Il problema del male in Schopenhauer

Dividerò il mio intervento in tre parti: 1.Che cos’è il male per Schopenhauer 2. Quali conclusioni si devono ricavare, circa la struttura complessiva della realtà, dalla presenza così pervasiva del male. 3. Come l’uomo deve atteggiarsi di fronte al male e più specificamente esiste una qualche forma di possibile liberazione dal male?

Schopenhauer ha una concezione soggettivistica dei valori. Riprendendo una tradizione che risale fino a Hobbes, sostiene che il bene e il male sono determinati da ciò che l’uomo vuole o da ciò che l’uomo non vuole: tutto ciò che l’uomo cerca di conseguire, viene considerato bene, tutto ciò che cerca di evitare, è male.

La realtà per Schopenhauer presenta molti aspetti che l’uomo non vorrebbe fossero così. In primo luogo l’uomo è sgradevolmente colpito dalla brevità dell’esistenza: l’uomo vorrebbe vivere a lungo ed essere felice e non riesce ad essere tale. Il tempo scorre velocemente, l’uomo cerca con ogni mezzo di evitare tutti i pericoli che lo possono condurre alla morte, ma, con un’espressione famosa, Schopenhauer afferma che noi guidiamo la nave della nostra esistenza con ogni cura, cercando di evitare scogli, gorghi ecc. ma siamo sicuri che alla fine non arriveremo ad un porto: ci sarà il naufragio della morte, il cessare di questa vita. Tutta la nostra cura nel condurre la nostra esistenza deriva dal fatto che siamo continuamente minacciati da malattie, sofferenze, dolore, fame. Schopenhauer vive nella prima metà dell’Ottocento quando la miseria era molto diffusa fra le classi sociali meno abbienti e aveva una viva coscienza della situazione di assoluto privilegio in cui poteva vivere, avendo ereditato una fortuna cospicua da parte del padre che gli consentì di vivere di rendita per tutta la vita. C’è un’espressione che viene citata spesso per attribuire a Schopenhauer una particolare sensibilità sociale, forse in misura un po’ esagerata: lavorare dodici ore in una fabbrica in mezzo al fumo, alla polvere, per potersi comprare un tozzo di pane per mangiare è il caro prezzo che la maggior parte della gente deve pagare per continuare a vivere.

Alle condizioni oggettive di contorno della vita umana, che rendono difficile l’esistenza, si aggiungono poi le condizioni soggettive, legate alla natura stessa all’uomo. Schopenhauer non aveva un’opinione positiva dell’uomo in generale; in proposito fa sua la concezione hobbesiana espressa dalla nota espressione Homo homini lupus: di norma ogni uomo è un lupo, ha un atteggiamento aggressivo e violento nei confronti degli altri uomini. Egoismo e crudeltà secondo Schopenhauer caratterizzano il modo d’essere normale degli individui. Per quanto si scelga come interlocutori gli autori del Settecento, Kant, Voltaire (a suo avviso la filosofia idealistica era una follia cui solo i tedeschi avevano creduto), Schopenhauer non condivide l’idea settecentesca secondo cui esistono nell’uomo delle virtù sociali, ovvero una naturale tendenza ad un atteggiamento benevolo nei confronti di altri uomini, almeno in certe circostanze. Gli uomini sono in genere reciprocamente ostili, appena possono cercano di danneggiare gli altri a proprio vantaggio. Questo modo di vedere risulta ancora più angosciante, se si tien conto del fatto che per Schopenhauer l’uomo ha un carattere immutabile, non migliorabile, non correggibile: come nasce, tale muore. Se è criminale dalla nascita, criminale rimarrà fino alla morte. Schopenhauer si oppone radicalmente all’idea che le pene abbiano come scopo la rieducazione morale dei condannati, uno scopo assolutamente irraggiungibile; questo è un aspetto molto cupo della sua antropologia.

L’uomo non solo è aggressivo nei confronti dei suoi simili, non solo ha difficoltà a soddisfare i propri bisogni, ma non raggiunge mai una soddisfazione durevole: appena soddisfatto un desiderio, immediatamente se ne presenta un altro. A questa concezione si collega la nota tesi del carattere negativo del piacere: in breve, secondo Schopenhauer, quando l’uomo prova piacere, la sostanza di questo sentimento si risolve nel toglimento della condizione di disagio che precede tale piacere e che ne è condizione. Il conseguimento del piacere è sempre preceduto da una situazione di disagio e di sofferenza, per cui il piacere è – leopardianamente – «figlio d’ affanno».

Gli uomini hanno grande difficoltà a soddisfare i propri bisogni. Le poche persone appartenenti al ceto borghese, di cui Schopenhauer faceva parte, in genere hanno minori difficoltà nel liberarsi dai bisogni, ma sono perseguitati da un altro male, ovvero, quando hanno soddisfatto i loro desideri, cadono vittima della noia, un flagello caratteristico delle classi elevate. Schopenhauer indica con questo sentimento la condizione in cui l’uomo si trova quando non sa che cosa desiderare: è insoddisfatto ma non sa come liberarsi da tale disagio; è un desiderare indeterminato e in quanto tale impossibile da soddisfare. Schopenhauer è talmente convinto della gravità della sofferenza derivante dalla noia, che mostra di condividere pienamente la famosa espressione usata da Giovenale: panem et circenses: gli imperatori romani sapevano benissimo che non bastava dare da mangiare alla plebe; bisognava anche evitare che il popolo si annoiasse, una condizione altrettanto pericolosa della mancanza del pane.

Queste condizioni di vita estremamente difficili, caratterizzate dal bisogno e dalla noia, sono presenti anche nel mondo animale. Schopenhauer era un animalista, si commuoveva di più per un cane bastonato, che per un povero bastonato, non avendo un carattere socievole. Per questo in molte pagine descrive la terribile vita degli animali, unicamente indirizzata alla riproduzione e ancora più insensata di quella degli uomini. Tali descrizioni sono funzionali per giungere a certe conclusioni sulla natura complessiva di questo macchinario sofferente, che è il mondo nel quale ci troviamo.

Dare un senso, cercare di comprendere cosa significa tutto ciò è compito specifico della filosofia e Schopenhauer – contro Aristotele – sostiene che è la sofferenza che scorgiamo nel mondo – e non la meraviglia – la vera molla della riflessione filosofica. Schopenhauer si considera fino alla fine un discepolo di Kant, in quanto ritiene che sia impossibile avere qualsiasi conoscenza sufficientemente provata e convincente riguardo a realtà che vanno al di là della nostra esperienza. Questo potrà suonare strano a chi ha presente come Schopenhauer rivendichi come suo merito fondamentale nei confronti della filosofia kantiana, quello di avere risolto il problema della cosa in sé, ovvero dell’essenza della realtà. Secondo Kant noi consociamo soltanto la superficie della realtà, ma quello che sta dietro, la cosa in sé, il fondamento metafisico di questa realtà è inattingibile. Kant non ha dunque risolto il problema del fondamento metafisico della realtà, mentre lui, Schopenhauer, ritiene di aver trovato la risposta giusta: il fondamento metafisico di tutta la realtà è la volontà. A ben vedere tuttavia Schopenhauer si mantiene fedele a Kant almeno nel ritenere impossibile determinare compiutamente la natura di ciò che sta a fondamento del mondo: solo alcuni aspetti di questo fondamento ci sono accessibili. Credo di esprimere nel modo migliore la natura della filosofia di Schopenhauer utilizzando una metafora, da lui stesso utilizzata: il mondo si presenta ai nostri occhi come un libro scritto in una lingua che non riusciamo a decifrare; non intendiamo che cosa ci stia dicendo questo mondo pieno di sofferenza.  Il significato di un testo scritto in una lingua sconosciuta può essere trovato quando riusciamo a capire che cosa vuol dire qualche parola di tale testo. Se ciò avviene, piano piano arriviamo a decifrare la lingua e il senso dell’enigmatico testo. Ora l’esperienza che noi facciamo del nostro volere è qualcosa che ci fa comprendere un aspetto importante del mondo e la volontà è la parola che ci permette di decifrare l’oscuro testo del mondo. Quando riflettiamo sulla nostra volontà, quando comprendiamo la natura e le forme del nostro volere entriamo in possesso della chiave per decifrare tutto il mondo. Possiamo dire che ad  avviso di Schopenhauer l’uomo inizia a capire che cos’è questo mondo, riesce a dare un senso parziale alla sua organizzazione e alle sue parti, se immagina che sia il prodotto, l’espressione di qualcosa di simile a ciò che sperimenta in se stesso come la volontà. La volontà diventa lo strumento che serve per spiegare la natura del mondo.

Va ricordato che Schopenhauer dissente completamente da Kant circa il modo di intendere la volontà; per Kant la volontà è una facoltà razionale, che si determinava attraverso la ragione. Per Schopenhauer invece la volontà è una forza impulsiva, totalmente irrazionale. Tale forza è decisiva nell’uomo, ma si presenta come qualcosa di impenetrabile alla coscienza dell’uomo stesso. In un passo famoso Schopenhauer ci dice che noi, di fronte alla volontà, siamo come dei servi che dopo aver presentato vari motivi al proprio padrone (la volontà) attendono che cosa deciderà la volontà, senza poter influire sulle sue decisioni né comprenderne le ragioni. E’ luogo comune intendere la volontà di Schopenhauer come qualcosa di simile all’inconscio freudiano, qualcosa di impenetrabile all’uomo e di non dominabile dalla ragione. Freud del resto apprezzava molto Schopenhauer e temeva di essere influenzato dalle sue tesi (speculative) nello sviluppo della psicoanalisi.

La volontà dunque è la chiave che Schopenhauer vuole utilizzare per comprendere il mondo, per renderlo qualcosa di leggibile. In molte occasioni tuttavia Schopenhauer fa capire di non voler intendere la volontà come qualcosa di paragonabile ad un principio metafisico trascendente che spieghi tutto. Illuminante da questo punto di vista è la polemica con il suo discepolo Frauenstädt. Questi, in precedenza allievo di Hegel, riteneva di poter porre sullo stesso piano il vecchio e il nuovo maestro: per il primo (Hegel) l’Assoluto è ragione e la realtà è manifestazione della ragione, per il secondo (Schopenhauer) l’Assoluto è volontà e la realtà è manifestazione della volontà. In Hegel c’è una specie di panteologismo, in Schopenhauer invece c’è una specie di pandemonismo, a fondamento del mondo non c’è Dio, ma un demonio (la volontà). Schopenhauer rifiuta nel modo più deciso questo parallelismo, sostenendo di non aver mai parlato di Assoluto e/o di realtà trascendenti. Ritiene invece di essere rimasto fedele a Kant: la sua metafisica non è nulla di più che un’interpretazione complessiva della realtà empirica: molti aspetti di questa realtà risultano incomprensibili, non spiegati e Schopenhauer lo sa benissimo, come sa benissimo che nulla si può sapere di ciò che va al di là dell’esperienza.

Se leggiamo il mondo attraverso questa metafora della volontà, se lo immaginiamo come sua manifestazione, comprendiamo che questo mondo non è organizzato finalisticamente, non è costruito in modo da perseguire un determinato fine. La massiccia e continua presenza del dolore rende difficile pensare che questo mondo sia opera di un Dio: esso – rovesciando le tesi di Leibniz – non è il migliore, ma il peggiore dei mondi possibili, nel senso che l’ateleologismo in esso presente, se aumentasse anche di poco, ne renderebbe impossibile l’esistenza. Il mondo non può essere opera di un Dio buono, a meno che si pensi a un Dio assolutamente trascendente i cui disegni siano totalmente incomprensibile per l’uomo. Ma se restiamo al mondo che vediamo e di cui cerchiamo di dare un’interpretazione comprensibile, è impossibile intenderlo come opera di un Dio buono e provvidente. Ancora più insostenibile è il panteismo, che identificando il mondo con Dio, giungerebbe all’assurdo di sostenere che Dio si autoinfligga sofferenza nel mondo.

Vorrei aprire una piccola parentesi riguardo al rapporto di Schopenhauer con il cristianesimo: Schopenhauer, quando presenta all’editore il manoscritto del Mondo come volontà e rappresentazione, lo rassicura circa eventuali interventi della censura, affermando che l’opera è assolutamente conforme al cristianesimo: “io mio considero filosofo cristianissimo”, una affermazione che appare piuttosto stravagante, se non compresa nel contesto della concezione schopenhaueriana della religione. Le religioni, in generale, hanno la loro ragion d’essere nel fatto che l’uomo ha un “bisogno metafisico”, ovvero ha bisogno di dare un senso complessivo alla realtà in cui vive. Le religioni sono una metafisica popolare, ovvero sono una rappresentazione mitologica, metaforica, non razionale della realtà, insomma offrono una risposta semplicistica al bisogno di cui s’è detto. Schopenhauer divide le religioni in due grandi categorie: le religioni ottimistiche e quelle pessimistiche, le religioni che sostengono che il mondo è stato creato da un Dio buono e quelle che sostengono che il mondo è una valle di lacrime, un luogo di sofferenza da cui bisogna liberarsi. Le religioni ottimistiche sono l’ebraismo e l’islamismo, quelle pessimistiche sono il cristianesimo e tutte le religioni indiane. In questa classificazione colpisce la radicale cesura che viene posta fra ebraismo e cristianesimo. Il genuino insegnamento di Cristo – nella misura in cui ha al suo centro una profonda visione pessimistica del mondo – è necessariamente ateo; purtroppo Cristo è vissuto nel mondo ebraico e non ha potuto fare a meno di collegare a questa sua religione pessimistica una parte dell’ebraismo, facendo propria l’idea di un Dio padre, buono, provvidente. Ma se si prende il cristianesimo e gli si toglie il Dio buono e provvidente, la redenzione, l’immortalità dell’anima, la beatitudine eterna, quello che resta non è altro che la filosofia di Schopenhauer: un mondo visto come valle di lacrime, un uomo malvagio e incapace (da solo) di correggersi e salvarsi. E non per caso di tutta la teologia ebraica Schopenhauer salva solo l’idea del peccato originale, garanzia teologica della incorreggibile corruzione dell’uomo. Ecco le ragioni per cui Schopenhauer – che Nietzsche definisce “il primo ateo dichiarato e irremovibile” fra i filosofi tedeschi – si considerava un cristiano, anche se forse sapeva di non essere un “buon cristiano”, per il suo incorreggibile cattivo carattere.

Tornando ora al problema del male: la conclusione del discorso è dunque che non c’è alcuna giustificazione del male, non c’è alcuna possibile teodicea; si può solo prendere atto che il mondo è fatto così, è fondamentalmente caratterizzato dal male. Non c’è alcuna via d’uscita da questa condizione, c’è solo una prospettiva naturalistica: una vita sofferente, limitata nel tempo e infine la morte.

Qui si inserisce però l’altra componente della filosofia di Schopenhauer, quella caratterizzata dalla negazione del volere, dalla celebre noluntas. Alla sua base c’è una considerazione molto semplice. Tutte le sofferenze derivano dal fatto che l’uomo – e tutta la natura – vuole, ovvero cerca e non trova soddisfazione; se fosse possibile rinunciare alla ricerca della soddisfazione, se insomma si rinunciasse a volere, cesserebbero tutti dolori. Per Schopenhauer questa negazione della volontà – questa opposizione all’essenza che costituisce il mondo – è possibile nell’uomo: l’uomo può giungere alla noluntas. Ci sono intorno a questa dottrina un’infinità di problemi. In primo luogo, bisogna rilevare che per Schopenhauer alla base di questa dottrina c’è una constatazione empirica: nel mondo vivono e sono vissute persone – asceti, santi, fachiri indiani -, che seguono un tipo di vita che nega la soddisfazione dei bisogni, che pratica la “mortificazione”: mortificarsi vuol dire uccidere i propri bisogni, fermare il desiderio. Queste poche, rare persone – fra gli altri viene citato san Francesco – mostrano di non essere più reattive agli stimoli interni ed esterni, non mangiano da giorni e non reagiscono alla stimolazione del cibo, non si proteggono dal caldo o dal freddo, insomma sembrano aver rotto l’ordine naturale delle cose. Da qui deriva l’impossibilità di descrivere adeguatamente tale modo d’essere – il linguaggio funziona per il mondo fenomenico – e da qui il sorprendente – ma filosoficamente giustificato – ricorso ai mistici, gli unici che, nella misura in cui fanno esperienza della negazione della volontà, cercano nei loro scritti di dare qualche indicazione riguardo a questo modo d’essere completamente diverso. E Schopenhauer nota che, al di là dei rivestimenti teologici in cui si esprimono i mistici, l’elemento comune è l’esperienza di una condizione di pace e serenità.

La dottrina della negazione del volere è legata alla interpretazione che Schopenhauer dà della dottrina kantiana della libertà. Schopenhauer risolve l’inestricabile problema di come sia pensabile l’accordo fra la libertà trascendentale e la necessità del mondo fenomenico, riducendo lo spazio della libertà all’atto (libero) con il quale l’uomo si dà un certo carattere. Si tratta di una rivisitazione del famoso mito di Er di Platone, il quale immaginava che all’uomo, prima di scendere sulla terra, venisse data la facoltà di scegliersi un certo carattere, carattere che avrebbe poi determinato per intero il suo comportamento terreno. Schopenhauer concorda sostanzialmente con Platone – l’agire dell’uomo è predeterminato dal suo carattere – ma dà spazio nella vita terrena ad una manifestazione della libertà: si tratta del misterioso atto con cui l’uomo rinuncia al volere. Proprio perché la negazione del volere è un atto libero, esso non può essere “causato”, ovvero non può essere prodotto dalla predicazione morale o da quant’altro. Schopenhauer cerca di illustrare la sua posizione facendo riferimento anche all’interpretazione protestante della grazia, secondo cui l’uomo non può salvarsi senza la grazia gratuitamente donatagli da Dio: allo stesso modo la negazione della volontà non è il risultato di una scelta razionale dell’uomo, l’esito necessario di un percorso ascetico, ma un evento misterioso e inspiegabile.

La negazione del volere – il rifiuto di soddisfare i propri bisogni – dovrebbe portare infine alla morte (ma qui Schopenhauer è piuttosto evasivo). Quello che è certo è però che la soluzione più a portata di mano per sottrarsi alle sofferenze della vista – il suicidio – è decisamente rifiutata da Schopenhauer. Esso non sarebbe espressione della rinuncia alla vita, ma della incapacità di sopportare la sofferenza derivante da un desiderio fortemente sentito e non soddisfatto: qui Schopenhauer si riferisce alla tradizione romantica dei suicidi per amore.

Sembra quindi che la negazione del volere offra la via per sottrarsi alla sofferenza e addirittura Schopenhauer in qualche passo abbozza una sorta di teodicea, secondo cui la presenza del male nel mondo sarebbe la condizione necessaria per spingerci a raggiungere il nostro “fine”, ovvero la negazione della volontà. Ma, a prescindere dal fatto che la noluntas è un percorso di pochissimi, il senso complessivo di questo discorso dipende dal modo di intendere l’esito della negazione del volere.

In proposito il finale del Mondo come realtà e rappresentazione – che tratta della condizione conseguente alla noluntas – è ambiguo: vi si dice che colui che ha compiutamente negato la propria volontà, toglie la radice della sua esistenza – la volontà – e perciò precipita nel nulla. Ma si dice anche che il concetto di nulla è solo relativo, ovvero esprime solo il non essere di qualcosa di determinato. Di conseguenza, per colui che ha negato la volontà, il nulla dovrebbe essere inteso come il non essere del mondo che esprime l’affermazione della volontà. La negazione del volere non è allora annichilimento dell’individuo ma apre ad una forma di esistenza diversa e – presumibilmente – più alta? Si tratta di un problema “trascendente” su cui Schopenhauer non può evidentemente pronunciarsi: quello che la filosofia può dire è che con il venir meno della volontà vien meno ciò che è la sua affermazione, ovvero l’individuo. Ma nei suoi ultimi scritti di carattere aforistico si trovano effettivamente alcuni accenni ad una nuova forma di esistenza successiva alla negazione del volere. Fra i non molti, si può citare questo: “Con la nostra morte faremo esperienza di una luce al confronto della quale la luce del sole ci parrà pura ombra”.

Nota: Trascrizione, rivista dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia in data 12.4.2019.