Il consenso delle masse e il "male" nella Storia

Qual è la parte del male nel cammino umano collettivo che chiamiamo storia? Questa domanda non formula solo un «problema», ma costituisce essa stessa un «tormento», al quale d’altra parte non possiamo sottrarci nel tracciare un bilancio del secolo che ormai volge alla fine: un secolo che ha visto sbalorditivi progressi in ogni campo e che, però, ha conosciuto la crudele barbarie dell’oppressione totalitaria, l’incommensurabile vergogna di Auschwitz, due terribili guerre mondiali.
Le ragioni della «efficacia» del male nella storia sono molteplici e meritano tutte di essere analizzate attentamente. Qui ne vogliamo richiamare solo una ed in relazione ad un solo quesito: come fu possibile che nel cuore dell’Europa la crisi del dopoguerra mettesse capo all’instaurazione delle dittature totalitarie? Limitiamoci a portare l’attenzione su un fenomeno, che ha avuto effetti devastanti: vi è sempre una corrispondenza bi-univoca tra il potere totalitario e la massa. In altre parole, i sistemi del terrore, l’«universo concentrazionario Lager-Gulag», sono sorti perché i movimenti e le ideologie che li hanno realizzati e giustificati godevano del consenso popolare. Certamente nell’Europa dei totalitarismi il male non si presenta nella sua vera natura, perché la menzogna rende difficile riconoscerlo. I regimi totalitari, infatti, sono sempre gigantesche «falsificazioni del bene», un terribile imbrattamento dei valori a cui si richiamano. Ma sta il fatto che l’operazione riesce, anzi mobilita ed esalta gli animi fino al parossismo. Al totalitarismo basta giungere al potere – in Italia e in Germania anche col voto di forze poi estromesse – per asservire brutalmente, in modo assoluto, le tecniche moderne di comunicazione e di pubblicità politica (allora c’erano le «novità» della radio e del cinema, la televisione era di là da venire). Così, in poco tempo, essi realizzano uno straordinario trasferimento, e senza riserve, dei diritti e delle attese degli individui al «Capo redentore». Su qualche parete si legge ancora, da noi, la scritta: «Duce, sei tutti noi!». In realtà ciascuno degli dei terreni dello Stato totalitario – Lenin, Stalin, Mussolini, Hitler – avrebbe potuto ben dire: «Io sono tutti voi», «io ed io solo incarno la volontà generale» alla quale ogni membro della comunità deve cedere la sua parte di sovranità. Il totalitarismo è, infatti, sempre un collettivismo pseudo-mistico che presuppone l’esaltante identità dei singoli, che di per sé sono una serie di zeri, con l’unico salvatore, il solo che conferisce alla serie degli zeri un valore infinito.

Bonhoeffer nel 1933, nel corso di una trasmissione radiofonica prontamente interrotta, andava al cuore del problema facendo un’osservazione semplicissima: «Il Capo sta ad una distanza inaudita da chi lo segue, ma – e questo è appunto decisivo – è Capo solo in quanto eletto dai seguaci, in quanto uscito da loro; egli riceve autorità solo da loro, dal basso, dal popolo». Vi è in queste parole una dolorosa verità di cui occorre prendere atto. Non si può, infatti, pensare che il male si concretizzi in un sistema politico che tutto ispira, dirige e controlla, scorgendo la causa di esso esclusivamente nel despota-demiurgo. Il dittatore gioca sempre, finché è in sella, un ruolo primario, ma il suo non è mai un ruolo esclusivo. Insomma, i totalitarismi non sono meteoriti cadute dal cielo, ma sono il coagulo di illusioni esaltanti, di calcoli e di passioni tutt’altro che innocenti; nascono dallo scatenamento di egoismi collettivi che separano la coscienza del popolo «in marcia» dal resto della famiglia umana e dall’etica del Vangelo.
Le dittature totalitarie non vi sarebbero state, né sarebbero durate così a lungo, senza la propensione a loro favore, ora implicita ora esplicita, delle masse, prima, e senza la loro adesione, poi. La dittatura del secolo XX è sempre una sorta di cesarismo, cioè una tirannia che poggia sul consenso delle masse. Le masse si son lasciate sedurre, si sono anzi ad un certo punto consegnate nelle mani di chi le avrebbe liberate, sì, dal senso di un’impotenza e di una colpa collettiva, ma soprattutto dal fardello della libertà personale. Si spiega, allora, come sia possibile che degli esecutori di ordini criminali non riescano a porsi, neppure dopo molti anni, il problema delle conseguenze delle proprie azioni, avendo essi delegato ogni responsabilità – una volta entrati a far parte del sistema – al solo essere a cui avevano giurato la più cieca fedeltà. E si badi, la massa che ha generato i mostri del totalitarismo sociologicamente è composta da tutte le classi sociali, anche se almeno in Italia ed in Germania vi è un apporto preponderante della piccola e media borghesia, cioè di quei ceti che pure sono detti «moderati».

Sul totalitarismo si ingannarono molti tra coloro che avrebbero dovuto essere le guide spirituali dei popoli e le élites intellettuali; ma si sbagliarono anche i popoli. Teresio Olivelli, una delle voci più alte della resistenza italiana, nel “Ribelle” del 26 marzo 1944, diceva che la «rivolta morale», a cui esortava i suoi compatrioti, doveva essere anche una «rivolta contro la massa pecorile pronta a tutto servire, a baciare le mani che la percuotono, contenta e grata». Non bisogna fare della massa un idolo, né far credito all’adagio vox populi vox Dei. La storia delle «derive plebiscitarie» a cui le masse si sono lasciate andare è, infatti, fin troppo lunga ed i loro «eletti» non sono affatto gli «unti del Signore». Sono solo i loro rappresentanti e, più spesso, i loro idoli.
Don Primo Mazzolari diceva che occorre «spaccare la massa e restituire a se stesse le persone». Non meno della spiritualità e della cultura, la democrazia politica non vive se le singole persone non tornano a percepire il bene ed il male, se non si sottraggono all’asservimento propagandistico, se non si riappropriano del loro pensiero e non esercitano le loro responsabilità di uomini e di cittadini. È, infatti, solo riscoprendo, nell’interiorità della coscienza ed in una politica moralmente ispirata, il luogo ed il metodo delle nostre scelte, che si può sperare in un avvenire che attesti la libertà dello spirito e l’onore dell’uomo. La democrazia ha bisogno di un movimento di personalizzazione, perché è solo scendendo dentro di sé, che l’io può aprirsi alle ragioni degli altri e degli stessi avversari. Ama il popolo non chi lo mitizza, nell’atto stesso di plagiarlo, ma solo chi lavora con umiltà e determinazione ad associalo effettivamente ai valori propri di ogni autentico umanesimo. Democrazia è, infatti, tirocinio di responsabilità ed è auto-educazione prima ancora che autogoverno.

Giornale di Brescia, 16 luglio 1996.