Il problema di Dio nel pensiero di Freud

Inizio citando tre brani da L’avvenire di un’illusione scritta da Freud nel 1927, che ci porranno subito in medias res. In questo lavoro Freud pensa soprattutto alla religione cristiana, mentre nei successivi tre saggi su L’uomo Mosè e la religione monoteistica, del 1934-38, scrive, come si capisce dal titolo, sulla religione ebraica, che era la religione dei suoi avi. Il primo brano riguarda la genesi della religione:

·          “Il motivo che la psicoanalisi adduce per il formarsi della religione è uno solo: il contributo infantile alla sua motivazione manifesta […]. Il motivo del desiderio ardente del padre coincide pertanto col bisogno di protezione contro le conseguenza della debolezza umana; la difesa contro l’insufficienza infantile lascia il suo segno caratteristico […] sulla formazione della religione” (L’avvenire di un’illusione, ediz. economica Boringhieri, 2009, pp. 63-64). In sostanza la religione, quanto alla sua genesi intende soddisfare un infantile bisogno di protezione. Dunque “infantile” e “bisogno di protezione” sono due termini chiave su cui dovremo tornare. Vediamo ora come Freud qualifica le idee religiose.

·          “Queste [cioè le idee religiose] che si presentano come dogmi, non sono precipitati dell’esperienza o risultati finali del pensiero, sono illusioni […]. Caratteristico dell’illusione è di derivare dai desideri umani; sotto questo profilo essa si avvicina alle idee deliranti note alla psichiatria” (ibi, p. 72). “Illusione” e “idee deliranti” sono qui i termini chiave. Vediamo infine che cosa Freud, da ateo, prospetta al di là della religione.

·          Premesso che per Freud due diverse concezioni del mondo si fronteggiano, l’una che considera l’uomo eterno minore, bisognoso di un padre che lo indirizzi e lo domini; l’altra che ha fiducia nella ragione e nelle autonome capacità dell’uomo, “vale la pena di tentare un’educazione irreligiosa […] L’uomo non può rimanere eternamente bambino, prima o poi deve avventurarsi nella ‘vita ostile’. Questa può essere chiamata la ‘educazione alla realtà’ ” (ibi, pp. 92-93).

Abbiamo dunque sei paletti che segnalano l’itinerario freudiano sulla religione (bisogno di protezione-infantile; illusione-delirio; ragione-educazione alla realtà). Ma prima di illustrare questo percorso più in dettaglio diamo uno sguardo complessivo all’impostazione freudiana. Non si può non avere l’impressione di una critica conturbante: ci prende per così dire alle spalle, lavorando sul modo dubbio, cioè infantile con cui nascerebbe la credenza religiosa; lavora su ciò che i teologi chiamano la fides qua creditur, il modo con cui si crede. La critica freudiana tocca invece solo tangenzialmente la questione della fides quae creditur, cioè ciò che è creduto, l’oggetto della fede. In questa sua impostazione Freud è conforme alla modernità: dopo Kant e la sua confutazione delle prove razionali dell’esistenza di Dio, non ci si preoccupa più tanto di dimostrare che Dio esiste o non esiste, quanto piuttosto con Marx, Feuerbach e Nietzsche, Freud insiste sulla genesi sospetta delle credenze religiose. .

Nella pars construens, l’alternativa alla religione che Freud propone è ispirata a un ateismo che reputo degno di rispetto. Non è certo l’ateismo crapulone dell’edonista: “Dio non c’è, carpe diem”, in base per altro al pansessualismo di cui è stato spesso accusato Freud. Non è neppure l’ateismo che terrorizzava Dostoevskij, quando mette in bocca a Ivan dei Fratelli Karamazov: “Se Dio non c’è, tutto è consentito”. Ivan è il filosofo che con questa teoria giustifica il cinico comportamento dell’anarchico Stavrogin nei Demoni, che non si fa problema a stuprare una bambina, che poi si suiciderà: appunto, se Dio non c’è… Il male morale per Dostoevskij è la conseguenza inevitabile della morte di Dio, dell’ateismo. Al contrario per Freud la ragione è sufficiente per costruire una moralità, senza che vi sia bisogno di Dio. La sua non è però la ragione trionfante di certo razionalismo illuministico, ma il primo compito della ragione per Freud è quello di porci di fronte alla nuda realtà, togliendoci ogni velo consolatorio. L’educazione alla realtà, di cui nel brano che ho citato, significa prendere coscienza della nostra impotenza di fronte al male, alle catastrofi naturali o prodotte da noi umani come le guerre, e porci di fronte al nostro destino mortale. La filosofia con cui l’ateo Freud affronta la vita e il suo dramma si condensa dunque nella massima da lui stesso riproposta Logos kai anagke, cioè affrontare con la ragione, con stoico coraggio le dure necessità della vita, senza le fasulle consolazioni della religione. Al più la scienza può migliorare un po’ le condizioni della nostra esistenza, e Freud intende lavorare in questa direzione, ma nulla può di fronte ai radicali limiti esistenziali: la cattiveria umana, la sofferenza, la morte. Il credente è seriamente provocato da Freud, ma ad un tempo non può non togliere tanto di cappello alla dignità di questo ateo.

Che dire della pars destruens dell’approccio freudiano alla religione? L’enorme influenza del freudismo in tutta la cultura del ‘900 e dunque una certa autorevolezza anche su questi temi, non toglie che Freud abbia sconfinato oltre il suo campo specifico di ricerche, che è quello della psicopatologia. Sorgono allora una serie di questioni. Che posto ha nel contesto dell’opera freudiana la sua concezione della religione? In particolare l’ateismo freudiano deriva necessariamente dal nocciolo dell’impianto psicoanalitico o è solo un possibile sviluppo? Ma preliminarmente: qual è “il nocciolo” della psicoanalisi freudiana? E ancora: che valore scientifico ha al giorno d’oggi?

Partiamo dall’ultima questione: è da osservare che oggi non ci si accanisce più tra freudiani e anti-freudiani, a differenza degli anni ’50 quando, dopo il marxismo, la psicoanalisi era forse il pericolo più temuto nel mondo cattolico, accusata com’era di materialismo e di pansessualismo. Se il rapporto con la psicoanalisi è diventato meno scottante da qualche decennio nel mondo degli intellettuali, cattolici o laici che siano, è anche perché sono da tempo in corso revisioni tra gli stessi psicoanalisti di tradizione freudiana su punti essenziali del freudismo, come il carattere conflittuale o meno della psiche, il carattere creativo delle produzioni culturali umane, o semplicemente reattivo a pulsioni. La critica freudiana alla religione può dunque essere attaccata dal lato delle premesse psicologiche da cui parte, come già fu fatto da suoi allievi a partire da Carl Gustav Jung; ma non è questa la via che intendo ora intraprendere, volendo invece seguire il corso dell’argomentazione freudiana.

Veniamo allora al nocciolo del freudismo classico. La psicoanalisi è essenzialmente sia un metodo di indagine e di cura della psiche, sia un insieme di dottrine riguardanti il funzionamento psichico; qualche discepolo infatuato ha voluto farne una visione generale del mondo e dell’uomo, ma è sbagliato. Il metodo a mio avviso è la parte ad oggi più vitale ed è relativamente indipendente dalla dottrina psicologica freudiana. Quanto ai punti chiave della dottrina freudiana, essi si ritrovano nelle origini, quando Freud cercava di districarsi dalla psichiatria del tempo. Nell’ultima decade dell’ 800 si formarono quattro pilastri fondativi del freudismo:

·         esistono pensieri, desideri, e più tardi Freud parla di “pulsioni”, che sono inconsci e che motivano il comportamento di ciascuno a nostra insaputa;

·         questi pensieri, queste spinte inconsce, inoltre, sono tali da produrre disturbi, sia a livello psichico, sia somatico.

Questi due pilastri erano noti tra psichiatri e neurologi al tempo. Freud è invece originale rispetto ai contemporanei per due ulteriori tesi:

·         il carattere conflittuale della psiche, cioè quelle spinte, poiché non sempre sono accettabili, vanno “rimosse”, così che si crea un ricorrente conflitto tra certe nostre pulsioni e le esigenze morali che abbiamo interiorizzato;

·         il carattere simbolizzante della psiche, vale a dire questi pensieri, desideri o pulsioni respinti ritornano alla superficie (nulla si crea e nulla si distrugge, in base a un presupposto fisicalista abbracciato da Freud); ma vi ritornano sotto forma simbolica, cioè mascherata, spesso metaforica, come accade nei sintomi psicopatologici e poi anche in fenomeni normali come i sogni e i lapsus. Dunque l’interpretazione appare come un cammino inverso rispetto alla generazione del sintomo, del sogno ecc.

Ebbene, tutti questi pilastri concorrono in Freud a spiegare i molteplici aspetti della vita psichica e nella fattispecie i vari aspetti della religione di cui si occupa. Il carattere conflittuale e simbolizzante della psiche interverrà specie a spiegare la religione come nevrosi, ma quando Freud paragona la religione a una nevrosi si riferisce per lo più ad aspetti che ora non prendo in considerazione, relativi alla pratica religiosa per le sue dimensioni di ritualità di tipo ossessivo, per suo insistere sul tema della colpa e del peccato. Soffermiamoci piuttosto sulla tesi freudiana centrale a riguardo della religione, cioè l’idea di illusione, la religione come illusione: chiediamoci in che rapporto l’illusione stia coi concetti freudiani portanti che ho testé ricordato. Ebbene la nozione di desiderio o di bisogno, qui trascuro le differenze tra bisogno e desiderio, è il ponte tra la psiche e l’illusione. Che cos’è un’illusione? L’illusione è l’idea di un qualcosa che deve esistere, o di un evento che deve realizzarsi, non perché ne abbiamo le ragionevoli prove, ma solo perché lo “desideriamo”. Scrive Freud : “Diciamo dunque che una credenza è un’illusione, qualora nella sua motivazione prevalga l’appagamento di desiderio, e prescindiamo perciò dal suo rapporto con la realtà” (L’avvenire di un’illusione, p. 72). Freud fa l’esempio della ragazza popolana che è convinta di poter sposare il principe: non è impossibile, ma altamente improbabile, specie ai tempi di Freud, e diciamo anche comunemente che quella ragazza si illude. Nell’illusione insomma non ci rendiamo conto, ed ecco l’aspetto inconscio, che quella cosa che crediamo vera, in verità è solo frutto di un desiderio: l’occhio critico dello psicoanalista freudiano vede in colui che si illude la realizzazione di un inconsapevole autoinganno.

Vediamo allora meglio in che senso la nozione di illusione si applica alla religione per Freud, partendo anzitutto da come il singolo nel corso dello sviluppo può accostarsi all’idea di Dio. Il bambino piccolo ha un bisogno indubbio di protezione, di rassicurazione e trova la risposta, normalmente, nei genitori – e si noti che per tutta l’infanzia il bimbo non può capire l’idea di Dio. Ma quando il bambino è cresciuto, si rende conto che i genitori non sono quei padri eterni che immaginava, hanno evidenti limiti; ecco allora facilitato l’accesso all’idea di Dio, come quel Padre con la P maiuscola che tutto può. Grosso modo, così le cose sono andate secondo Freud pure nella storia dell’umanità: “Il primitivo ha bisogno di un dio come creatore del mondo, capo supremo della tribù, protettore personale” (L’uomo Mosè e la religione monoteistica, in Opere di Sigmund Freud, Edizione Boringhieri, vol. 11, p. 445). Sotto l’aspetto della credenza illusoria di un Dio che ci rassicura e ci protegge Freud colpisce non solo le religioni primitive, ma pure le grandi religioni monoteistiche a cui pensa: Dio è invocato a protezione di fronte al male, alle sofferenze psichiche e fisiche. Per i cristiani in particolare è significativo il fatto che Dio sia chiamato Padre proprio nella preghiera principe del cristianesimo; inoltre noi cattolici assieme agli ortodossi abbiamo valorizzato nel corso della storia del cristianesimo il ruolo protettivo della figura materna, la Madonna, madre che intercede. Infine, non è forse vero che un po’ tutte le religioni presenti al mondo vogliono rassicurare di fronte all’angoscia più seria nella vita, cioè l’angoscia per il fatto che si muore, offrendo qualche tipo di speranza al di là della morte? E per i cristiani, se non ci fosse la resurrezione dei morti in virtù dell’onnipotenza di Dio Padre, sarebbe vana la fede in Cristo, come scrive Paolo apostolo a più riprese.

Freud direbbe appunto che queste credenze sono tutte illusioni, pie illusioni, per non affrontare la dura realtà della nostra finitezza; inoltre le illusioni sarebbero simili a dei deliri, come visto nel passo che ho letto all’inizio. Ahimé, qui la questione si fa pesante. Finché si dice che siamo illusi, pazienza, ma dire che siamo deliranti, cioè un po’ matti, spiace maggiormente. Infatti il delirio è espressione tipica della psicosi, malattia grave: lo psicotico delirante, al pari dell’uomo religioso, crede che qualcosa ci sia, ma non sa che quel qualcosa è solo espressione del suo desiderio; cioè lo psicotico ha perso il senso della realtà. Che differenza allora tra il credente e quel poveretto che nell’Ospedale psichiatrico d’altri tempi, come mi raccontò un amico psichiatra, fu sorpreso in reparto mentre stava assorto in ginocchio? “Ma che fai?”, gli chiese lo psichiatra. E l’altro tutto sorpreso: “Non vedi che sto parlando con la Madonna”. La differenza della credenza religiosa rispetto al delirio è che nella prima vi è consenso sociale, cioè non c’è “contraddizione con la realtà” qual è percepita o creduta da un gruppo, cosa che manca invece nel caso del povero psicotico. Anche Freud riconosce in sostanza questa differenza: l’illusione religiosa, scrive, “si avvicina alle idee deliranti note alla psichiatria, ma a differenza del delirio l’illusione non necessariamente è un’idea falsa, cioè irrealizzabile o in contraddizione con la realtà” (L’avvenire di un’illusione, p. 72). Inoltre a differenza del delirio, aggiungo io, dalla credenza religiosa deriva (o dovrebbe derivare) una prassi non contraddittoria con le esigenze della vita associata, anzi una prassi “pro-sociale” come si dice oggi, una prassi cioè che sostiene il gruppo e gli individui, mentre il povero psicotico è chiuso nel suo mondo privato.

È ora venuto il momento di fare a nostra volta una critica alla critica freudiana alla religione di essere un’illusione simile al delirio, nata dal bisogno infantile di protezione. Ebbene, una critica genetica di questo tipo è decisiva a favore dell’ateismo? No, la critica genetica non dimostra che Dio non esiste, ma come dicevo, mostra solo come può nascere l’idea di Dio. Fortunatamente se ne rende conto anche Freud, che non fa l’errore genetista di taluni suoi discepoli, cioè l’errore di ritenere che la critica al modo discutibile con cui una convinzione è sorta, significhi ipso facto la condanna, l’erroneità di quella convinzione. Scrive infatti che “le dottrine religiose sono tutte illusioni indimostrabili. [Ma] così come sono indimostrabili, sono anche inconfutabili” (ibi, 73). Vale a dire, non si può dimostrare che sono vere, ma neppure si può dimostrare che sono false. Parimenti neppure è dimostrabile la non esistenza di Dio, cioè non si può costringere a fil di logica nessuno a non credere, ad esser ateo. Fin qui Freud. Di più il credente – questo lo aggiungo io – può rovesciare il banco: a fil di logica, una volta fatta l’opzione di fede religiosa, può dire che proprio le tribolazione della vita sono la via di cui si è servito Domine Iddio per portare alla conversione. Ricordate l’Innominato di manzoniana memoria che preso dal rimorso per le sue malefatte, spaventato dalla vecchiaia incipiente e dalla paura della morte, nella famosa notte si converte; ricordiamo anche la biografia di tanti Santi, che si sono convertiti al fondo di qualche tribolazione.

Per dimostrare la non esistenza di Dio, semmai fosse possibile, ci vorrebbero dunque argomentazioni che entrino nel merito della credenza e non solo nella sua genesi. Freud fa solo qualche cenno in questo senso supponendo una teoria della conoscenza di tipo scientistico e positivistico, secondo cui è vero solo ciò che è provato con i fatti o con un ragionamento ineccepibile che parta dai fatti. Forzando un po’ Freud, perché ripeto i suoi sono solo cenni, Freud non reputa inappropriato imboccare la via dell‘intellego ut credam (capisco per credere), ma per poi dire che per via di esperienza e di ragionamenti si può solo concludere “non intellego”, cioè non capisco, non ci sono le prove. (Freud evidentemente non attribuisce valore alle cinque vie di San Tommaso per dimostrare l’esistenza di Dio).

In definitiva Freud stesso viene a concludere che non è ragionevole credere, anzi non è dignitoso per l’uomo adulto, ma non che sia assurdo, cioè contraddittorio alla luce della ragione. Controprova è che il rapporto col credente non è affatto chiuso: lo mostra il dialogo sincero e accanito col pastore e psicoanalista Otto Pfister, che resterà sia psicoanalista sia religioso, ribattendo a Freud con il volumetto L’illusione di un avvenire. (Se Pfister fosse stato un povero psicotico, non avrebbe avuto senso mettersi a ragionare con lui). Del resto le scissione da Freud da parte dei suoi principali discepoli non avvennero su temi di carattere religioso o filosofico, bensì su temi riguardanti la teoria psicologica, come la libido e il simbolismo (nel caso di Jung), il ruolo dell’io e dell’aggressività (nel caso di Adler), ecc. Anzi ci sono poi stati nella successiva storia della psicoanalisi anche cattolici praticanti che sono saliti ai vertici delle istituzioni psicoanalitiche come Leo Bartemeier divenuto presidente dell’American Psychoanalytic Association e poi della stessa International Psychoanalytic Association (dal ’49 al 51), inoltre altri nomi di rilievo come Gregory Zilboorg, russo trasferitosi negli USA, e in Italia il compianto Leonardo Ancona.

La critica freudiana alla religione, dunque, quanto alla genesi dell’idea di Dio, è coerente con la coppia desiderio-illusione che a sua volta si aggancia ai primi pilastri della psicologia freudiana che ho menzionato; dall’altra parte, quanto all’obiettiva attestazione dell’esistenza di Dio, si limita a dire che non ci sono le prove per poter credere. Vediamo allora una possibile risposta costruttiva e non solo difensiva, da parte del credente. Anzitutto, visto che la critica freudiana non è decisiva al fine di negare l’esistenza di Dio, ma solo corrosiva, possiamo forse tornare allo status quo, come se nulla fosse accaduto? Il credente dopo Freud, così come dopo Marx e Nietzsche, non può fare la politica del struzzo, ma a mio avviso occorre lasciarsi interrogare da questi sviluppi della modernità. Non alludo solo al fatto pratico che la psicoanalisi, o forme di psicoterapia da essa derivate, possano diventare di supporto alla pastorale nell’aiutare soggetti in difficoltà, fino a vagliare, se il caso, le motivazioni meno chiare che spingono una persona alla vita consacrata: se lo si fosse fatto in passato, forse si sarebbe limitato lo scandalo dei preti pedofili. Di più alludo al fatto radicale di lasciarsi interrogare riguardo alla plausibilità della fede religiosa stessa. Ebbene, la psicoanalisi può esercitare una critica salutare, proprio su quelle forme di religiosità costruite a mera compensazione di umane debolezze, laddove Dio, la Madonna, i Santi sono vissuti come meri soccorritori nei bisogni terra terra, anche se soggettivamente importanti. Così ci si rivolge alla religione di fronte a una malattia ad oggi inguaribile, si accende la candela per l’esame, per dire di un caso popolare; si sono fatte anche processioni contro la siccità, in passato contro le pestilenze, per fermare lo scorrere della lava. In questi casi si conferisce a Dio il ruolo di un “tappabuchi”, di cui prima o poi faremo a meno, non appena si riuscirà con lo sviluppo della scienza o con un’accresciuta maturità psicologica a risolvere i nostri problemi senza far intervenire Dio …

Ecco l’indovinatissima espressione di Bonhoeffer: “Dio tappabuchi”. Cito il pastore e teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, perché era figlio di Karl, un importante psichiatra tedesco, e certo doveva conoscere Freud. Il problema di Bonhoeffer è appunto che ne è di Dio e della religione dopo l’avvento della modernità. Anzitutto per lui non è più sostenibile la fede in un Dio tappabuchi. Al Dio tappabuchi oppone il Dio dell’essere- per-gli altri, cioè il Dio che avvia e con cui si avvia un progetto di vita ispirato appunto all’essere-per-gli altri. La religione e la fede non sono tanto o soltanto questione di credenza intellettuale, ma senza le opere o meglio senza un progetto di vita, fede e ritualità religiosa sono ben poca cosa. E il progetto di vita nel caso di Bonhoeffer era ispirato, nella sequela di Cristo, all’itinerario che passa per il binomio di croce e resurrezione. Nel ’39 Bonhoeffer poteva starsene lontano dalla Germania nazista, ma ci torna per farsi parte attiva della chiesa confessante che si opponeva al nazismo, prende la croce con i confratelli per un progetto che malgré lui lo porta in piena coerenza di vita in carcere e alla morte. All’intellego ut credam, cui resta difficile aderire nella modernità dopo che Kant ha smontato le prove per l’esistenza di Dio, direi che Bonhoeffer sostituisce l’amo ut credam.

Mi spiego meglio cercando di rispondere a Freud con Bonhoeffer, che prendo come caso esemplare tra altri citabili, un campione della fede, se vogliamo, da confrontare con un campione dell’ateismo: nel caso di un Bonhoeffer non può essere questione di infantilismo, perché chi è infantile non progetta la propria vita nel modo di Bonhoeffer, un modo che è decisamente al di là del Dio del mero bisogno di protezione; ma neppure è questione di mera credenza intellettuale, in un Dio razionalmente dimostrato. Del resto alzi la mano chi ha creduto in Dio sulla base di una mera dimostrazione intellettuale della sua esistenza. Piuttosto nella fede-progetto si realizza un circolo virtuoso fatto di una fede che induce alla speranza e alla carità e di una carità che vissuta nella speranza porta a corroborare la fede stessa. Nella carità, “guardateli dai loro frutti”, sta il segno della fede in Cristo in quanto progetto di vita. È sul lato dunque della prassi, dei frutti che il credente porta in nome della propria fede che si misura il valore e ad un tempo la credibilità della fede: guardateli dalle opere, almeno quelle buone (e sappiamo quanti se dicenti cristiani non sono stati esemplari). Ma su questa strada Freud resta indietro di parecchie miglia, non comprendendo l’amore, la caritas nel senso cristiano.

NOTE: testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 13.4.2012 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.