L’handicap, la natura e Dio

Autori: Mancuso Vito

Con questo mio intervento intendo leggere l’handicap come punto di vista per interpretare il senso del nostro essere uomini. Seguo in questo il principio formulato da Kierkegaard: “Se si vuole studiare correttamente il caso generale è sufficiente ricercare una reale eccezione. Essa porta alla luce tutto più chiaramente… Le eccezioni esistono. Se non si è in grado di spiegarle, non si è nemmeno in grado di spiegare il caso generale”.

Da dove viene l’idea di creazione

La Terra ha 4 miliardi e mezzo di anni; da 3 miliardi e mezzo di anni ospita la vita. Per un miliardo di anni sulla Terra non ci fu la vita. Poi la vita comparve. Come? Da dove? Nessuno, con certezza, lo sa. Non sappiamo da dove veniamo. Ciò che sappiamo è che la vita richiede centinaia di migliaia di proteine complesse (il nostro corpo ne possiede 60.000) e che, come scrive Paul Davies, “le probabilità contrarie alla sintesi puramente casuale delle proteine sono circa 10 elevato a 40.000… un numero che scritto per esteso occuperebbe decine di pagine. Al confronto ottenere un poker 1000 volte di fila è un gioco da ragazzi”.

È di fronte al mistero della vita e della sua origine che gli uomini, in ogni epoca e in ogni parte del mondo, hanno parlato di creazione. L’uomo da sempre sente che la vita è qualcosa di straordinariamente grande, ma non sa come spiegarla, e allora alza la testa al cielo, pensando che il suo essere più vero venga da lì. Non è solo la Genesi a parlare di un elemento divino che ospitiamo dentro di noi: lo stesso fanno praticamente tutte le testimonianze primordiali dell’umanità (Gilgamesh, Enuma Elish, Atrahasis, la favola di Igino sulla cura…). L’uomo sente che il suo essere non è spiegabile in base ai soli elementi naturali ma richiede un legame con una dimensione più alta.

È qui che si radica la convinzione che la vita fisica viene da Dio, quale si ritrova nelle tre religioni monoteiste. Il salmo 139 afferma: “sei tu che mi hai tessuto nel grembo di mia madre”; nel Corano sta scritto di Allah: “È lui che vi plasma come vuole negli uteri” (sura III, 6); Giovanni Paolo II scrive nella Evangelium vitae che “nella paternità e maternità umane Dio stesso è presente”.

 I dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità

Di contro a queste affermazioni, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ci fa sapere che sono più di 8000 i bambini che, ogni giorno, vengono al mondo gravemente handicappati (il 5% dei nati). Ora, se la vita fisica viene da Dio, perché nascono così? Se sono le mani di Dio, o degli Dei, a plasmare il corpo degli uomini come spiegare quei corpi e quelle menti deformi?

Ma la domanda “perché nascono così” sottintende la questione ben più radicale sul senso dell’umanità intera nella sua pretesa di avere un’origine divina: come intendere la creazione? come interpretare il rapporto tra l’uomo e il Creatore? Che tipo di Dio è in gioco in questo tipo particolare di creazione che è l’handicap? Nell’handicap non sono in gioco alcuni sfortunati e le loro famiglie, ma l’essere dell’uomo in quanto tale.

Il dolore colpevole

Nel passato la fede nell’origine divina della vita ha portato gli uomini ad avere risposte ben chiare a proposito del mistero dell’handicap. La teoria dominante la si può riassumere con la formula “dolore colpevole”: se c’è un dolore, c’è una colpa; il dolore è sempre colpevole. Nell’antica Babilonia era il padre che, ricevendo il figlio neonato tra le braccia, gli dava il nome. Ebbene, sono state ritrovate delle tavolette nelle quali il padre chiama il figlio Mina-arni ovvero «Qual è il mio peccato?».

Alla base della teoria del dolore colpevole vi è la fede, rigorosamente teologica, secondo la quale l’universo è retto da un governo divino infallibile e giusto; sono i concetti teologici dell’onnipotenza e della suprema giustizia a condurre alla teoria del dolore colpevole.

Per questo la storia teoretica dell’handicap è come un grande giallo alla ricerca del colpevole. Le teorie dominanti sono due. La prima, la più frequente, individua il colpevole nei genitori, ai quali (più alla madre che al padre) vengono ascritte colpe per lo più di origine sessuale. L’altra soluzione rintraccia il colpevole nello stesso soggetto colpito dall’handicap, punito per le colpe di una vita passata. È la teoria della reincarnazione, tipica delle religioni indiane: “Ogni anima viene al mondo in corpi corrispondenti alle sue azioni”, dicono le Upanishad, mentre il buddhismo parla di malattie karmiche.

Queste interpretazioni sono compendiate nella domanda che i discepoli posero a Gesù trovandosi di fronte a un portatore di handicap, al cieco nato del capitolo 9 di Giovanni: “Rabbì chi ha peccato, lui o i suoi genitori perché nascesse così?”. Insomma, chi è il colpevole? Non si tratta di una domanda da gente incolta, ma da chi conosceva bene la teologia del tempo.

Il dolore innocente

Cristo risponde “né lui ha peccato né i suoi genitori”, e con questo si pone come il primo nella storia del pensiero a tagliare il nodo che legava strettamente il dolore alla volontà divina. Il cristianesimo è l’unica religione che può ancora parlare di un Dio personale senza colpevolizzare la vittima. Il dolore non si spiega come punizione di un peccato precedente.

Ma come si spiega, allora? Si dà qualcosa di ingiusto, senza che prima qualcosa d’altro di ingiusto lo abbia causato. Il male si abbatte così, in modo verticale, gratuito. Come la mettiamo con la giustizia divina? Come la mettiamo col governo della storia e della natura? Se oggi l’idea del dolore colpevole risulta giustamente inaccettabile, che fine fanno i presupposti teologici che vi stanno alla base, l’onnipotenza e la somma giustizia di Dio? Che cosa insegna del mondo e del suo governo il fatto che vi sia un dolore innocente?

Proviamo a porre alcuni punti fermi.

Dio non lo vuole

L’handicap, e più in generale il male contro gli uomini che accade ininterrottamente nel mondo, non può essere ricondotto a Dio, neppure nella forma moderata della sola “provvidentia concessionis” di Tommaso d’Aquino (il quale, parlando dei monstra in natura, pone la sola provvidentia concessionis, distinguendola dalla più completa provvidentia approbationis). Il male che si abbatte sugli uomini non è voluto in alcun modo, né diretto né indiretto, da Dio.

Il fondamento che nega la riconduzione a Dio del male contro l’uomo è dato dall’alleanza ontologica tra l’uomo e Dio costituita dall’incarnazione. L’incarnazione del Figlio di Dio, pienezza della rivelazione, ci insegna che l’uomo è il fine di Dio, della sua azione, del suo operare.

Ogni uomo lo è. L’alleanza inaugurata da Cristo nel suo sangue è “per voi e per tutti”: nessuno ne è escluso. Anche il più piccolo degli esseri umani viene al mondo come pensato dall’eternità per essere parte integrante di questo disegno divino di alleanza.

L’alleanza offerta agli uomini ha per oggetto il bene degli uomini. Se il centro speculativo del cristianesimo è la conoscenza dell’essenza di Dio come amore, occorre ulteriormente specificare che questo amore si configura oggettivamente e umanamente come bene concreto. Dio vuole che gli uomini abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza.

Qualunque cosa che venga a impedire questo disegno di alleanza non viene da Dio. L’handicap non viene da Dio, così come non viene da Dio il cancro, l’aids, la peste nera… Da chi viene allora, dato che, purtroppo, viene?

La natura

Viene dalla natura. L’handicap è, per usare l’espressione di Pavel Florenskij, “la confessione spontanea della natura”. Ciò che la natura confessa è la sua cecità.

La natura non è male. La natura in sé, nella sua fisiologia, è bene. Ma rispetto al bene fisiologico la natura conosce delle eccezioni. Queste occorre pensarle insieme, come parte integrante del tutto. Il vero è solo l’intero, è stato autorevolmente detto. Non c’è la natura da un lato e le eccezioni dall’altro; l’intero è “natura + eccezioni”. Per questo la natura appare cieca, guidata cioè da una provvidenza impersonale.

Le eccezioni sono il motore dell’evoluzione, insegna la scienza: se ci siamo evoluti dalle prime forme batteriche con cui è iniziata la vita è a causa delle mutazioni. Queste avvengono casualmente; se riescono a perdurare diventano necessità, ovvero danno vita a una nuova specie. Se non riescono, sono solo casi infelici destinati alla morte: l’handicap è una mutazione infelice, è un caso che non diventerà mai necessità. La natura lo sa e per questo abbandona i colpiti dall’handicap alla morte.

La natura, che in sé è un bene, è retta da una logica di tipo impersonale. Questa logica la si definisce al meglio col nome di forza.

Radicale teologia della croce

Chi è dunque il colpevole dell’handicap? Il colpevole non c’è. La creazione è la posizione di una indifferente, selvaggia, bellissima, terribile libertà.

Ma se non esiste il colpevole per il male contenuto in quelle nascite, occorre dichiarare con altrettanta coerenza che non esiste nessun governo sulla natura. Nessun colpevole equivale a nessun governo. Se volete il governo, dovete trovare il colpevole. In realtà Dio non governa la natura, vale a dire: Dio non ha direttamente a che fare con la generazione della vita fisica degli uomini. È solo la natura, solo madre natura, che agisce, e lo fa come solo sa fare, ciecamente. Per questo, talora, alcuni suoi figli nascono con corpi e con menti deformi.

Qui appare la potenza rivelatrice, o meglio smascheratrice, dell’handicap. L’handicap, esperienza radicale della manifestazione del vero, fa cadere le maschere con le quali gli uomini intendono proteggere il loro viaggio nel mondo dall’esposizione al nulla, al caso, alla morte: fa cadere la maschera della creazione, la maschera della provvidenza, la maschera del governo divino sulla storia e sulla natura. Creazione, provvidenza, governo divino della storia e della natura vanno completamente ripensati, e lo devono essere, finalmente, alla luce del centro del messaggio cristiano, la croce. È la croce che definisce al meglio, in modo insuperabile, il rapporto di Dio col mondo, ed è in base ad essa che occorre pensare la creazione e la provvidenza.

Guardiamo al mondo con onestà. Dio è amore, dice il centro luminoso della nostra fede. Ma che cosa a che fare l’amore col governo degli stati, coi parlamenti, gli eserciti, le industrie, i tribunali, il commercio? E per quanto riguarda la natura, di fronte ai milioni di bambini feriti dall’handicap nell’ormai lunga storia del mondo (per tacere di molte altre sciagure), come sarebbe ancora possibile pensare, se Dio agisse veramente nella natura, che la sua essenza è l’amore? Dio, così come lo si deve pensare in base al NT, non è nella storia, non è nella natura.

Ubi charitas, ivi Deus

Se il Dio personale non è nella natura e non è nella storia (le quali sono guidate da una provvidenza impersonale), la domanda fondamentale diviene dov’è Dio. L’unica risposta cristianamente legittima è sempre la stessa: “ubi charitas, ivi Deus”. Dio, che è amore, è solo laddove c’è l’amore, e l’amore c’è solo dentro l’uomo. È solo l’uomo che può creare l’amore, l’amore vero è un atto spirituale.

Si usa dire che Dio è trascendenza. Ma la trascendenza, la dimensione sovrannaturale, non è una regione misteriosa dell’essere, non è un luogo fisico a mo’ di nuvoletta particolare in un angolo del cielo; è piuttosto un evento etico-spirituale. Guardiamo, per comprenderlo, alla storia dell’handicap.

La rivoluzione copernicana della società

Le immagini delle cure che oggi ricevono i portatori di handicap avrebbero suscitato nei greci e nei romani non meno stupore di quanto veder volare un aeroplano. Quando Platone ideò la sua città ideale propose che gli eventuali figli colpiti dall’handicap avrebbero dovuto essere rinchiusi in un luogo inaccessibile e sconosciuto, con la chiara intenzione di farli al più presto morire. Aristotele nella Politica auspicava: “vi dovrebbe essere una legge che proibisca di allevare i figli handicappati”, legge che, come risulta da un passo Cicerone, era esplicitamente stabilita dal diritto romano: “Un bambino orribilmente deforme deve essere ucciso immediatamente, come impongono le Dodici Tavole”. Questo per quanto riguarda la civiltà greco-romana. Con l’esplicita volontà di ritornarvi, alla fine del ‘800 Nietzsche scriveva: “I deboli e i malriusciti devono morire: questo è il principio del nostro amore per gli uomini. E a tale scopo si deve anche essere loro d’aiuto”, parole che trovarono una concreta applicazione nella politica di eugenetica del regime nazista.

Praticamente tutta la storia dell’umanità, dai primordi fino a pochi decenni fa, è unanime nell’ostilità verso i portatori di handicap. Oggi, invece, le cose sono profondamente cambiate. Qui, veramente, ci troviamo di fronte a qualcosa di completamente nuovo sotto il sole. Ma che cosa è avvenuto? Siamo diventati d’un tratto più buoni? Le generazioni prima erano tutte più cattive?

Ovviamente non è così. Il punto non è la bontà personale, il punto sono le idee che contengono e guidano le nostre vite (non siamo noi che abbiamo le idee, sono le idee che ci possiedono e muovono il nostro agire). Ora, Platone Aristotele Cicerone Nietzsche, di fronte al caso dell’handicap, pensavano in base alla natura. È la natura che richiede l’eliminazione di ciò che è venuto male e non può servire alla riproduzione: a madre natura interessa unicamente perpetuare se stessa. Che cosa fanno gli animali quando i loro cuccioli sono imperfetti? Li lasciano morire, talora li mangiano o li danno in pasto agli altri piccoli. E così, esattamente come gli animali, cioè in modo assolutamente naturale, gli uomini si sono sempre comportati verso i portatori di handicap.

Nella seconda metà del ‘900, invece, si è affermata l’idea del primato assoluto dell’uomo, si è iniziata a ritenere la vita umana un assoluto, qualcosa che non è relativo a nulla, che non abbisogna per essere tale di nessun altro criterio se non del fatto di essere umana, di venire da un uomo e da una donna. Da qui è scaturita la rivoluzione copernicana sull’handicap, l’affermazione della pari dignità ontologica e le politiche sociali corrispondenti. Ma questo pensiero dell’assolutezza dell’uomo non è per nulla naturale; coloro che pensano unicamente in base alla natura non considerano per nulla l’uomo un assoluto, ma solo una delle numerose manifestazioni della natura.

La posizione dell’uomo come assoluto è un’operazione nella quale si rivela la trascendenza, il superamento della natura e della sua logica immanente. La posizione dell’uomo come assoluto è un’operazione squisitamente cristiana, essendo il centro speculativo del cristianesimo dato dal farsi uomo di Dio. A seguito dell’incarnazione, il legame tra Dio e uomo tocca l’essere stesso di Dio, ha, per Dio, una poderosa valenza ontologica. Per nessun’altra religione è così, nessuna religione come il cristianesimo lega così strettamente Dio all’uomo. Per nessuna filosofia è così, nessuna filosofia lega così strettamente la verità all’uomo. Il Dio cristiano è il Dio-uomo; il vertice della rivelazione di Dio non è un libro, è un uomo.

È questa la molla che ha fatto scattare la rivoluzione nei confronti dell’handicap, ed è molto significativo che questo sia avvenuto non nell’epoca della cosiddetta societas christiana ma nell’epoca della secolarizzazione (ce n’è a sufficienza per meditare sul rapporto tra cristianesimo e società umana).

 L’Eucaristia

Vorrei concludere richiamando le parole del vangelo che in modo supremo, definitorio, presentano il concetto di trascendenza nel senso etico-spirituale richiamato sopra: “Prendetene e mangiatene tutti. Questo è il mio corpo”. Qui siamo in presenza del ribaltamento della logica naturale. La logica naturale, che guida la natura e la società, è retta da un movimento centripeto che vede ogni cosa (persona, occasione, concetto etc.) come nutrimento e accrescimento dell’Io. Le parole dell’Eucaristia ne sono il ribaltamento; qui ci si muove in modo centrifugo, l’Io, invece di nutrirsi degli altri, si fa nutrimento per gli altri: “Prendetene e mangiatene tutti, questo è il mio corpo”. Qui si supera la natura, si esce dalla logica immanente che la guida, qui si tocca la dimensione sovra-naturale, si attinge la trascendenza.

Sono parole che ogni vero genitore ripete silenziosamente ogni giorno con la vita ai suoi figli; sono parole che ogni vero consacrato ripete con la vita alla comunità e al mondo; sono parole che ogni vero volontario del dolore innocente ripete con le sue mani che curano i corpi malati: “Prendetene e mangiatene tutti. Questo è il mio corpo”. Questa è la logica dell’amore assoluto, ed è così, solo così, che dobbiamo pensare Dio.

L’handicap, questa distorsione della natura, nella misura in cui viene accettato, curato e vissuto con amore, rivela all’uomo la sua possibilità di andare oltre la natura, di legarsi per sempre all’eterno.

NOTA: testo, non rivisto dell’Autore, della conferenza tenuta il 25.9.2003 a Brescia su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.