Il "sociologismo"

Il grande sviluppo della sociologia ha dilatato la sua influenza a tal punto da surrogare la ricerca e la metodologia filosofiche, degenerando così in sociologismo. Il sociologismo non è la corretta sociologia, ma un atteggiamento intellettuale e spirituale comune ad alcune sociologie di moda. Il sociologismo esaspera l’influenza della società sull’individuo, ne fa un nuovo Leviatano, non ne precisa i limiti di fatto e di diritto, nega che esistano verità e valori che trascendano le caratteristiche storicamente determinate di una società. Il sociologismo è una forma di determinismo che lascia assai poco spazio alla concreta libertà dell’uomo, quando non la sopprime apertamente facendo del singolo un epifenomeno del tutto, dell’uomo il prodotto o il succube della società, esposto alla violenza aperta della forza brutale o alla persuasione occulta dell’inconscio.
Il sociologismo accomuna positivisti e marxisti e ha una precisa linea storica che va da Comte a Marx a Durkheim, da Lévy-Bruhl agli strutturalisti contemporanei.

Lungo questa direttrice si è mosso anche un pensatore geniale come Max Scheler nel tentativo di spiegare i sistemi metafisici con la sociologia. L’affermazione secondo cui «i ceti e le classi dei metafisici sono sempre, o per lo più, ceti e classi che hanno cultura e ricchezza» suona categorica, ma né Scheler né altri hanno mai dimostrato le basi storiche o le ragioni filosofiche che possano giustificare un siffatto canone interpretativo. Qualche esempio può valere più di un lungo discorso. Socrate era povero, Platone era ricchissimo, ma disprezzò tanto le ricchezze da ritenerle piuttosto una concessione da farsi alle classi più incolte della società. Aristotele era agiato, ma non ricco. Entrambi non esitarono a porre in luce le carenze e le responsabilità delle classi e dei ceti da cui provenivano. Tommaso d’Aquino ripudiò privilegi, ricchezze, prospettive di successo mondano per far parte di un ordine mendicante. Spinoza fece il pulitore di lenti e rinunciò a ogni carriera, pur essendo amico intimo di Jan de Witt: scelse un mestiere di piccolo borghese, ma non ebbe l’animo del piccolo borghese, nel senso che noi oggi attribuiamo dopo Marx a questa espressione. Né erano ricchi Vico e Kant, che erano professori. Si può dunque legittimamente concludere che senza negare la varia incidenza dei fattori sociali sul pensiero filosofico, si deve tuttavia circoscriverla entro ben definiti limiti, con un valore il più delle volte marginale, per la semplice ragione che quando l’influenza di un certo tipo di società diviene determinante, non ci troviamo più in presenza di una filosofia, ma di una ideologia trionfante o velleitaria che sia. Il sociologismo sembra essere l’ultimo grido della cultura ed è invece, assai spesso, l’ultima personificazione di una ragione pigra, che, senza spingere lo scandaglio oltre la superficie di fatti rilevati e descritti, emette sentenze che vorrebbero essere inappellabili, mentre investono problemi la cui soluzione non può venirci né prevalentemente né esclusivamente dalla sociologia.

Dalla sociologia non può certo venire la soluzione del problema morale. Il Rauh, seguito anche da Jean Piaget, crede che il compito di un’indagine sulla «esperienza morale» sia quello di fornire una tabella delle norme di comportamento prevalenti e delle sue variabili in rapporto a un certo numero di soggetti o di gruppi viventi in una data società. A nostro giudizio, tutto questo lavoro, che ricorda quello della formica baconiana, dato pure che fosse possibile, non condurrebbe a soluzione alcuna del problema morale sia dal punto di vista filosofico che da quello pratico. Nella ricognizione empirica dei soggetti avremmo una pluralità indefinita di morali pari al numero dei soggetti stessi e, se anche fosse possibile formalizzare più tipi di condotte, come crede il Rauh, a quale risultato perverremmo? Niente di più che alla «media» di più comportamenti. Ma quale che sia il rilievo che possa avere per l’educatore, per il sociologo, per il politico la funzione segnaletica di una media, il fatto è che una media di comportamenti non soddisfa l’esigenza etica che scaturisce dalla coscienza umana e affonda le sue radici nella nostra più personale e complessa umanità. Se un’indagine statistica fosse possibile in questo campo, forse si dovrebbe concludere che la più diffusa è la morale degli immorali. Quale conclusione dovremmo ricavare da questa eventuale constatazione? Quella di diventare del bel numero uno? Questa sarebbe la morale del gregge, del conformista, dell’utilitarista.
Il problema morale sarebbe, dunque, risolto, dopo tanta fatica di formalizzazione, nel senso dell’utilitarismo illuministico, con tutte le carenze e le difficoltà denunciate da Kant e da Rosmini, per tacere di altri. E donde mai potrebbe scaturire la «reciprocità normativa», a cui pure fa appello il Piaget? Se la ricognizione e il processo di formalizzazione esauriscono la considerazione del problema morale a livello sociologico, non c’è scampo. Se l’utile è il criterio prevalente, e dunque supremo, e se l’utile individualistico o di gruppo reclama di non ricambiare i beni e i benefici ricevuti da chi non è più in grado di giovarci, donde trarrò la forza e la volontà di ricambiarli nel bisogno, nella malattia, nella rovina economica? Evidentemente bisogna andar ben oltre l’appiattimento sociologistico per riscoprire i controsensi di ogni «morale dell’egoismo» e i limiti di ogni «fisica dei costumi». Come la storia non è affatto il tribunale del mondo, secondo quanto voleva Hegel, perché altrimenti sarebbe il tribunale più ingiusto e iniquo (e folle sterminate di vittime di tutti i secoli, non escluso il nostro, potrebbe attestarlo), così è assurdo far coincidere, sociologisticamente, fatto e valore, predominanza e dover essere. Qui, inconsapevolmente, il sociologismo si fa giustificazionismo storicistico, sociolatria. Karl Lowit ha scritto che «volerci orientare secondo la storia, pur trovandoci all’interno di essa, sarebbe come se in un naufragio volessimo aggrapparci alle onde». L’osservazione vale anche nei confronti dello storicismo sociologistico.

Giornale di Brescia, 1 luglio 1975.