Il testamento biologico: un aiuto per le decisioni di fine vita?

Sia sul piano del dibattito pubblico, sia sul piano delle relazioni di amicizia o familiari ci capita sempre più frequentemente di essere posti davanti a situazioni che riguardano la fine della vita, in cui occorre prendere decisioni o comunque avere qualche criterio per formarsi un’opinione. Non fanno a tempo a spegnersi le polemiche sulla vicenda di Thierry Schiavo negli Stati Uniti, la donna da anni in stato vegetativo per cui il marito ha ottenuto di sospendere la nutrizione artificiale contro il parere dei genitori, che già riprende in Italia la discussione su Piergiorgio Welby, affetto da distrofia muscolare progressiva. E quando se ne acquietano gli echi, si riaccende subito il confronto sulla situazione di Eluana Englaro, simile a quella della donna statunitense, eccetto che per il dissenso tra i familiari. Tre casi differenti dal punto di vista clinico, ma emblematici di decisioni difficili e controverse, accomunate dalla esigenza di un discernimento etico circa l’impiego degli strumenti che la medicina ci mette oggi a disposizione e la legittimità di una desistenza dai trattamenti. Questi interrogativi non possono però essere affrontati senza considerare la più ampia cornice in cui si collocano e che implica il modo in cui la morte viene vissuta e rappresentata nella nostra società.
Pertanto l’esposizione prenderà le mosse proprio dalle difficoltà del discorso sulla morte che caratterizzano la nostra società, per dare in seguito qualche chiarimento sui termini di eutanasia e di accanimento terapeutico, concludendo infine con alcune considerazioni sulle «dichiarazioni anticipate di trattamento» ― anche se comunemente si parla di «testamento biologico» ― nel contesto delle decisioni che riguardano la fine della vita.

1. Rimozione della morte

Pur senza trascurare i cambiamenti di sensibilità che si sono realizzati in anni recenti e idealizzare il passato, va tuttavia riconosciuto che la morte costituisce al giorno d’oggi un tabù. Si tenta di isolarla e di esorcizzarla in diversi modi: rimovendola dai discorsi ordinari, occultandola negli ospedali, banalizzandola nelle rappresentazioni cinematografiche o facendone spettacolo attraverso i mezzi di comunicazione. Anche la recente inflazione di immagini di terrorismo suicida — in cui l’uccisione di sé coincide con l’uccisione di altri — e di conflitti militari, alimentano questa prospettiva spettacolarizzante. Oggi è quindi difficile parlare della morte in modo che l’angoscia venga riconosciuta e assunta con serietà e pacatezza, invece che rimossa e riversata in forme surrogate. Si preferiscono il silenzio o il rumore a una parola che tenti di interpretare l’esperienza, il dolore e le paure, alla ricerca del loro significato. Dobbiamo quindi anche aspettarci che oggi sia particolarmente difficile entrare in relazione con il morente, che ci mette di fronte al nostro essere mortali e ci fa dire: «anche a me capiterà».
La medicina si inscrive in questa prospettiva in modo ambiguo. Da una parte può esserne considerata il braccio operativo, perché interpreta il limite come un nemico da combattere e non una realtà da assumere in ordine alla elaborazione del senso della vita. L’impresa medica è infatti basata sul tentativo di superare il limite: come le patologie di ieri sono vinte per i pazienti di oggi, così lo saranno le malattie di oggi per i pazienti di domani. D’altra parte però cresce all’interno della medicina la consapevolezza che anche quando non si può guarire è sempre possibile curare: il movimento delle cure palliative è un’espressione importante di questa nuova sensibilità e della riscoperta della vocazione fondamentale della medicina come pratica di cura.
Nell’insieme comunque rimane una profonda fatica a riconoscere il morire come evento e forma radicale della «passività» che connota la coscienza umana nella sua finitudine costitutiva. L’esperienza della morte è un evento originario che appartiene all’identità del sé. All’origine tanto della richiesta di eutanasia quanto dell’accanimento terapeutico sta l’occultamento di questo «destino mortale». L’eutanasia e l’accanimento, in modo opposto e speculare, sono modi riduttivi per affrontare la morte, nel vano tentativo di impadronirsene, l’eutanasia anticipandola e l’accanimento terapeutico posticipandola ostinatamente. Ma l’una e l’altro vanno superati: sono due eccessi, rispetto a cui il compito etico di vivere bene il proprio morire si configura come una via intermedia, difficile ma non impossibile. Vediamo quindi più da vicino come possiamo precisare il significato di questi termini.

2. Tra accanimento terapeutico ed eutanasia

L’accanimento terapeutico viene definito come prolungamento della vita fisica non rispettoso della dignità della persona o, più precisamente, come «ostinata rincorsa verso risultati parziali a scapito del benessere complessivo del malato». Quando questo avviene si dice che i mezzi terapeutici impiegati sono sproporzionati ― secondo una terminologia che proviene dalla tradizione dell’etica teologica ― in quanto troppo onerosi per il paziente. Il criterio di proporzionalità delle cure consiste in una comparazione che mette a confronto «il tipo di terapia, il grado di difficoltà e di rischio che comporta, le spese necessarie e le possibilità di applicazione, con il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni dell’ammalato e delle sue forze fisiche e morali». Quindi, alcune caratteristiche che ineriscono ai mezzi terapeutici vengono esaminate in relazione ai benefici attesi e alla loro corrispondenza con il mondo di valori e la visione di vita buona che è propria del malato. Una valutazione che non può fare a meno dell’interpretazione e del giudizio compiuti dalla persona malata e per cui non può essere sufficiente una lettura svolta solo dall’esterno. Tale comparazione intende promuovere condizioni di vita che, in prossimità della morte ineluttabile, siano il più possibile corrispondenti alla dignità della persona e al suo bene integrale, evitando di restringere il campo di attenzione a un unico aspetto (per es. organico o funzionale). Certo qui emerge la necessità di non abbandonare l’ammalato nell’isolamento della sua coscienza e di favorire una visione non individualista della vita.
Nessuno quindi è moralmente tenuto all’uso di tutte le tecnologie disponibili «che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita». Il diritto di rifiutare terapie sproporzionate e troppo gravose è oggi ampiamente riconosciuto. Pertanto non tutti gli atti medici che di fatto accorciano la vita ricadono nella definizione di eutanasia: né la somministrazione di analgesici a dosi adeguate per il controllo del dolore, anche qualora la loro vita ne risultasse abbreviata, né la sospensione di cure sproporzionate, anche se in passato ― con esiti gravemente confusivi che tuttora perdurano ― si definiva la prima eutanasia indiretta e la seconda eutanasia passiva.
Alla luce di queste precisazioni si vede come il tentativo di tener separata la problematica del «testamento biologico» da quella dell’eutanasia sia da una parte saggio, per le implicazioni di carattere etico e per la riconosciuta incompatibilità con il nostro sistema giuridico e la deontologia medica, e dall’altra delicato, per la contiguità delle situazioni in esame. Infatti da quanto abbiamo detto risulta che potrebbe darsi il caso in cui, in funzione del «giusto desiderio» del malato, uno stesso trattamento potrebbe essere accanimento terapeutico per una persona, ma non per un’altra, o per la stessa persona in circostanze cliniche differenti.

3. Dichiarazioni anticipate: limiti, contenuti e caratteristiche

Ma d’altra parte il «testamento biologico» ― che noi preferiamo chiamare «dichiarazioni anticipate di trattamento» ― può risultare d’aiuto, soprattutto se si fa tesoro degli istruttivi insuccessi cui si è andati incontro nelle esperienze svolte anche in altri Paesi.

a) «A chi l’ultima parola?» Una domanda fuorviante
È del 1991 il varo negli Stati Uniti del Patient Self-Determination Act (Legge sull’autodeterminazione del paziente), che riconosce il diritto di ogni individuo di decidere sui trattamenti sanitari da ammettere e da rifiutare. Ma l’enfasi posta sul rispetto dell’autonomia del paziente non ha condotto ai risultati sperati, come emerse con chiarezza a metà anni ’90, grazie a uno studio denominato SUPPORT (Study to Understand Prognoses and Preferences for Outcomes and Risks of Tratments: Studio per Comprendere Prognosi e Preferenze per Esiti e Rischi di Trattamenti).
Lo studio costituisce la più ampia e sistematica operazione mai realizzata per assistere pazienti e famiglie nel compiere scelte informate sulle cure di fine vita e per valutarne gli effetti. Furono complessivamente coinvolti più di 9mila pazienti e più di 2mila operatori sanitari, tra cui 1.600 medici. Il programma di formazione a cui parteciparono sia medici sia pazienti, per imparare rispettivamente ad attuare e a compilare le direttive anticipate, non ottenne praticamente nessun cambiamento: circa metà dei pazienti ancora coscienti hanno avuto dolore moderato o grave per circa metà del tempo prima di morire in ospedale, quasi 40% dei pazienti in fase terminale ha trascorso almeno 10 giorni in unità di cura intensiva, senza speranza di miglioramento, circa metà dei medici era all’oscuro delle preferenze dei pazienti sulle cure di sostegno vitale. Inoltre, i pazienti e loro famiglie non volevano esercitare la loro autonomia, decidendo riguardo alle cure di fine vita. Anche se i moduli venivano diligentemente compilati, essi venivano poi disattesi quando la morte si avvicinava: la imminenza del momento finale veniva semplicemente negata. D’altra parte i medici erano altrettanto riluttanti a parlare con gli interessati della morte ormai prossima.
Questi dati conducono a interrogarsi sul posto della morte nelle cure di fine vita: voler semplificare intellettualisticamente la morte considerandola solo come parte del ciclo vitale, ignorando le sue caratteristiche di evento vissuto in modo contraddittorio, che fondamentalmente respinge ma al contempo non è priva di un sua capacità di affascinare, rischia di condurre alla sua denegazione. Sotto questo profilo, la biomedicina non possiede strumenti adeguati. Secondo il mito razionalista del progresso scientifico, essa tende a trattare la morte come un semplice fatto naturale, un insuccesso da superare, e non come limite che connota la condizione umana e che ― come tale ― chiede di essere assunto. L’ambiguità della morte, ridotta a destino biologico, viene apparentemente eliminata, ma questo non toglie l’esperienza di sentimenti opposti e contraddittori.
Per gestire meglio la fine della vita non si tratta di eliminarne l’ambivalenza, la complessità e la inafferrabilità, oggi denegate, ma non per questo meno disturbanti; al contrario è solo riconoscendo l’ambiguità della morte e attraversandone le contraddizioni che diverrà possibile viverla in modo più autentico e riconciliato. Sulla base di queste evidenze, la sola autonomia individuale si mostra insufficiente ad affrontare le decisioni riguardo alla morte. Occorre assumere il compito in modo più partecipato, cercando una più adeguata regolazione sociale delle cure di fine vita, che riconosca e assuma questa complessità nel percorso stesso in cui si elabora la decisione. Su tali basi, possono essere delineate alcune implicazioni pratiche, anche a prescindere da ulteriori riflessioni teoriche sulla discussa nozione di autonomia.
Anzitutto questo comporta non autorizzare un singolo soggetto a decidere e a procurare direttamente la morte. La differenza tra uccidere e lasciar morire non ha solo un valore logico, ma significa tenere salda la distinzione tra le cause (umana o patologica) in atto nel momento finale, senza misconoscere quelle zone grigie dell’intenzionalità di cui i medici sperimentano oscuramente la presenza, anche quando l’agire è retto. Proprio là dove l’intenzione di chi opera vive un’impossibilità pratica, pur nella sincerità della ricerca, di coincidere completamente con una chiarezza teorica, si afferma il valore anche simbolico della resistenza alla semplificazione prodotta da una valutazione delle azioni basata solo sulle conseguenze, secondo la riduttiva visione dell’utilitarismo. Molto spesso decisioni pur evidentemente definibili come sospensione di trattamenti sproporzionati lascino tracce di colpevolezza profonde negli soggetti che le compiono.
Il secondo punto riguarda i soggetti coinvolti nella decisione. Un percorso rispettoso della complessità della deliberazione richiede di non cortocircuitare le possibili divergenze con un atto di arbitraria attribuzione di responsabilità, cioè contestare la domanda che spesso si sente ripetere: «a chi l’ultima parola?». L’eventuale sospensione del trattamento ― qualora non sia più possibile comunicare con il malato ― dovrà emergere dal consenso fra le persone che hanno voce in capitolo (medici, familiari, fiduciario, volontà precedentemente espresse), attraverso un confronto che non escluda la manifestazione di dissonanze. La costruzione del consenso può richiedere tempo e risorse ed è difforme dalle abitudini operative della pratica medica, basti pensare a ritmi e spazi di una sala di terapia intensiva. Ma solo così si può dare voce alle molte opinioni possibili e all’ambiguità, evitando l’illusione di una scelta priva di ombre. Per quanto laborioso, è questo l’obiettivo verso cui per quanto possibile tendere, garantendo nel frattempo al malato tutte le cure necessarie.
Infine, occorre riconoscere come le decisioni al letto del malato siano influenzate, talvolta pesantemente, da scelte operate a monte. Per es., le statistiche ci dicono che in un territorio dato esiste una proporzione diretta tra letti in ospedale disponibili e numero di morti in ospedale, anche di pazienti che avrebbero desiderato morire a casa, sebbene questa sia una realtà ardua da ammettere per chi opera sul campo. Occorre quindi promuovere contesti istituzionali che favoriscano itinerari decisionali condivisi, che orientino le pratiche al letto del singolo paziente.
Questo stile partecipativo dà risultati positivi anche in fase di stesura delle dichiarazioni anticipate: esperienze successive sono riuscite là dove lo studio SUPPORT aveva fallito, facendo leva non tanto sul principio di autonomia quanto piuttosto sulle relazioni interpersonali e sull’aiuto offerto ai propri cari in vista di decisioni future. Questa è anche la prospettiva in cui si è posto il Documento sull’argomento del Comitato Nazionale per la Bioetica (18 dicembre 2005), che intende le dichiarazioni anticipate come occasione per «favorire una socializzazione dei momenti più drammatici dell’esistenza» (n. 3) e per prolungare un dialogo tra medico e paziente quando non sembrano più sussistere le condizioni che lo consentono. Il principio ispiratore generale è di offrire a chi versa in stato di incapacità decisionale la stessa possibilità di decidere in merito «a tutti gli interventi medici circa i quali può lecitamente esprimere la propria libertà attuale» (n. 6), mettendo tutti i pazienti su un piede di parità.

b) Prospettive e valutazioni
In sintesi, quindi, le dichiarazioni anticipate di trattamento si presentano come connotate da diversi elementi positivi. Anzitutto la redazione del documento può costituire un’occasione condivisa per riflettere sulla propria finitezza, sui valori fondamentali per cui vale la pena di vivere e su come affrontare i momenti conclusivi della propria vicenda terrena. In secondo luogo va valutata positivamente la volontà di riappropriarsi di una responsabilità che la medicina tende a comprimere in nome di criteri tecnici.
Qui occorre però tenere presente il problema della validità di una disposizione che entrerebbe in vigore in un tempo successivo e in condizioni diverse da quelle in cui viene manifestata, quando cioè non è più possibile dimostrarne l’attualità. Infatti l’esperienza dice che nel momento del coinvolgimento diretto in una situazione patologica, la percezione degli elementi in gioco si trasforma. Le proprie preferenze e la decisione precedentemente espressa potrebbero cambiare. A questa giusta osservazione, si può rispondere che le disposizioni previe sono revocabili, manifestando una diversa volontà. Qualora poi il paziente cadesse in stato di incoscienza, non c’è ragione di dare a un presunto cambiamento della sua opinione un valore maggiore rispetto all’ultima volontà effettivamente nota, tra l’altro espressa nella consapevolezza del funzionamento del dispositivo. Certo questa risposta non toglie tutte le incertezze, per es. riguardo al quando iniziare a seguire le dichiarazioni anticipate in quelle situazioni, poniamo di demenza, in cui la perdita della coscienza è graduale e il paziente dà segno di gradire una vita contrassegnata da un livello di dipendenza che gli appariva in precedenza inammissibile. Da queste osservazioni consegue che, in generale, le indicazioni fornite sono tanto meno affidabili quanto più sono distanti dalla situazione cui si riferiscono .
Un ulteriore elemento che incide sull’affidabilità delle dichiarazioni anticipate è connesso alla difficoltà di pronunciarsi astrattamente su una situazione difficile da capire e complicata da spiegarsi, se non per gli addetti ai lavori. Si pensi alla fatica che si incontrano nella spiegazione dei moduli di consenso informato. Forse anche per questo alcuni moduli utilizzano termini assai generici (per es. incompetenza decisionale temporanea, qualità di vita insufficiente, «malattia che mi costringa a trattamenti permanenti con macchine o sistemi artificiali che impediscano una normale vita di relazione» ), ma l’effetto è di risultare ambigui e discrezionali, compatibili con diverse scelte terapeutiche. Un margine ulteriormente amplificato da altri due fattori. Anzitutto dalla ricerca di un linguaggio operativo e sedicente neutrale che, pur con il nobile intento di superare le diverse posizioni etiche e di essere valido per tutti, rischia invece di far cadere in una visione ideologica, perché non esplicita il contesto e le ispirazioni di fondo che possono chiarire l’interpretazione delle raccomandazioni. In secondo luogo, dal possibile scarto tra situazione clinica, frutto di una molteplicità di varianti e di fattori difficilmente prevedibili, e quanto disposto nella dichiarazione. Qui risulta di grande aiuto la figura del fiduciario, che può superare il divario dovuto all’astrattezza delle disposizione e alla eventuale imprecisione. Ma soprattutto sarà indispensabile una mediazione interpretativa del medico. Per tutte queste ragioni ci sembra che le dichiarazioni non possano essere vincolanti, ma solo seriamente orientative. Pertanto sono da evitarsi nomi come «direttive» che lasciano intendere una cogenza non teoricamente né praticamente sostenibile.
In conclusione, ci sembra saggia la posizione del Comitato Nazionale per la Bioetica quando auspica che le dichiarazioni anticipate rimangano facoltative per le persone, non vincolanti per i medici e prive di valore legale. Esse possono essere un elemento fra gli altri che — attraverso un processo di interpretazione non automatico che coinvolga non solo gli operatori sanitari (con particolare attenzione alla dimensione collegiale), ma anche tutti coloro che possono contribuire a comprendere la situazione — aiutano ad arrivare a una decisione partecipata e il più possibile unanime.

NOTA: testo,  rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 29.5.2007 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura. Il testo completo di note è reperibile in PDF.