Il silenzio dei vivi

Devo affermare la verità, non mi aspettavo una così grande accoglienza questa sera. Vi ringrazio infinitamente e vi chiudo tutti quanti in un grande abbraccio. Ciò vuol dire che c’è ancora della gente buona che vuole sapere e questo certamente riempie il mio cuore di gioia.
Il mio calvario è iniziato nel lontano 1938 con l’annessione dell’Austria da parte della Germania. Sono nata in Austria, a Vienna, oltre ottant’anni fa. Sono figlia unica, mio padre è stato uno dei primi ad essere arrestato e deportato al campo di Buchenwald dove morì dopo pochi mesi. In seguito anche mia madre è stata deportata e ancora oggi non so né come, né quando, né dove è morta. Si dice, almeno così mi scrisse la Croce Rossa Internazionale nel ’45, che è andata a finire in Ucraina o in Galizia.
Io dopo moltissime peripezie, fuggendo attraverso mezza Europa, sono giunta nel 1940 in Italia e mi sono fermata a Milano. A Milano ho vissuta fino al 1944 una vita abbastanza normale, anche se non potevo lavorare perché gli ebrei non potevano più prendere nessun lavoro ufficiale; mi mantenevo facendo a casa delle traduzioni dall’inglese e dal tedesco in italiano e viceversa. Nel giugno del 1944, a seguito di una spiata, sono stata arrestata e, dopo circa un mese di peregrinazione tra le carceri di S.Domingo a Como e di S.Vittore a Milano, sono stata spedita su un camion, insieme con altri, alla stazione ferroviaria di Verona dove erano già pronti i convogli, tanti carri – bestiame, sui quali noi salimmo e il treno partì. Destinazione sconosciuta.
Eravamo chiusi senza possibilità di fuga, in quanto i vagoni erano bloccati dall’esterno da grandi catenacci, quasi senza mangiare e senza bere. Trentasei uomini, donne e bambini erano pigiati in uno stesso vagone con un po’ di paglia per terra: un pezzo di pane nero e un po’ di marmellata di barbabietole dovevano bastare per il viaggio e per la fame.

Dopo quattro–cinque giorni di viaggio arrivammo in Al¬ta–Sle¬sia, il treno si fermò, salì un ferroviere, aprì un vagone e disse: «Adesso potete dire tutti – Amen, Alleluia». Ma noi allora non capivamo il significato di questa frase, non sapevamo nulla. Ci fecero scendere dal treno: eravamo giunti al campo di Auschwitz – Birkenau. Lì a forza di spintoni con la canna del fucile e di frustate, ci fecero scendere e gridarono: «Svelti, svelti! Presto!». Già alcuni erano morti nel vagone e le persone più anziane non ce la facevano più, li buttarono a terra, poi, quando scesi, vidi che c’erano già altri due convogli fermi e che tanta gente attraversava i binari. Non fecero subito l’appello e ci portarono dentro il campo; attraversammo un cancello di ferro dove c’era scritto: «Arbeit macht frei», cioè «Il lavoro rende liberi». Oggi sappiamo che questa libertà era quella di uscire attraverso il camino.
Ci portarono quindi a un grande campo e ci fecero stendere per terra nel fango mentre pioveva a dirotto e lì rimanemmo tutta la notte fino all’alba. Assetati, molti di noi immersero il viso in alcune pozzanghere, cercando di bere, di dissetarsi. La sete ci tormentava più della fame, anche se digiunavamo, ormai, da cinque giorni. Al mattino arrivò un uomo con la divisa a strisce, un detenuto, e ci portò innanzi ad una costruzione a forma di staffa di cavallo. Lì ci fecero mettere tutti in fila e poco dopo venne un ufficiale e oggi sappiamo che era il famigerato dottor Josef Mengele, il quale con un gesto del pollice, a destra o a sinistra, destinava chi al crematorio, chi alla camera a gas, chi al campo. Ma noi non lo sapevamo.
Davanti a me c’era una mia amica conosciuta durante la mia permanenza nelle carceri di Milano, poiché a S.Vittore tutte le celle erano aperte e si trovavano famiglie intere: in particolare lei si trovava nella cella in parte alla mia con il marito e i suoi due bambini. Quindi lei era in fila davanti a me, tenendo per mano i due bambini: un ragazzini di dieci anni e una femminuccia di otto. Il dottor Mengele ci mandò da due parti opposte ed io volevo raggiungerla per non rimanere sola, se non ché uno scrivano, un detenuto politico ucraino, nel vedermi tentare di raggiungere questa mia amica, mi fermò e disse: «Resta dove sei e domani mi ringrazierai». Infatti, come ho saputo il giorno dopo quando venne a trovarmi, questa mia amica soltanto per il fatto di aver avuto questi due bambini vicino, è andata subito a finire insieme ai piccoli nella camera a gas. Lui praticamente mi ha salvato la vita.
Il mio gruppo passò in una costruzione a staffa di cavallo chiamata «Sauna». Entrammo là dentro e fummo privati di tutto. Dovevamo spogliarci completamente davanti ai guardiani tedeschi, sempre col fucile spianato contro di noi, poggiare i nostri vestiti su di un carrello e poi passare per un corridoio largo e lungo dove c’erano, l’uno dietro l’altro, tanti lettini e un uomo con la mansione di barbiere. Prima ci tagliarono i capelli, poi ci raparono dappertutto; noi cercavamo di coprirci, di stringere le gambe, ma gli ufficiali tedeschi, con la canna del fucile, ci spalancarono le gambe urlando: «Fatevi rapare!». In quel momento abbiamo perduto la nostra dignità, il nostro pudore e tutto il nostro aspetto fisico. Tremanti di paura eravamo inermi davanti ai nostri aguzzini che ci schernivano per l’aspetto, ci mortificavano nella nostra femminilità.
Siamo entrate in un’altra stanza dove ci hanno fatto la doccia, poi in un’altra stanza ancora dove l’aria calda ci asciugava, e poi ancora in un grande stanzone dove ci fu dato uno straccio di vestito senza biancheria, senza mutande, senza nulla; solo quel vestito, un paio di zoccoletti di numeri diversi l’uno dall’altro. In seguito ci portarono all’aperto e ci misero in fila; ci mettemmo pure a ridere perché eravamo completamente cambiate fisicamente, non ci riconoscevamo più. Ci hanno quindi fatto incamminare su di un viale, dove ad un certo punto era preparata una lunga tavola con due ragazze detenute che ci dovevano tatuare il numero di matricola sull’avambraccio sinistro, con un pennino rovente inzuppato in un inchiostro particolare.
Da quel momento scomparivamo come esseri umani, diventando numeri, pezzi per la macchina di sterminio del Reich.
Infine ci portarono in una baracca di legno per la quarantena e, quella stessa sera, venne a trovarmi lo scrivano del dottor Mengele, per dirmi che la mia amica era già passata a vita migliore con i suoi bambini. Dopo due giorni siamo passati finalmente nella baracca che ci fu assegnata, sempre di legno, dove si dormiva sopra tavolacci posti su letti a castello di tre piani senza paglia. Tra un piano e l’altro l’altezza era di un metro appena, sicché non si poteva stare seduti con la schiena diritta, ma ci si doveva curvare assumendo la posizione degli animali rintanati nelle loro cucce.
Fummo costretti a dormire in dodici su quei tavolacci larghi due metri e lunghi uno, costretti a rimanere sdraiati su un fianco, immobili in quella posizione, poiché la mancanza di spazio ci precludeva ogni movimento. L’insufficiente lunghezza del tavolaccio ci costringeva, oltretutto, a rimanere con le gambe nel vuoto. Io mi ero scelta il posto in prima fila, diciamo così, dove c’era il corridoio in modo che respiravo un poco di aria libera senza avere l’alito della mia compagna sempre in faccia. Ancora oggi dormo sul mio lato destro e qualche volta rischio di cadere dal letto, perché da quando è morto mio marito dormo in un letto singolo.
Al risveglio ci portavano un bicchiere di smalto con un po’ di surrogato di caffè, senza zucchero. Siccome nell’agosto del ’44 non c’era acqua potabile, utilizzavo il surrogato per lavarmi mani e faccia. Nella mia baracca non si faceva nulla perché era una baracca di transito, di attesa, per essere destinati da qualche altra parte. Eravamo abbandonati là, solo che la mattina, ad un certo orario, si doveva fare l’appello. Appena si sentiva il fischietto, si doveva uscire tutti dalla baracca per metterci in fila per cinque, l’una dietro l’altra. Passava la guardia, ci osservava; non potevamo guardarli in faccia, dovevamo osservarli sotto le loro teste, non eravamo degni di guardarli in viso.
Periodicamente veniva il dottor Mengele e allora si doveva uscire per l’appello completamente nude. Lui ci faceva gelare, ci osservava minuziosamente e bastava un foruncolo appena più irritato del solito per essere mandati immediatamente alla camera a gas. Io, una volta, per aver solo fatto il gesto di sorreggere una mia compagna della fila a fianco che stava per svenire, dopo tante ore di appello, fui chiamata da un ufficiale (gli appelli duravano dalle tre alle dieci ore a seconda del tempo: se il tempo era bello tre ore potevano bastare, se era brutto dovevamo stare dieci – dodici ore sotto l’acqua all’aperto. Non a caso si chiamava campo di sterminio, si faceva di tutto per farci morire). Questo fece un gesto con il dito, si assentò una decina di minuti per poi tornare con un ferro rovente. Davanti a tutti mi ha fatto una bruciatura sulla gamba posteriore destra, la cui cicatrice è visibile tutt’oggi. Questa era soltanto una delle torture, le altre erano strappare delle unghie e tante altre cose di cui è meglio non parlare.
Dopo l’appello si rientrava dentro la baracca e si riceveva il rancio di mezzogiorno, che consisteva in una scodella con un po’ di minestra color grigio ferro nella quale nuotavano due, tre pezzettini di rapa selvatica. La minestra bruciava terribilmente, ma non per il calore: sembrava che ci fossero dentro dei chili di pepe. Oggi sappiamo che era invece bromuro per farci stare calmi e altri medicinali per bloccare il nostro ciclo mensile. Si trattava di esperimenti che facevano su di noi senza che lo sapessimo, perché volevano vedere che effetto potesse fare su di una giovane donna la mancanza del ciclo mensile. Poi ci davano due fette di pane che dovevano bastare per mezzogiorno e sera, quindi quasi per ventiquattr’ore. Questo pane era fatto di castagne selvatiche e di segatura. La sera la cena consisteva in un quadratino di margarina, un pezzetto di carne in scatola e marmellata di barbabietole. Oggi sappiamo che la margarina e la carne erano state ricavate dai corpi dei compagni sterminati nel campo. Noi mangiavamo questo senza conoscere nulla, con gran fame. Per questi motivi soffrivamo tutti di una terribile dissenteria.

Nell’ottobre del 1944 mi hanno trasferita nel lager di Bergen – Belsen dove non erano in funzione camere a gas. I deportati venivano portati via, ammassati da un’altra parte e poi bruciati nelle fosse con il lancia–fiamme. Come vita, era la stessa di Birkenau.
Da Bergen – Belsen sono passata, nel febbraio del 1945, in una fabbrica di aeroplani a cinquanta km da Lipsia, la città si chiamava Raghun, e quindi a marzo all’ultimo campo dove sono stata liberata, nel lager di Theresienstdt nell’odierna Repubblica Ceca. Di Theresienstdt ricordo molto poco perché, dopo alcune settimane, sono caduta malata, soffrivo di una grandissima dissenteria. Siccome non mi reggevo più in piedi, mi trascinai ai gabinetti, dove persi conoscenza. Sono rimasta in coma profondo oltre tre settimane, quasi un mese, senza mangiare, senza bere e senza medicine. Non sapevo più di esistere. Quando mi sono svegliata, mi trovavo in uno stanzone, su di un pagliericcio e sotto un’enorme coperta. Alzando la testa e guardando indietro, verso la grande finestra, vidi volare tante carte e sentivo un forte odore di bruciato. Allora chiesi ad una mia compagna che mi stava vicino: «Che succede?». Lei mi rispose: «Elisa, tu non sai niente, tu sei stata in coma quasi un mese, noi qui siamo già liberi. Le truppe russe hanno liberato il campo e quelle carte che tu vedi volare sono i documenti che i tedeschi, prima di scappare, hanno bruciato. Siccome c’è molto vento, sono le carte che volano».
A fianco c’era un grande pacco della Croce Rossa e la mia compagna mi disse: «Tutti hanno avuto i propri pacchi e li hanno già divorati, questo è il tuo, vuoi che te lo apra?». Risposi di sì e mi aprì il pacco; in cima c’era una grossa tavola di cioccolato e siccome sono piuttosto goloso volevo assaggiarla subito, ma non avevo la forza di aprirla. La aprì la mia compagna e mi mise un pezzettino di cioccolato in bocca. Non sono stata capace di ingoiare questo pezzettino di cioccolato, ero incapace di mangiare, ero troppo debole; mi ero ridotta a una larva, a uno scheletro umano.

La domanda che, a questo punto, tutti mi pongono è: «Come ha fatto ha sopravvivere?». Io ho una sola risposta: in tutto il periodo della mia detenzione non ho mai perduto la fede in Dio, nel nostro Dio. Ho sempre pregato e ho voluto fortemente sopravvivere. Ho cercato di ubbidire a tutti gli ordini dei tedeschi, sono stata favorita anche dal fatto che sono austriaca e capisco la loro lingua. Questo mi ha aiutato molto, perché dovevo ubbidire immediatamente; loro pretendevano che tutti dovessero capire la loro lingua e questo in parte mi ha salvato.
Chi mi ha veramente salvato è stato solo il nostro Dio, perché ho subito tante torture, e il Signore mi ha sempre salvato. Ecco perché io oggi sono felice di essere inaspettatamente qui, in questa chiesa. Io mi trovo molto bene nelle chiese, circondata da suore e da sacerdoti, che sono i miei migliori amici. Essere qui fra voi è una gioia immensa per me.
Ho taciuto per cinquant’anni. In seguito alla mia liberazione la mia vita non è stata facile, ho incontrato un bravissimo uomo a Milano, meridionale, che mi ha sposata e mi ha portata nel sud Italia. Nel meridione non si sapeva quasi nulla di tutto quello che era accaduto sia nel nord Italia che all’estero, perché non hanno vissuto la Resistenza. Loro sapevano della guerra perché c’era chi aveva il fratello, chi il figlio, chi il marito in guerra, però non conoscevano tutto quello che era accaduto. Quindi era difficile parlare. La famiglia di mio marito era composta da bravissima gente, ma di poca cultura; senza alcuna informazione sull’ebraismo. Quindi mi era stato quasi imposto di tacere. Ero l’unica ebrea di tutta la zona, non solo della città in cui oggi vivo, di tutta la regione circostante quindi.
Di conseguenza ho tenuto racchiusa dentro di me, per cinquant’anni, la mia storia; l’unico modo per sfogarmi è stato lo scrivere su una specie di diario, tenuto nascosto in un cassetto dell’armadio, dove ho raccontato quanto avevo passato.
Negli anni Sessanta mi è giunta una lettera dalla ANED (Associazione Nazionale Ex Deportati), che sapeva della mia esistenza e che voleva qualche documentazione per il Museo di Carpi. Risposi che avevo fatto una specie di diario su di un quadernetto di scuola e mi hanno risposto di inviarglielo. Se avessi voluto la copia originale, loro avrebbero fatto una copia fotostatica. Ho mandato loro questo quaderno senza richiederlo indietro, perché ero convinta che non interessasse a nessuno.
Dopo la morte di mio marito mi sono completamente aperta con mio figlio e gli ho detto di questo mio scritto. Essendo figlio unico, giustamente mi ha detto: «Mamma, io voglio avere qualcosa in mano, non è giusto che io non debba conoscere niente». Allora scrisse al Museo di Carpi, il quale ha risposto, con una lettera datata gennaio 1966, che il diario non si trovava più. Mi sembrava giusto che mio figlio volesse conoscere, perché non c’è futuro senza passato. Mi sono quindi autoviolentata, ho cercato di ricordarmi ogni particolare, cosa che non mi era difficile in quanto, anche se sono passati tanti anni, tuttora, continuo a vivere ad Auschwitz, dove sono già tornata quattro volte. Ho così riscritto questo diario e da questo mio scritto è nato il libro: «Il silenzio dei vivi», scritto in collaborazione con mio figlio, che l’ha dovuto correggere perché il mio italiano non è perfetto.
Viene spontaneo chiedersi il motivo di questo titolo. Fino a pochi anni fa volevo parlare, ma nessuno era disposto ad ascoltarmi, c’era molta indifferenza. Oggi, invece, è diverso. Il silenzio di allora era il silenzio degli altri che mi costringevano a tacere e per me era la morte; oggi c’è un altro silenzio, è quello vostro, che volete sapere, che state zitti mentre io parlo, anche se parlo male perché non sono italiana. Questo vostro silenzio per me è la vita, siete voi che mi avete ridato la vita. Se ho lasciato la mia gioventù ad Auschwitz, siete voi oggi che, malgrado la mia età, ad ottant’anni suonati, mi avete ridato la vita.
Ogni tanto ricordo, penso a molte cose e, facendo i calcoli, mi sono accorta che della mia vita mancano praticamente cinquantasette anni, perché ho vissuto bene solo fino a quando avevo vent’anni. Ho ricominciato a vivere nel 1995. Tutti quegli anni dal 1938 al 1995 per me sono sofferenza perché ho dovuto trascinarmi dietro quell’enorme fardello dal quale oggi finalmente mi avete liberato. Quindi oggi sono ancora molto giovane; toglietene da ottanta anni cinquantasette, e vedete come sono ancora molto giovane.
Vorrei dire ancora due parole. Siamo tutti quanti figli di un unico Dio, i buoni e i cattivi esistono dappertutto e apparteniamo tutti ad una stessa razza Può cambiare soltanto il colore della pelle, ma siamo esseri umani e come tali dovremmo comportarci. Uso il condizionale perché purtroppo oggi sembra che questi cinquant’anni siano passati inutilmente. Purtroppo l’uomo continua ad uccidere l’uomo. Il mondo arde e questa è una cosa che fa male. Oggi, malgrado la mia età, giro per l’Europa (alla fine della settimana sono a Vienna, quindi devo andare a Cracovia, sono appena tornata da Auschwitz). Anche se questo mi dà vita, dovete comprendere che a ottant’anni non è tanto facile. Io lo faccio, finché il Signore mi dà ancora un po’ di salute, perché sento il dovere di parlare, lo devo ai miei genitori, a tutti i morti del lager e lo devo ai giovani, perché devono sapere.
Purtroppo la gioventù di oggi vuole tutto, e lo vuole subito, ma non è possibile. Dico sempre ai giovani che paragono la vita a una bella rosa il fiore è la vita e le spine sono quelle difficoltà che si incontrano durante il cammino della propria esistenza ma, con buona volontà e pazienza, queste spine si possono togliere una ad una. Allora la vita sorride di nuovo, perché la vita è il più grande dono che ci ha dato il Signore e ce lo dobbiamo tenere ben stretto. Un giorno tutti quanti ci troveremo ad affrontare lo stesso tragitto e mi piacerebbe farlo tenendoci tutti quanti per mano.

NOTA: Elisa Springer è nata a Vienna nel 1918 in una famiglia di commercianti ebrei di origine ungherese. Sopravvissuta ai campi di sterminio, nel 1946 si trasferisce in Italia a Manduria. Nel 1997 ha scritto il libro «Il silenzio dei vivi», edito da Marsilio, che ha venduto in pochi mesi più di 70.000 copie. Viene qui riportato il testo, non rivisto dall’Autrice, della conferenza tenuta a Brescia il 3.11.1998 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.