Ideologia e utopia

Il concetto di ideologia è uno dei più disputati dalla cultura filosofica storica e sociologica del nostro tempo. Non resiste quella «scienza delle ideologie» a cui molti studiosi guardano da tanto tempo. Si dà per scontato che la filosofia contemporanea ha acquistato la coscienza che le grandi concezioni della vita e della realtà affondano la loro radici sul terreno mobile delle strutture e dei rapporti sociali, ma a questo riconoscimento non corrisponde affatto una concorde valutazione dei limiti e delle determinazioni dell’atteggiamento ideologico e della sua funzione. «Non esistono concezioni del mondo innocenti», si va ripetendo e ogni forma di esperienza è incomprensibile quando sia isolata dal suo tessuto sociale. Ma il punto che resta sempre da discutere è se alle condizioni ideologiche, con il loro carattere non scientifico, non consapevole delle loro vere radici, si possa attribuire una qualsiasi perfettibilità, o almeno una funzione positiva ai fini dello sviluppo umano e della sua realizzazione storica.
Assai spesso l’ideologia nasce da una utopia o mette capo a un’utopia, cioè ad una soluzione extra-storica dei più gravi problemi dell’umana convivenza. Ci si chiede perché mai abbia tanto fascino l’utopia. Non è facile rispondere. C’è in essa un ardente, per quanto distorta, aspirazione al valore; e c’è pure, altrettanto evidente, una fuga dal reale, anche se fuga in avanti, nei cieli fioriti della fantasticheria. L’utopismo, radicalmente pessimista per il passato e il presente, punta sulla esaltante «non defettibilità» dell’uomo, in quanto soggetto di una società futura. L’utopismo, quali che siano i suoi punti di forza nella pars destruens, è un’illusione cosciente, «un gioco senza scacco», un gioco da cui sono a priori esclusi esiti negativi, scettici o anche solo disarmonici.
Il mondo dell’utopismo è «schizoide»: nasce da un pessimismo impotente e programma, a sua volta, il divieto della mestizia. L’azione inconcludente, inibita, si compensa con l’utopia; l’incapacità ad entrare in comunicazione con gli altri spinge a fantasticare uno stato sociale, da cui sono cancellate in modo sconcertante la dimensione personale e l’interiorità.
Secondo il duro giudizio di Hegel gli utopisti possono sorgere solo negli interstizi della società, così come i pidocchi che non vivono senza un corpo organico di cui sono i parassiti. Altri preferisce l’immagine di Baudelaire: l’utopismo è come l’albatro, bello nel cielo quando vola, goffo quando tocca terra. Comunque sia, è certo che emergono nell’utopismo del nostro tempo tre caratteri di fondo: l’illusione tecnologica (Skinner), l’illusione pansessualistica (Marcuse e Reich) e l’illusione liberatrice (Marx e Bloch). Gli esiti terrificanti di queste falsificazioni della vita e della storia sono però sotto gli occhi di tutti: il terricidio è tecnicamente possibile; il consumismo sessuale e la perversione sessuale uccidono l’amore autenticamente umano; l’assoluto terrestre del comunismo ha forgiato uno strumento di spietata dittatura e di gigantesca oppressione quale nessuna epoca anteriore alla nostra conobbe.

Il rapporto tra ideologia e utopia suggerisce evidentemente ben altre riflessioni. Ci preme sottolineare questa: non l’una o l’altra, ma ogni ideologia per sua natura tende a farsi propaganda e, come aveva ben visto Gabriel Marcel, prende corpo nella misura in cui si sviluppa contro una certa categoria di uomini. Il periodo più grave pertanto non è l’errore, presto o tardi individuato e condannato, ma l’illusione che l’ideologia diffonde. Essa, infatti, non è senza una certa porzione di verità, ma coltiva la malafede, oggettiva nei suoi adepti, mascherando la sua parzialità faziosa mediante compensazioni più o meno fittizie e mettendo in azione un vero e proprio meccanismo dell’oblio, per cui mette tra parentesi, nega e nasconde tutte quelle verità spiacevoli che la riguardano direttamente o indirettamente.
In ogni caso la falsità della coscienza non può essere smascherata se non da una coscienza più criticamente vigile che muova incontro alla verità, come valore che specifica la sua ricerca. Tuttavia è proprio questa possibilità che ci fa toccare con mano in quale circolo vizioso si racchiudono i marxisti nell’atto di fare della coscienza qualcosa di costitutivamente «derivato e secondario». I marxisti, infatti, non si rendono conto che se la coscienza fosse sempre del tutto separata dalla verità, essi stessi sarebbero ridotti al silenzio e nessun pensiero, nemmeno il loro, potrebbe pretendere di attingere qualsiasi verità. «È inutile – osserva Merleau-Ponty – rispondere che il marxismo è vero soltanto come ideologia della classe in ascesa: infatti il marxismo e la teoria del sociale, come dice Lenin, sono introdotti dal di fuori all’interno della classe operaia, e ciò significa che ci può essere verità anche al di fuori del proletariato, e che, al contrario, tutto quello che viene dal proletariato in una società in cui è impotente, è contaminato dalla borghesia. Così il marxismo ha bisogno di una teoria della coscienza che renda conto delle sue mistificazioni senza impedirle di partecipare della verità» (“Les aventures de la dialectique”, Gallimard, Paris, 1955, p. 58; trad. it. Sugar – Milano, 1965).
Il fatto è che, contro ogni comodo alibi, non bisogna nemmeno accontentarsi di opporre ideologia e scienza. Questa non è più una risposta sufficiente. È, infatti, necessario innanzitutto chiarire qual è il vero statuto dell’essere umano, al tempo stesso dipendente e capace di verità, «situato» e, nell’atto di giudicare il pensiero degli altri o addirittura il proprio pensiero, «capace di prender le distanze da ciò che lo condiziona». Si deve inoltre dire che cosa rende possibile la scienza per gli uomini di tutte le nazioni e di tutte le classi, al di là di ogni spiegazione meramente sociologica. Al di là dell’orizzonte meramente classista, l’uomo può e deve attingere ciò che è universalmente valido, così come non può vivere senza l’universalmente umano.

Giornale di Brescia, 9 marzo 1977.