo al professor Veca riguarda l’idea di filosofia politica che lui presenta in questo libro, legando la definizione a due questioni essenziali: la prima è quella secondo cui la filosofia politica si pone come risposta a questioni di incertezza rispetto alle domande elementari, domande che lui espone nell’ introduzione e che si possono ridurre alla domanda essenziale, cioè quale livello di giustizia ci sia nel fatto che una persona nasca in una certa città, in una certa condizione economica, in una certa condizione sociale, e un’ altra nasca in una posizione completamente diversa. La seconda definizione di filosofia politica, o meglio, del modo in cui Veca vede la filosofia politica, è il prolungamento dei nostri atteggiamenti naturali, del giudicare le nostre forme di vita. Quindi, come mi è sembrato di capire, la filosofia politica non ha tanto dei fondamenti razionali decidibili una volta per tutte, ma è un prolungamento di quel senso della giustizia che ci attraversa tutti. Mettendo a confronto queste due visioni della filosofia politica, la mia domanda è legata al fatto che l’incertezza, oggi, come dice anche Veca nel suo libro, è connessa anche ad un fatto molto preoccupante, che di solito tutti chiamiamo crisi della politica. L’incertezza non è più tanto tra una scelta o un’altra, ma è dovuta al fatto che la politica, nelle sue istituzioni, nei suoi partiti, nei suoi uomini, vive una crisi fortissima e sembra generare un senso di apatia diffuso. Mi chiedo se questa incertezza non rischi di mettere in crisi anche quel senso di giustizia che è il fondamento ultimo del nostro agire politico. Questa è la prima domanda che ti pongo.

Veca:
Non sfuggo al dovere della risposta, ma prima ho il dovere di ringraziare tutti voi per essere qui, e, per le parole che mi ha detto il professor Perrini, di cui ricordo la discussione su Seneca che tenemmo l’anno scorso proprio in questa sala. E ringrazio anche chi mi ha ricordato che sono un vecchio signore che gli insegnava anni fa, e che ho scritto troppi libri, visto che nel ’73 c’era già un mio libro. Ringrazio Paolo per la difficile domanda. Ora, cercherò di rispondere chiarendo i primi due punti. Cioè quello relativo all’incertezza nei criteri del giudizio, la storia dei bambini, come la chiamo io, e l’idea della filosofia politica, come prolungamento degli atteggiamenti naturali del giudicare. Cerco di chiarire questo per rispondere poi alla questione specifica sulla crisi della politica. Devo fare un po’ di altalena fra il mio libro e le questioni che per fortuna non sono nel mio libro, ma forse questo può servire a chi non lo ha letto per avere un’idea di come è fatto. La prima è un’idea molto semplice e generale, su cui ho lavorato per molto tempo per scrivere un libro, sfortunatamente molto grosso, che si chiama “Libro delle incertezze”. C’è una domanda: quando per noi è importante fare teoria su qualcosa? Quando siamo sfidati da qualcosa che è incerto, rispetto al quale siamo incerti su quale risposta dare. Se ammettessimo che ci fosse una specie di conclusione di questa vicenda, un deposito di certezze da una parte a fronteggiare incertezze che emergono dall’altra, avremmo l’idea del tedio e della fine, non della storia. Le teorie filosofiche e scientifiche sono le risposte costruttive che noi diamo alle sfide dell’incertezza quando essa investe il campo che per noi vale, ciò che per noi è importante, o il campo di ciò che vi è, a seconda che noi facciamo i fisici, o facciamo i giuristi, o facciamo gli economisti o facciamo i filosofi politici. Come la scienza, anche la filosofia politica è l’insieme delle risposte che nel tempo noi siamo interessati a dare a circostanze di incertezza. Naturalmente questo è troppo generale per essere informativo: può valere dal DNA fino ai problemi dell’ermeneutica teologica. Il problema è: incertezza relativamente a che cosa? Ci poniamo la domanda per cercare di arrivare al problema, appunto, della filosofia politica. Questo è un libro che si propone di essere un’introduzione alla filosofia politica; quindi parto ponendo delle domande ordinarie, elementari, quelle a cui accennava Paolo all’inizio. Per esempio, mi pongo questa questione: prendo in considerazione due bambini; uno nasce in una famiglia che lo desidera, che ha una certa cura di lui, un certo affetto, che ha libri in casa, che ha reddito; l’altro bambino nasce in una bidonville o in una favela, o se volete semplicemente in un posto in cui non è desiderato, o in una famiglia che non è propriamente una famiglia, o non ha genitori che si curano di lui. Questi sono due piccoli cuccioli d’uomo che non hanno scelto di nascere, non c’è nessuna responsabilità loro di essere buttati nel mondo. E noi sappiamo che, con ampia probabilità, il destino delle vite di questi nostri due bambini è segnato. E’ molto probabile che l’insieme dei vantaggi, non solo economici, ma anche culturali, con cui una persona viene al mondo, si scaricherà sulla quantità di risultati che questa, con probabilità, non necessariamente, otterrà. Quindi da una parte abbiamo una storia di lotteria, di fortuna, di sorte, naturale o sociale, che governa il destino della prima persona; e con molta probabilità il destino della seconda persona, sarà segnato dallo svantaggio, che governerà buona parte dei suoi handicap permanenti nella vita. La domanda è: questo è giusto? Come vedete la domanda non presuppone che uno abbia studiato ad Harward filosofia politica. Questa è una domanda che ciascuno di noi si può porre. Ma è difficile rispondere. L’incertezza consiste nel fatto che noi, prendendo sul serio una domanda così semplice ma così difficile, vorremmo poter disporre di un criterio del giudizio, quel criterio che applicato al caso in questione mi fa dire o che è giusto o che è ingiusto. Quindi, quando noi abbiamo bisogno di un criterio di giudizio, possiamo dire che abbiamo bisogno di un insieme di ragioni, di qualcosa che assomigli ad una teoria, la quale mi orienti nel giudicare, in questo caso, se sia giustificato o meno. In questo senso vanno le più sofisticate teorie contemporanee politiche, e intendo teorie politiche normative, cioè teorie politiche che si occupano di come dovrebbero essere il mondo e le istituzioni, di come dovrebbero essere, per dir così, le società, se fossero degne di essere come dovrebbero, e non teoria politica descrittiva, o, come si dice in economia, positiva o esplicativa, cioè quella teoria politica che mira a spiegare come sono le istituzioni politiche e i regimi politici. Quindi io intendo, grosso modo, la filosofia politica come la controparte normativa della teoria politica positiva, cioè della scienza politica. Noi possiamo chiederci: come sono fatte le democrazie rappresentative? E poi: come dovrebbero essere fatte se fossero degne di essere democrazie decenti? Sono in tensione, ma sono due domande diverse. Io mi occupo prevalentemente del versante della teoria politica normativa, quella che ci chiede di valutare. Il primo punto è questo: quando c’è incertezza, nei criteri del giudizio sulle cose politiche, diventa per noi importante disporre di una teoria, che per convenzione chiamerò teoria della giustizia, che mi fornisca o che proponga ad altri i criteri del giudizio. Naturalmente, nello sviluppo delle differenti teorie politiche normative contemporanee, cui prevalentemente è rivolta la seconda parte di questo libro, come fossero delle lezioni, ho simulato otto lezioni di filosofia politica del tipo di quelle che tengo all’università. Sono diverse le risposte che vengono date alla nostra prima domanda elementare. Si può rispondere in modi diversi, e dal punto di vista dell’onestà intellettuale, di uno che cerca di introdurre la discussione della filosofia politica contemporanea, io ho cercato di essere relativamente imparziale, cercando di presentare i diversi menù delle diverse risposte alternative. Ma veniamo al secondo punto, il problema della filosofia come prolungamento degli atteggiamenti naturali del giudizio. Questa espressione, Paolo l’ha già detto, parte da una cosa molto semplice. Immaginiamo che uno di noi ritenga ingiusto che i nostri due bambini vedano i loro prospetti di vita segnati da qualcosa che sfugge alla loro responsabilità. Potranno avvantaggiarsi o svantaggiarsi senza loro responsabilità. Quindi qualcuno potrà godere molto di un buon successo nella realizzazione di un piano di vita, senza che abbia contribuito granché, qualcun altro potrà soffrire di un grave svantaggio senza averne responsabilità. Qualcuno può trovare che sia ingiusto; qualcuno trova che non ci sia nulla di ingiusto o giusto, in questo caso è solo una questione di sorte. Ma se uno dice: “Non è giusto che…”, e un altro gli chiede: “Perché non è giusto che…?”; altri potranno dire: “Io trovo che non sia giusta la società, che le istituzioni siano fatte in modo tale che la lotteria naturale e sociale sia padrona delle nostre sorti. Trovo che dovremmo fare qualcosa o che la politica, o le istituzioni dovrebbero fare qualcosa, perché sia corretto questo effetto della sorte”. Allora uno può domandare: “Ma come potrebbe essere corretta?”, e così via. Se immaginate una conversazione di questo genere, sostanzialmente vedrete che chiunque di voi prenda sul serio l’idea di comunicare ad altri le ragioni che sottostanno al suo criterio del giudizio, è qualcuno che sta esemplificando; è un esempio, diciamo, in una pratica di conversazione con altri, nella cerchia della conversazione umana; sta esemplificando modi del giustificare, che a mio avviso sono il paradigma, l’esempio di ciò che chiamo senso di giustizia. Il problema per i bambini è diverso. Ci sono grandi studi, come sapete, di psicologia dell’età evolutiva, sugli stadi degli sviluppi della competenza normativa, morale, i famosi studi di Piaget, o di Colberg. Immaginiamo che si tratti di una persona che per convenzione definiamo adulta; e sono convinto che in questa sala chiunque ha senso di giustizia. Posto di fronte ad un dilemma, non voglio dire che è capace di rispondere, ma è capace di percepirlo, di cogliere la sua natura di dilemma che chiama in causa il giusto e l’ingiusto. Naturalmente il fatto che ciascuno di noi in questa sala abbia il senso di giustizia, non vuol dire che ciascuno di noi ha la stessa teoria su che cosa implichi avere il senso di giustizia. L’avere il senso di giustizia è semplicemente la proprietà che esemplifica, che rappresenta, che si esprime nelle nostre pratiche inter soggettive, sociali, comunicative, miranti alla giustificazione o meno di norme, istituzioni politiche, pratiche sociali, e chi più ne ha, più ne metta. Quando ci interroghiamo, perplessi o angosciati, sulla guerra nei Balcani, una delle ragioni della nostra ansietà sta nel dilemma se vi siano ragioni che giustifichino il ricorso alla violenza o alla forza militare. Il problema della guerra giusta non è il problema della guerra santa ne’ della guerra etica. E’ assurdo che qualcuno prenda sul serio l’idea del giustificare. Il problema della guerra giusta è questo: se vi sono ragioni che giustificano o meno il ricorso a forme di violenza. Allora io penso che la filosofia politica e le teorie normative nel senso detto, chiamiamole per convenzione miranti alla giustificazione o teorie della giustizia, non sono altro che lo sviluppo intellettuale di questi atteggiamenti ordinari che ciascuno di noi può avere, indipendentemente dai cerimoniali o dai rituali della tecnica del lavoro filosofico. Il secondo punto è: i nostri atteggiamenti naturali, il senso di giustizia che si esprime nelle pratiche della giustificazione, possono essere sviluppati intellettualmente da persone che hanno più tempo da dedicare a queste cose, piuttosto che ad altro, e danno luogo a teorie. Una vecchia battuta dice che anche la scienza non è altro che prolungamento del senso comune; è questa l’accezione in cui intendo il prolungamento di atteggiamenti naturali. Ma veniamo al punto. Paolo Ferliga mi dice che noi assistiamo da tempo, non solo in Italia, a fenomeni di antipolitica o di ritiro di fiducia nella politica da parte di ampie frazioni di popolazione. Lui mi chiede se questo non possa generare un tipo particolare di incertezza e a sua volta, questo non possa erodere le basi del senso di giustizia più o meno condiviso. Devo dire che io ho pensato alla possibilità di riformulare alcuni grandi programmi di filosofia politica, alla luce di differenti circostanze e di incertezze, partendo da una prima classe di circostanze di incertezza. Quella in cui è al grado uno, cioè è radicale, è quella in cui l’incertezza investe i nostri rapporti mutui, il tasso di aspettative che si può avere sul comportamento di ciascun altro; è uno stato di natura, come si sarebbe detto, è un caso in cui collassa la risorsa della fiducia tra me ed altri e tra altri e me. Poi ci sono circostanze in cui, restando immunizzato rispetto all’incertezza lo sfondo delle istituzioni, noi abbiamo una incertezza generata dal confronto pubblico, dalla discussione pubblica, non del tipo, naturalmente, se devono esservi istituzioni politiche o no, ma del tipo come devono essere le istituzioni. Vi è controversia su quale debba essere il disegno delle istituzioni, e allora abbiamo filosofie politiche che cercano di darci i criteri per orientarci nella discussione pubblica, quando essa sia intelligente. C’è una terza classe di circostanze di incertezza, che sono quelle a cui si riferiva Paolo Ferliga; in esse non vi è questione quanto alla mutua fiducia fra noi, ma vi è incertezza sul fatto se la politica meriti da parte nostra una perdurante lealtà. La percezione è che la politica sii cosa della politica e non sia cosa dei destinatari della politica; siamo estranei, in qualche modo quello della politica è un ambito che ha come interesse quello della politica, non quello della società in cui noi siamo, e quindi percepiamo come remoto l’ambito delle istituzioni politiche rispetto ai nostri diritti o al nostro benessere, o ai nostri bisogni, o ai nostri interessi. Allora si revoca la fiducia nei confronti della politica, o si ritiene la politica superflua, affare di chi fa politica, oltre che un costo grave per la società. Questa naturalmente non è teoria politica normativa, ma descrittiva. Negli studi che sono stati fatti dagli inizi degli anni ’90 in avanti vedete che la politica è percepita o come costo, o come affare dei politici, o come superflua; in qualche modo noi non vorremmo interessarci a lei, ma, come dice una vecchia battuta, è lei che si interessa di noi. Questo insieme di atteggiamenti costituisce una famiglia che scava una sorta di fossato crescente, fra l’esservi istituzioni politiche e il buon funzionamento di queste, e l’esservi una più ampia cerchia della società, che in qualche modo divorzia, spezza la catena della lealtà civile. E’ chiaro che qui le pratiche della giustificazione presuppongono una qualche forma di comunità, non nel senso stretto del comunitarismo, perché presuppongono che noi usiamo il pronome “noi”. E’ difficile che io giustifichi qualche cosa, anche quando mi giustifico da qualcuno che avanza una pretesa; uno mi dice: “Lei professore agli esami non ha fatto…”. E’ difficile che io gli risponda: “Guardi, le ragioni per cui ho fatto così dipendono dal fatto che io ho fatto così”. Non è una buona giustificazione, e se io fossi uno studente cercherei di allontanare un tale professore. In generale io tenderò a presentare delle ragioni che valgano per altri. Se ci pensate, tutte le volte che noi miriamo a giustificare, cerchiamo di costruire una comunità di condivisione delle nostre ragioni. Quando un bambino chiede: “Perché fai così?”. Allora è difficile che uno risponda: “Guarda, stai buono”. Forse è sbagliato, ma spesso si fa: “Guarda è così perché lo faccio io”. Questo è il principio del nome proprio, cioè il principio di Caligola o di Pericle. Le ragioni per cui si fa così sono le ragioni di Salvatore Veca, quindi questo non è un argomento interessante per uno che non è me, ma difficilmente io proporrò un argomento di giustificazione basandomi su ragioni che siano personali. E’ naturale, chiunque di noi ha in mente ragioni che valgano in qualche modo impersonalmente, cioè valgano per una comunità più o meno ampia, fino ad essere la comunità dei fratelli o delle sorelle del genere umano; però, dalla piccola comunità alla grande comunità, la giustificazione presuppone sempre la condivisione di qualcosa. Se i fenomeni di crisi della politica, di antipolitica, di apatia politica, a cui accennavo prima, hanno un effetto, è quello di rompere le cerchie della condivisione. Allora anche l’interesse per la giustificazione, cioè l’interesse per un senso di giustizia condiviso, va in tandem, e quindi sarà meno probabile che vi siano risorse per impegnarsi nella giustificazione, perché si sfilacceranno, si ridisegneranno i confini del noi. Questo è il dilemma tipico che io cerco poi di catturare nelle ultime parti del libro, quando sostengo che diverse questioni affrontate nella teoria politica della giustizia, per buona parte della seconda metà di questo secolo, sono state le questioni tipiche di un conflitto intorno a distribuzioni alternative di valori sociali o di beni sociali. Questa fine secolo vede invece lo slittamento da questioni di conflitto distributivo in senso standard a questioni di conflitto mirante al riconoscimento di identità. E la questione dell’ antipolitica ridisegna le identità: ridisegna le identità di cittadinanza, le identità del far parte di una qualche comunità politica, perché vuol dire che c’è disgregazione invece di condivisione. Questa è la prima risposta che darei, spero chiara.

Domanda:
La seconda questione è indubbiamente legata alla prima, perché davanti alla crisi della politica viene sempre più in luce una proposta di risoluzione dei conflitti politici, che tende ad eludere del tutto la politica e a dire che è il mercato che risolve i problemi. Per cui attorno a questa idea che io rendo nella sua forma più banale, più quotidiana, ma che sentiamo spesso o alla televisione o leggiamo sui giornali, ci sono delle teorie politiche: da una parte l’utilitarismo, dall’altra il libertarismo, di cui parli nel tuo libro. L’idea è che la politica sia del tutto accessoria e consequenziale a scelte che si definiscono in termini di domanda e di offerta sul mercato. In questo senso mi interesserebbe che tu esponessi invece quella teoria alternativa che sostieni di una giustizia come equità, che per me ha il pregio di porre nuovamente al centro la politica come capacità autonoma di fondarsi nel suo agire e non consequenzialistica rispetto a ragioni di tipo economico o in senso, diciamo, molto lato, utilitaristico. Sento che questo ridà centralità alla politica e in un certo senso dovrebbe essere un ragionamento che facciamo, anche se ci sta ancora a cuore quella comunità di cui parlavi prima e vogliamo evitare che l’apatia, in buona misura giustificata, dato il panorama politico, ci porti ad una rottura nella comunità, che potrebbe preludere anche a qualcosa di tragico.

Veca:
Senza abusare della vostra pazienza, dato che prima sono stato un po’ lungo, cercherò di essere più conciso.
Il riferimento all’utilitarismo è complicato. L’utilitarismo nei paesi continentali non ha mai goduto di buona stampa; ma certamente è la più antica, la più remota filosofia pubblica o filosofia politica moderna. La filosofia sociale del diciottesimo secolo delle riforme, non del diciottesimo secolo della rivoluzione, è una filosofia dell’utilità collettiva, del benessere collettivo, della felicità del maggior numero, mentre quella rivoluzionaria non è basata sull’utilità, ma sui diritti. Occorre avere l’onestà intellettuale di riconoscere che un approccio utilitaristico, difficilmente difendibile, ha tuttavia dalla sua un punto di forza, perché la risposta utilitaristica, dal punto di vista dell’utilitarismo sia classico sia contemporaneo, è del tipo “ex ante”: indipendentemente dalla valutazione delle conseguenze, se sia preferibile che l’educazione, la sanità, siano pubbliche piuttosto che private. Dipenderà, la risposta, dall’essere favorevoli o meno alla pubblica produzione di un certo bene, dall’ordinamento delle preferenze, cioè dal sistema dei bisogni, dei desideri, delle aspirazioni di quella società in quel preciso momento. Quindi la risposta dell’utilitarista al quesito se dovremmo produrre beni pubblici, che naturalmente vanno finanziati con le tasse, sarebbe affermativa se, essendo la produzione di quei beni pubblica, raggiunge il saldo massimo di benessere collettivo. Se non si raggiunge il saldo massimo, non è giustificato. L’utilitarista valuta le conseguenze in termini di utilità o disutilità collettiva, non individuale. Quella misura, quel provvedimento, massimizza o meno il benessere collettivo? Se lo massimizza è giustificato; se non lo massimizza si deve cambiare. Quindi dal punto di vista teorico, l’utilitarista non dà una risposta alla domanda che tu ponevi, rinvia alla valutazione delle conseguenze sull’unico valore intrinseco per l’utilitarismo, che è una qualche grandezza sociale variamente interpretata come utilità sociale, come utilità collettiva, come benessere collettivo. Vi è invece una posizione, che ha preso più forza negli ultimi 25 anni, e che io credo costituisca una delle due principali, in tensione fra loro nelle democrazie costituzionali nella parte ricca del mondo. Questa posizione è quella così detta libertaria, che fonde un argomento a favore, come è noto, della massima estensione del mercato, inteso come arena delle scelte individuali; approva, giustifica la massima estensione possibile di quanto è affidato alle scelte individuali, e la massima riduzione possibile di quanto è affidato alla scelta pubblica o collettiva. E’ l’idea classica dello stato minimo, dello stato custode, che è tornata prepotentemente nella discussione pubblica a partire dalla metà degli anni ’70, prima negli Stati Uniti, poi in Inghilterra, poi negli altri stati. Questa non è una tesi consequenzialistica; è una tesi ex ante, cioè è una tesi di principio che è basata su questo argomento. Sono più facili gli argomenti a favore del mercato in nome dell’efficienza sociale, ma non è questo l’argomento forte della posizione libertaria. Il libertario sostiene che il mercato va difeso, e massima deve essere la sua estensione, non nei termini di una valutazione di efficienza, ma nei termini di presidio e di tutela delle libertà individuali delle persone. C’è questa battuta in un libro straordinario del ‘74, che da poco l’autore ha rivisto; si chiama “Anarchia, stato e utopia”. Robert Nozick comincia dicendo: “Gli individui hanno diritti fondamentali di tale forza e di tale portata che c’è da chiedersi se qualcuno e in primis l’autorità politica possa fare qualcosa senza violarli”. E’ un’asserzione molto forte. Se accettiamo l’idea che ciascuno di noi, come individuo, è protetto nella sfera della sua autonomia, e questa sfera che ci circonda è protetta da diritti, questi sono diritti negativi, con cui blocchiamo l’azione degli altri, anche dell’autorità. Se qualcuno accetta questo, accetta che deve essere uguale la libertà negativa delle persone, cioè che ciascuno di noi ha diritto come ciascun altro ad uno spazio di libertà rispetto a qualunque interferenza, paternalistica o pubblica. Se riconoscete questo, quanta scelta pubblica è possibile fare, senza violare gli spazi di libertà delle persone? La tesi di Nosic è relativamente moderata, perché i più radicali sono i così detti anarco capitalisti. Si può pensare che vi sia uno stato minimo che può tassare; la tassazione non ha fini redistributivi, ma serve esclusivamente al finanziamento dell’agenzia protettiva dominante che tutela i diritti negativi delle persone. Quindi si finanziano polizia, tribunali, la produzione e ovviamente le corti. Io ho il diritto di tassare le persone soltanto per raccogliere risorse che finanzino ciò che protegge i loro diritti. Qualcuno potrà dire: “Ma quello sta morendo di fame, ha tutta la libertà negativa di quell’altro che sta benissimo”. Se volete essere compassionevoli è fantastico, ma non convertiamo la carità in obbligo politico, perché distorciamo sia la carità sia l’obbligo. Volete finanziare come bene pubblico l’educazione? E dove va a finire la libertà delle persone di scegliere per i loro figli il tipo di educazione che loro autonomamente ritengono sia giusto che abbiano? Questa è una tesi. Io ed altri sosteniamo una alternativa a questa. Voi sapete che, tradizionalmente, quando uno presentava una tesi come quella a cui ho fatto cenno, sui diritti delle persone e le scelte individuali, l’idea era che si contrapponessero a questa prospettiva coloro che ritenevano essere non la libertà, il valore prioritario, quello che sta sopra gli altri e che quindi vincola gli altri, ma l’eguaglianza. Lasciamo stare il fatto che sia il termine libertà come sostengo nel secondo paragrafo, sia il termine uguaglianza, non vogliono dire niente se non si dice libertà di chi, rispetto a cosa, se non si dice eguaglianza di chi, rispetto a che cosa. Penso che bisognerebbe sistemare la faccenda in questo modo: voi libertari sostenete che, se la libertà è il valore prioritario, allora non è giusto che si producano beni pubblici, che si soddisfino diritti che non siano quelli negativi al proprio spazio di scelta; ma noi che sosteniamo la giustizia come equità, non diciamo che sia sbagliato ritenere le libertà delle persone il valore prioritario. La differenza è che noi, sostenitori della giustizia come equità contro i sostenitori del libertarismo e dello stato minimo, riteniamo che il fatto che le persone abbiano le eguali libertà fondamentali, uguali i sistemi delle libertà, non ci dice ancora se il valore di quelle eguali libertà è uguale o meno per le persone. Abbiamo la stessa libertà di uscire da questa aula, perché il numero delle porte per ciascuno di noi è uguale. Assumiamo che ci siano due porte. Noi siamo tutti egualmente liberi di uscire da due porte. Ma questo non mi dice quale valore questa libertà abbia, per il fatto che ciascuno di noi ha un differente tipo di gambe. Io, per esempio, sono sicuro che sarei battuto da molti di voi, e altri sarebbero a pari con me, e via dicendo. L’avere uguali libertà in questo senso, non mi dice quanto può valere per me questo. Dobbiamo mirare ad eguagliare il valore dell’uguale libertà per le persone? Questo è il conflitto. Naturalmente tutto questo è molto astratto. Torniamo alla faccenda dei bambini da cui sono partito, l’idea, terribilmente difficile da realizzare, della eguaglianza delle opportunità. Io voglio far sì che entrambi, che hanno differenti posizioni di partenza, dovute a cose che non meritano o demeritano, possano avere una eguale, o una meno diseguale probabilità. Perché l’eguaglianza delle opportunità vuole dire eguaglianza di probabilità di riuscire negli scopi che si porranno nella vita. E’ molto diverso se uno cade vittima di severo svantaggio in quanto questo dipenda dalla sorte, o se qualcuno cada vittima di severo svantaggio in quanto questo dipende dalla sua responsabilità. Nel primo caso qualcuno avrà diritto di avanzare una pretesa su altri. Ma nel secondo caso la responsabilità individuale entra in gioco. Questa idea di equità, di equa uguaglianza delle opportunità, è un’idea difficilissima da realizzare; i primi esempi, come voi sapete, sono nelle politiche educative, e il problema dell’educazione è di nuovo un problema a fine secolo, soprattutto per le società ricche, per evitare che le società diventino società di caste, in cui la sorte segna un sacco nella prospettiva delle persone. Società che si ingessano, società in cui ristagnano le cerchie sociali, e la mobilità sociale va a zero. Ma adesso lasciamo stare. Non è in nome di una eguaglianza che uno dovrebbe chiedere alle istituzioni e alle politiche di mirare a realizzare una approssimazione a una minore ineguaglianza delle opportunità, ma è in nome del valore della libertà per le persone. Perché sarebbe una promessa fatua ed ipocrita dire: “Tu sei egualmente libera rispetto a quell’altra”. Ma questo non è nuovo; è solo un modo di mostrare una ricorrente tensione tra due diversi. Io li considero entrambi legittimi. Sono un accanito sostenitore della seconda prospettiva della giustizia come equità, ma non penso che l’altra, quella dei libertari, sia una prospettiva che è fuori dalla legittima competizione fra alternativi modelli di interpretazione su quale sia l’interesse collettivo a lungo andare. Allora, mentre nel primo caso gli utilitaristi sono neutrali, e direbbero: “Non ha senso porre in questo modo la questione, perché ci sono condizioni in cui per massimizzare il benessere collettivo si deve privatizzare, fare più mercato, e ci sono condizioni in cui è il contrario, ma questo non dipende da quello”. La tesi libertaria dice: “Massima deve essere l’arena lasciata alla libertà delle scelte individuali, e minima quella a responsabilità collettiva e a scelta pubblica”. La tesi sull’equità non è una tesi contro il mercato: stiamo parlando di eguali libertà fondamentali delle persone, fra cui la libertà di scegliere, di intraprendere, di consumare. E’ una tesi sul fatto di quale spazio sia lo spazio appropriato per il mercato. Con un’idea di fondo, che sia solo gergale la faccenda del mercato come una specie di fenomeno naturale. Il mercato è un costrutto sociale, come tutti noi sappiamo. Come sapeva il primo autore della teoria dei sentimenti morali, i mercati si reggono su una moralità soggiacente fatta di lealtà, di fiducia e di promesse, e questa è una cosa che non dovrebbero dimenticare neanche coloro che affidano al mercato più di quanto io ritenga ragionevole affidare ad esso.

Domanda:

Farò due domande nell’ultimo mio intervento, che sarà brevissimo, in modo che tu possa anche gestire il tempo come vuoi.

Una viene richiamata dalla nostra prima domanda elementare, che ci pone un problema di giustizia rispetto alla sorte di un bambino nato a Brescia, o nato in India, o nato in Africa. E richiamo un tema che abbiamo già discusso insieme due anni fa, quando sei venuto a Brescia per parlare sulla globalizzazione, perché la questione, che mi preoccupava allora e che già era dibattuta in Europa, ma in Italia direi con un po’ di ritardo, era il rapporto tra dimensione locale e dimensione internazionale in un epoca che non è più solo di globalizzazione dei mercati, ma anche di istituzioni e di regole politiche. Anche nel tuo libro accenni alla posizione dei comunitaristi, cioè di coloro che sottolineano i limiti del liberalismo nel cogliere i legami sociali della comunità, criticano le posizioni del liberalismo, tanto in quella versione libertaria, quanto in quella della giustizia fondata sull’equità, e ritengono che il liberalismo non sia in grado di dare una risposta al tema dell’identità. Tema che tu stesso dici venire prima della questione degli interessi, perché se non c’è una identità sociale o comunitaria non è possibile neanche definire che tipo di interessi vanno soddisfatti per questa o per quella comunità. Poi dici, ed è su questo che ti vorrei sollecitare a rispondere, che invece il liberalismo nella versione della teoria della giustizia equa, si fa carico anche di questo problema.

La seconda domanda, che è legata a questi temi dall’urgenza del presente, a cui tu hai già fatto riferimento nel tuo primo intervento, è che tipo di risposta possiamo dare, assumendo la teoria della giustizia equa, alla questione della guerra, un problema che credo ci angosci tutti e che vogliamo affrontare in questa sede con toni pacati e razionali. Penso che a questa domanda non ci possiamo sottrarre.

Veca:

Vorrei dire qualcosa sul primo punto; e semplicemente cercare di chiarire i termini in discussione per quanto riguarda la seconda questione, quella che riguarda la guerra. Vorrei comunicarvi una mia convinzione maturata nella ricerca, di cui avevo parlato anche in quel convegno: tutti i termini del nostro vocabolario politico, come giustizia, equità, mercato, diritti e così via, derivano dal riferimento implicito o esplicito alla idea di comunità politica dotata di confini. Prendete i termini classici: contratto sociale, obbligo politico, pactum societatis, cioè patto di una società, diritto di resistenza, disobbedienza civile, fisco, scuola. Tutte le volte che ho fatto questi esempi, voi a cosa pensavate? Credo che chiunque di noi, quasi sempre, se deve pensare a questo, pensa ad una situazione che ha un riferimento al versante interno delle comunità politiche. Allora il fisco è il fisco italiano, la scuola pubblica è la scuola pubblica in Italia, etc. Perché effettivamente la scatola degli attrezzi con cui ragioniamo è derivata in buona parte dalla costruzione delle comunità politiche moderne, la vicenda della formazione degli stati territoriali moderni, il contesto entro cui si modellano. Eredità classica ed elaborazione del medio evo: buona parte delle operazioni della ragione ci arrivano da lì. Quindi la stessa idea del giustificare, da cui ero partito, è qualcosa che in generale presuppone il riferimento a comunità politiche che includono coloro che includono, ed escludono altri che sono inclusi da altre parti, salvo coloro che attraversano i confini. Ora, credo sia facile mostrare in che senso uno dei principali dilemmi che noi abbiamo in questa fine secolo, processo che si è accelerato in questi ultimi quindici anni, è se e come sia possibile estendere i criteri, i nostri strumenti concettuali, dal versante interno, da una comunità politica chiusa, alla arena della comunità internazionale. I nostri colleghi nei dipartimenti di informatica e di economia l’hanno già fatto da tempo, soprattutto in sede di economia finanziaria; ci sono un sacco di cose che attraversano tranquillamente i confini e i nostri colleghi che si occupano di media e tecnologia di media l’hanno già fatto da tempo, ma sembra che nei dipartimenti di politica o di filosofia politica siamo rimasti appartati e pensosi, senza accorgerci di un mondo che si deformava, e con esso cambiavano anche i confini e il riferimento alle comunità politiche chiuse. Io credo che, come accennavo prima, il fatto che la questione di spicco, per buona parte di questo secolo, sia stata la questione della giustizia sociale, era un modo per rispondere al fatto che il conflitto distributivo del tipo puro era quello centrale. Il conflitto distributivo del tipo puro è: a chi? Quando? Come? Che cosa? Chi ha diritto a quanto? Si capisce bene che, dal punto di vista analitico, perché si dia un conflitto di questo genere bisogna che coloro che confliggono abbiano una stessa cosa fondamentale: devono disporre di una metrica per valutare vantaggi e svantaggi. Sembra un po’ astratto, ma è proprio così. Non deve essere in questione la loro identità, il modo in cui si riconoscono; non è in questione il nostro riconoscerci, per esempio, come cittadini o cittadine di una comunità politica; sono in questione le spettanze che competono a qualcuno in funzione di vari criteri. Quindi non sono in questione i modi in cui ci riconosciamo gli uni con gli altri, cioè le nostre identità, ma i nostri interessi. Però, al generarsi di processi crescenti di globalizzazione o di interdipendenza, che stanno o sotto o al di là dei confini degli stati nazione, noi sappiamo che segue una reazione, un’attitudine reattiva in cui il conflitto distributivo lascia spesso il posto a scontri che non riguardano i nostri interessi contrapposti, ma riguardano i nostri modi di riconoscerci come identità distinte. Se ci pensate, l’esplosione dei così detti revival identitari, dovuta al collasso geopolitico degli anni ’80, è qualcosa che sembra andare insieme al processo inverso. Per un verso siamo tutti più cittadini del mondo, o cittadine del mondo, ma per l’altro verso aumenta il numero dei nemici, aumenta il numero di coloro che miriamo a identificare come altri o come diversi. Ricordate questa battuta straordinaria di Kant, quando dice, alla fine del ‘700: “Siamo ora in un’epoca in cui la violazione del diritto in un punto della terra è avvertita come tale in tutti i punti della terra”. Terzo articolo della pace perpetua: diritto cosmopolitico, diritto di visita e dovere di ospitalità per chiunque, indipendentemente dal suo appartenere ad una o ad un’altra comunità politica. Non banale. Quindi, da una lato, se ricordate tutti gli anni dal 1989 in avanti, sono stati quelli della grande speranza cosmopolitica, in cui le prime guerre della post guerra fredda hanno avuto il carattere delle vecchie guerre sporche. Ma queste sono guerre, anche miranti al riconoscimento di distinta identità. Questa è la cosa che vorrei suggerire: io credo che per la filosofia politica, come dico forse anche troppe volte, il dilemma, il rompicapo di fine secolo è quello dell’estensione del paradigma della giustificazione. Riusciamo ad estendere i nostri arnesi così a lungo elaborati entro i contesti locali, riusciamo a tirarli o, come dicono gli inglesi, a strecciarli in modo tale che possano fornire orientamento nei criteri di valutazione, non delle singole comunità politiche, ma della dimensione di un pianeta piccolo ed inter dipendente, molto inquinato, pieno di guai e di ineguaglianza da una parte all’altra. Ora, questa è la questione che mi sta più a cuore.

Un chiarimento terminologico che avevo accennato anche prima sulla questione della guerra in Europa. Come accennavo, negli ultimi venti, venticinque anni, soprattutto ad opera di filosofi politici statunitensi che avevano avuto una intensa esperienza militante, negli anni ’70, contro la guerra in Vietnam, da loro ritenuta un esempio di guerra ingiusta, è ritornato nel lessico, nel bagaglio della discussione filosofica contemporanea, un insieme di nozioni molto antiche, che risalgono, diciamo, all’elaborazione della teoria delle guerre giuste e ingiuste, e delle tesi sulla differenza, come si usa dire, fra lo ius ad bellum e lo ius in bello. Il modello, in questo secolo, è stato, dopo la tragedia della seconda guerra mondiale, il paradigma dell’autodifesa; quindi l’idea è lo ius ad bellum, o, in caso di aggressione, lo ius in bello. Il primo riguarda i fini che sotto circostanze speciali possono giustificare il ricorso alla guerra; il secondo, lo ius in bello, i mezzi, le condotte, i modi. Questa è un’antichissima distinzione, che trovate già nel medio evo: i modi con cui perseguire quei fini, posto che quei fini siano giustificati. C’è chi ritiene che in nessun caso si diano circostanze che giustifichino il ricorso alla forza militare. Queste sono posizioni di carattere assoluto, sostanzialmente; quindi non ci sono condizioni che esonerino dal fatto non solo che la guerra è male, perché questo è noto, ma che la guerra è male in sé, quindi non può essere usata neppure come risorsa per ridurre del male: queste sono tesi presenti nella grande tradizione del pacifismo. Ma se qualcuno ha in mente che ci sono dei casi in cui si può dire che fu giusto lottare contro i nazisti, e contro i fascisti, allora ci si deve poter chiedere se in altri casi ci siano ragioni, per sostenere che sia giusto combattere contro coloro che generano sofferenza umana intollerabile. Questo problema, nel caso del Kossovo, si complica, per il fatto che le ragioni dell’intervento dell’alleanza atlantica sono state presentate come ragioni dettate dal principio dell’ingerenza umanitaria, molto recente e molto controverso, nell’ambito della elaborazione più recente del diritto internazionale, per il fatto che per un verso esso sembra corrispondere a quel farsi globale del bene e del male nel nostro pianetuccio, e sembra ricordare la battuta di Kant: “ La violazione del diritto di una persona in punto del pianeta della terra è avvertita come tale in tutti gli altri punti”. E allora, come dicono i giuristi internazionali: “Se violazione sistematica, permanente, grave e severa di diritti umani fondamentali delle persone o di gruppi, crimini contro l’umanità hanno luogo, allora questo giustifica il ricorso alla guerra, qualora siano venute meno le risorse negoziali”. Questo è stato il modo in cui la questione è stata posta. Io non sto dicendo che sia così. Noi non sappiamo quale sia stata la logica che ha guidato il modo di negoziato, né perché non fosse prevedibile. O forse era prevedibile che un intervento giustificato, o giustificabile alla luce dell’ingerenza umanitaria, per ridurre il male del crimine contro l’umanità, o del genocidio, o della deportazione di massa degli albanesi in Kossovo, abbia accelerato la catastrofe umanitaria. Sono conseguenze non attese? Sono effetti non previsti? Sono effetti collaterali? Questo secondo tipo di interrogativi è quello che, a mio avviso, dovrebbe indurre a chiederci se qualcuno di noi ritiene che ci possano essere ragioni per cui era giusto combattere contro i nazisti e contro i fascisti. Allora dovremmo però interrogarci sul fatto se i mezzi di questa guerra non finiscano per mangiarsi i fini che la giustificano, o che avrebbero potuto giustificarla. Questo però non riguarda il problema della giustificazione o meno; questo riguarda il problema della adeguatezza, o, come si diceva nella vecchia terminologia, della proporzionalità. Ci sono casi perversi, in cui avere un deficit di ius in bello contrae la giustificazione dello stesso ius ad bellum. Io non ho certezze su questa cosa, ma mi chiedo e vi chiedo se per caso noi non siamo di fronte ad una situazione di questo tipo. E allora questa situazione dovrebbe non essere accettata, cioè non avrebbe ragione di essere giustificata. Ripeto, è molto difficile; ma se c’era un modo per giustificare, era quello di dire che questo male riduce un male molto maggiore. Ma se gli effetti della condotta militare sono effetti che aumentano il male, collassa la legittimità in guerra, e ciò si trascina dietro la non legittimità della guerra. Questo è il dilemma come io semplicemente lo sento, e vi assicuro che non ho risposte certe. Ma sono convinto di una sola cosa: dobbiamo essere in grado di trovare risposte a domande di questo genere. Non è possibile che la discussione sia governata esclusivamente dal riferimento alla logica dell’azione militare. Bisogna mantenere aperta la percezione quando vi sia, o accenderla quando non vi sia, perché dobbiamo saper rispondere a questo. Perché ognuno di noi ha responsabilità, grandi o piccole che siano. E su questo non dovremmo tacere.

NOTA: testo non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 28.4.1999 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.