Il Welproblem della Germania nelle "Memorie" del Förster

Al cospetto del destino dei popoli, le memorie personali possono apparire qualcosa di inopportunamente invadente. Ma quando le vicende d’un uomo illuminano ben precisi sviluppi storici di importanza decisiva per la sorte di un popolo e dell’umanità stessa, coinvolta in due guerre mondiali ed in una crisi spirituale ancor oggi non superata, quando le memorie sono «l’eco del conflitto di un tedesco con una Germania che ha rinnegato se stessa e le sue più alte tradizioni» e il loro autore è Friedrich Wilhelm Förster, una delle personalità più notevoli degli ultimi cento anni, allora ci troviamo dinanzi ad un documento di vita e ad un avvenimento culturale di grande significato. Nel 1953 il Förster consegnò con “Erlebte Weltgeschichte” il suo testamento spirituale, un retaggio di idee e di battaglie generose . La pubblicazione in lingua italiana di “Storia mondiale vissuta: 1869 – 1953” ripropone all’attenzione degli studiosi il significato dell’opera, così vasta e multiforme, e della vita dell’insigne pensatore politico e pedagogista tedesco.
Il critico più tenace e profondo del nazionalismo prussiano e nazista nacque proprio nel cuore della Prussia, a Berlino, nel 1869, dopo il trionfo di Sadowa e poco prima di quello di Sédan. Fin da giovane egli si sottrasse al «contagio del quale fu vittima dopo la creazione del nuovo Reich» la maggior parte dei suoi compatrioti e divenne sempre più consapevole della contrapposizione fra le due Germanie: la Germania prussiana di Bismarck e di Guglielmo II, militarista e autoritaria, decisa ad imporre all’Europa la propria egemonia «col sangue e col ferro», e la Germania di Leibniz, di Kant, di Bach, di Beethoven, di Goethe. Förster optò per i valori perenni dello spirito germanico contro il pangermanesimo e fu fedele, in tutto l’arco della sua lunga vita (si spense, quasi centenario, il 9 gennaio del 1966), a quella scelta fondamentale, in una lotta senza quartiere contro le terrificanti perversioni della idolatria dello Stato, della Nazione, del Sangue e della Razza.

«La Prussia ha sedotto la Germania».

Il problema tedesco apparve sempre al Förster come il problema stesso del mondo (Weltproblem), la esemplificazione paradigmatica delle tentazioni e delle possibilità nichiliste e autodistruttive insite nel paganesimo politico della statolatria, dell’imperialismo e, infine, del razzismo. «Se la Germania – ammoniva il pensatore tedesco – non agisce continuamente come risolutrice degli antagonismi europei, come contrappeso morale e politico del nazionalismo, l’Europa è destinata a sprofondare inevitabilmente nel dilaniamento reciproco». La posizione geografica, la sua autentica tradizione culturale, i suoi reali interessi, tutto spinge la Germania alla pace e non alla conquista, a farsi centro d’un sistema federale europeo, forza di congiunzione tra il Nord e il Sud, l’Est e l’Ovest del nostro continente. Orbene, se questa doveva essere la missione della Germania, niente di peggio poteva accadere all’Europa che vedere quel focolaio centrale di comunione dei popoli trasformarsi nel suo opposto: questo è accaduto perché «lo spirito prussiano ha sedotto lo spirito tedesco, che aspirava all’unità, alla collaborazione, alla costruzione, e l’ha asservito allo Stato nazionalista». Ma se è valida l’interpretazione försteriana della storia tedesca, come giudicare Bismarck e i successi clamorosi della sua Realpolitik? . Che dire del suo continuo disprezzo delle norme giuridiche e morali, della sua volontà di «tenere aperte le piaghe» dei contrasti in Europa per meglio dividere e giocare gli altri con astuzia volpina? Bismarck vinse apparentemente tutte le partite, ma perdette l’avvenire. È in rapporto al successo immediato che il male, l’ingiustizia, l’immoralismo in politica godono d’un potere d’infinita suggestione: un potere che si può affrontare e vincere solo con una tensione eroica dei poteri antagonisti. Ma i frutti delle azioni storiche si misurano nel tempo, dalla qualità delle loro conseguenze, secondo una misura che oltrepassa l’illusione del successo immediato. Da questo punto di vista, i successi immediati di Bismarck avvelenarono l’anima tedesca, le fecero apparire invincibile la politica di potenza servita dal più perfetto strumento di guerra che la storia avesse conosciuto: col miraggio della guerra-lampo di Sadowa e di Sédan, la Germania scatenò e perse la prima e la seconda guerra mondiale. L’utilitarismo politico del «Cancelliere di ferro» non educò il popolo tedesco alla libertà e alla solidarietà umana. Calpestando nel modo più infame l’unità e la dignità della Francia, spaccò l’Europa e pose le premesse per l’umiliazione di Versailles. Ignorando i diritti degli slavi al loro risorgimento, dopo l’unificazione nazionale italiana e germanica, spinse l’Austria a riprendere l’espansionismo verso l’Est e quindi a scontrarsi con la Russia, alla cui amicizia pure si teneva. Ed in tal modo la complessa trama dei trattati di alleanza e di contro-assicurazione del popolo bismackiano posteriore al 1870, ad un’attenta valutazione, si palesa come un artificioso e vano tentativo di porre rimedio ad una politica miope che impegnava l’Austria nell’Est senza che l’Austria ne avesse le forze e che, pertanto, indeboliva l’Austria e con l’Austria il Reich suo alleato. In questo contesto storico si comprende meglio Serajevo. La razionalizzazione tecnica del male, il machiavellismo intelligente è pur sempre al di qua dell’autentico realismo politico, che si rifiuta di separare i diritti del proprio Stato dal riconoscimento dei diritti degli altri Stati. È illogico fare della politica di potenza il proprio vangelo politico e voler poi evitare il fato dell’accerchiamento. Per le più elementari leggi della dinamica politica, l’aggressore, il prepotente che si trova in mezzo, si espone ad avere la peggio.
La diagnosi försteriana rimase inascoltata e la boria imperialistica precipitò la Germania e il mondo nel baratro della guerra 1914 – 18. Nel difficile dopoguerra, il grande patriota operò per la rinascita del suo popolo con un’appassionata azione di guida morale del mondo giovanile. Förster si dedicò con tutte le sue forze alla conversione morale della sua patria, giacché «i tedeschi – egli scriveva a chiare lettere – non possono rialzare la testa nella libertà e nella dignità, se non si liberano dalle impronte del passato: allora soltanto cesseranno di essere odiati, calpestati, umiliati». Il Diktat di Versailles irritò profondamente i tedeschi, rendendo addirittura disperata la lotta dei democratici contro la deformazione della coscienza tedesca. Subito dopo l’armistizio Förster, in una nota diretta all’Intesa, colse perfettamente il nesso tra il futuro della Germania in politica interna e in politica estera. «Se i governi dell’Intesa – scriveva il Nostro – evitano ora di spingere il popolo tedesco alla disperazione e all’inasprimento, essi renderanno possibile la penetrazione delle migliori idee nella coscienza politica del popolo tedesco. Al contrario, una pura e semplice rappresaglia distruggerebbe per molto tempo l’autorità delle idee e della cultura occidentali in Germania e priverebbe così anche la Società delle Nazioni del suo fondamento etico» . Per la cecità del revanchisme oltranzista francese, si dovette assistere al graduale riemergere del militarismo. Sull’onda del risentimento generale contro il Diktat di Versailles, il principale imputato della tragedia, il militarismo col suo programma egemonico, si trasformò in vittima e la leggenda della «pugnalata alla schiena» dell’imbattibile e imbattuto (!) esercito tedesco trovò sempre più credito. In questo clima di mistificazione, la terribile lezione dei fatti non insegnò nulla ai tedeschi, tanto che nel 1925 toccò proprio all’ex capo dell’armata imperiale, al vero dittatore della Germania guglielmina, a Hindenburg, diventare presidente della Repubblica di Weimar. Nella primavera del 1932 Hitler raccoglieva i frutti dell’annebbiamento della coscienza tedesca e si imponeva come virtuale successore di Hindenburg. L’ascesa al potere del nazismo completò l’annientamento dello spirito germanico nei suoi grandi valori a profitto della Blonde Bestie e della Machtpolitik, il più folle incantesimo, la più cinica negazione della coscienza cristiana eretta a sistema.
Förster, che sin da scolaro si era rifiutato di cantare il tronfio «Deutschland, Deutschland über alles» e che, universitario, aveva sabotato le lezioni del Treitschke degradate a discorsi inneggianti alla Realpolitik, aveva sfidato più di una volta il mondo accademico e politico della Germania guglielmina; nel dopoguerra aveva rappresentato la più alta voce democratica del suo paese; il nazismo gli tolse la cittadinanza tedesca e lo condannò ad esilio perpetuo. Mezzo milione di copie delle sue opere arsero nella sinistra «festa dei roghi» delle camicie brune. Förster perdette la cattedra, i libri, la sicurezza economica, la patria, gli amici e fu esule in Svizzera prima, in Francia poi e, da ultimo, negli Stati Uniti.

L’itinerario della mente: da Kant a Sant’Agostino.

Förster, che si era laureato con una tesi su “Lo sviluppo dell’etica Kantiana”, ebbe ben presto stretti rapporti col movimento operaio socialista e con la “Società tedesca per la cultura etica”, della cui rivista, d’orientamento laicista, fu direttore per quasi un decennio, dal 1895 al 1904. Quando nel 1895 pubblicò un articolo di protesta contro un manifesto dell’imperatore nel quale i socialisti erano apostrofati come «eine vaterlandslose Rotte» (una masnada di senza patria), fu processato per lesa maestà e condannato a tre mesi di prigione. Gli divenne allora impossibile continuare la carriera accademica in una università tedesca e passò ad insegnare filosofia morale a Zurigo. Fu proprio l’approfondimento del problema morale a mettere in movimento lo spirito del Förster e a renderlo interessato a comprendere quell’immensa esperienza morale costituita dalla vita cristiana. «Crebbi senza religione e non avevo idea della presenza di Dio nella mia coscienza – scrive il Nostro. – Ma attraverso il nobile esempio quotidiano dei miei genitori, giunse misteriosamente fino a me un bagliore del patrimonio religioso di intere generazioni» . Lo sviluppo, accidentato, della fede religiosa convogliava influenze molteplici e diverse, dirette e indirette, ma portava pure il Förster «ad un doloroso conflitto» con il laicismo e lo scientismo della sua famiglia e della “Società per la cultura etica”. «All’incirca all’età di trent’anni cade il fatto di essermi svegliato dal difficile sogno dell’uomo moderno per ritrovarmi improvvisamente cristiano credente»: questo è appunto l’evento decisivo che dà una nuova dimensione alla vita e al pensiero di Förster.
L’integrità della suo coscienza e l’inesausta ricerca del vero, al di sopra d’ogni angustia di setta, lo spinsero ad insorgere contro la proposta di legge Waldeck-Rousseau sull’abolizione degli ordini religiosi presentata nel 1901. Förster scese allora in campo aperto a difendere «il diritto alla libertà di coscienza contro l’intolleranza del libero pensiero, che pretende prescrivere a libere persone i mezzi da impiegare per lo sviluppo della loro vita spirituale». Il radicalismo laicista della “Società per la cultura etica” reclamò le sue dimissioni. Fu la crisi decisiva.
Le riflessioni sui problemi filosofici, sulla prassi educativa e sulle esigenze più profonde dell’anima contemporanea conducono il Nostro ad una stessa conclusione: «la religione cristiana non è un’elevazione domenicale, ma l’inevitabile soluzione dell’eterno problema dell’incarnazione dello spirito». Trascendenza, interiorità, incarnazione sono le verità fondamentali della concezione cristiana della vita, la sola che giustifica i valori che non passano e insieme conferisce al tempo, alla storia, all’opera di ognuno profondità e pienezza di significato. «Kant e Sant’Agostino – scrive incisivamente il Förster – si erano incontrati nella mia vita»: il primo, ponendo gli interrogativi partecipati con intensità in anni di ricerca; il secondo, presentando le risposte capaci di disciplinare l’oscurità. «In Kant le parole "ragion pura" indicano un’attività della ragione che crede di poter fornire cognizioni della realtà senza esperienze». Anche le Confessioni di S. Agostino possono essere definite in un certo senso una Critica della ragion pura; ma la sua purezza ha a che fare con la liberazione dell’uomo dalla ragione impura contaminata dalla passione e dalla brama di vita. E questo ce lo rende immediatamente familiare. Perché in S. Agostino l’uomo viene condotto dalla conoscenza del mondo esteriore all’osservazione delle condizioni interiori della sua anima. "Tu eri in me, ma io ero fuori di me". Agostino stesso ha indicato come l’istante determinante della sua conversione quello in cui, guidato dalle Epistole di S. Paolo, giunse finalmente alla concentrazione della conoscenza di se stesso: «E per la prima volta volsi lo sguardo verso di me». S. Agostino rimarrà sempre per il Förster «la fonte principale» e la guida ad ogni altra conoscenza cristiana, «il vero Padre della Chiesa, per l’universalità e l’infallibilità del suo giudizio che scaturiscono dalla profondità e dalla serietà della sua conversione a Cristo come al Signore della vita».
Il Förster era stato naturaliter christianus nella lotta ingaggiata contro il prussianesimo, nell’amore per il popolo, nella passione educativa, che è pure una delle più tipiche espressioni della carità evangelica; ora, nell’adesione a Cristo, l’opera precedente poteva essere interamente assunta, integrata e meglio giustificata.
A partire dal 1904, il Förster assumeva su di sé due nuovi compiti, ricchi di tensioni profonde e di speranze anticipatrici: stabilire nelle sue opere un ponte tra le verità frammentarie della nostra epoca e le verità universali del Cristianesimo, riscoperte e ritradotte nel linguaggio proprio della cultura contemporanea; dare tutto il proprio contributo a riconciliare tra loro le comunità cristiane perché cessi lo scandalo del Cristo dilacerato. Da questo duplice punto di vista, il Förster è stato uno dei grandi spiriti che più ha contribuito a preparare il risveglio ecumenico che oggi caratterizza la vita della Chiesa Cattolica e, in certa misura, delle altre comunità cristiane.

La visione ecumenica.

L’incessante riesame dei problemi e delle aporie del nostro tempo alla luce del Cristo esige una risposta alla grande domanda se la civiltà moderna sia conciliabile col Cristianesimo in genere e con quello cattolico in specie. Förster risponde sì, ma con animo e con intenti lontanissimi da ogni commistione modernista. Il modernismo è una forma di storicismo che invade il campo religioso e che, accogliendo come definitivo l’agnosticismo kantiano, critica ogni svolgimento dottrinale dell’intuizione cristiana della vita come sua falsificazione e crede di porre in salvo la religione, ricollegandola a una misteriosa esperienza del divino, che per un verso è un’esigenza soggettiva della coscienza umana, priva di una sufficiente giustificazione logica e metafisica, e, per un altro verso, è un prodotto più o meno inconsapevole di pure forze storiche, continuamente cangianti nelle diverse fasi dello svolgimento. Ma al di là del modernismo come movimento di cultura ben più diffuso è il modernismo come forma mentis, che consiste nel ripudiare l’essenziale con il caduco, i valori con le mutevoli forme storiche nelle quali si incarnano, non avendo compreso che se il Cristianesimo è nella storia, solo le sue propaggini sono intaccate dalla caducità che mina la civiltà, sfuggendo la sua essenza ad ogni vecchiaia. «La limitata condizionalità storica – ha osservato il Petruzzellis contro il neo-modernismo oggi rinascente – è relativa alla propagazione delle verità cristiane fra gli uomini, ma non investe e non determina il loro contenuto essenziale… La storia appresta mezzi ed offre forme di penetrazione, aspetti e condizioni favorevoli o sfavorevoli, ma non può determinare, né modificare l’intrinseco contenuto delle verità religiose, degne di esser tali solo per il valore eterno di cui sono pregnanti e che si ritrova in ogni tempo, al di sopra di fattori contingenti e transeunti da cui può nascere il mito, ma non il domma» .
Il Förster vide con lucidità che la «modernità» in quanto tale non è già di per sé un valore e che la Chiesa di Cristo, se vuol serbarsi fedele alle verità eterne di cui è depositaria e annunciatrice, deve respingere da sé ogni deleterio relativismo.
Il Förster riconosce all’età contemporanea una quantità di conquiste e di aspirazioni da tenersi nel debito conto; ma egli aggiunge che nella civiltà moderna il vero e il falso, il sano e il morboso, il buono e il cattivo sono terribilmente confusi tra loro, così che nella scelta di ciò che ha valore è doverosa la più saggia circospezione, ispirata ad una norma salda e sicura, qual è quella che ci offre appunto la tradizione cristiana rivissuta nella sua autenticità.
Dalla profonda comprensione del reale contenuto di verità dell’elemento tradizionale nasce la giusta intuizione di quel che vi è di veramente vitale nelle conquiste dei nuovi tempi. La Chiesa deve interessarsi dei bisogni dell’anima contemporanea, dei quali il modernismo cercava di essere portavoce, senza tuttavia comprenderne la più intima natura, ma non mediante un assorbimento passivo ed una mera soggezione o una riconciliazione in blocco con la civiltà moderna.
Per questo il Förster, assai meglio di non pochi cattolici, è in grado di apprezzare in tutto il suo significato storico l’atteggiamento della Chiesa di fronte al modernismo.
«L’avere il Papa, di fronte alle nebulose esigenze dello spirito moderno, rimesso con la più grande risolutezza al centro della vita ecclesiastica il depositum fidei, l’aver egli concentrato la Chiesa nelle sue proprie idee fondamentali e consolidato quel che forma il suo più intimo possesso, tutto questo è stato un lavoro preparatorio indispensabile per la successiva assimilazione di quanto vi è di veramente utile nelle conquiste della civiltà moderna» . Pur nell’imperversare della tempesta modernismo-antimodernismo, il Förster non si lascia dominare dalla cronaca di fatti dolorosi, ma coglie con felice intuito la linea direttiva del divenire cristiano nel mondo contemporaneo e intravvede, dopo l’energico raccogliersi della Chiesa in sé, il momento della sua espansione vivificatrice nella civiltà del nostro tempo.
A questo punto ci si può chiedere: quale fu la posizione di questo grande cristiano dinanzi alla Chiesa cattolica? L’urgenza di un comune credo religioso e morale è diventata tanto più evidente quanto più accentuati sono i conflitti d’interesse e il dilatarsi pauroso dell’ateismo e del laicismo. È necessario che una Chiesa visibile universale unisca tutte le anime e tutti i gruppi umani che si riconoscono negli ideali del Vangelo. Occorre però che la Chiesa cattolica, per iniziare questa grande opera, si renda pienamente conto delle sue colpe e di quel che essa ha sofferto in ricchezza spirituale e profondità a causa delle varie secessioni; ma anche le altre comunità cristiane devono divenire consapevoli del danno enorme derivante dalla rottura dell’unità religiosa, malgrado le ragioni storiche e i motivi di verità rivendicati.
Già il primo scisma, che separò l’Oriente dall’Occidente, fu nefasto tanto per la parte scismatica quanto per la vita interiore della Chiesa occidentale; perché questa perdette il contributo della razza slava, nella quale è così vivo e spontaneo il sentimento religioso; e dal canto suo la parte scismatica, avendo perduto il contatto con la Chiesa occidentale, finì sotto l’influenza dell’assolutismo zarista.
Analogamente, il protestantesimo fu punito per aver disprezzato la tradizione e l’elemento formale della vita religiosa, pur avendo preso le mosse da profonde esigenze, anzi da una accentuazione unilaterale della grazia e della fede, e si è andato sempre più «accostando alla banalità pelagiana e al puro idealismo etico». Il cattolicesimo, da parte sua, ebbe un gravissimo danno dallo scisma del sec. XVI. Da quel tempo la coscienza personale, la devozione soggettiva, il misticismo della vita interiore, la spontaneità evangelica, tutte queste cose che una volta appartenevano all’essenza della Chiesa, divennero a poco a poco sospette. E così la Chiesa, sospinta dalla dialettica della separazione e dalla lotta contro le incomprensioni del moderno radicalismo, cominciò ad essere contraria a quegli indirizzi spirituali che una volta erano stati elementi della sua vita spirituale e della sua opera civilizzatrice.
Occorre, ammaestrati dagli errori del passato e consapevoli delle richieste pressanti dell’attuale momento storico, risalire al di là delle divisioni e ricostituire l’unità religiosa dei credenti in Cristo. Ma quale sarà il fulcro della riconciliazione cristiana? Il «protestante» Förster risponde: la Chiesa di Roma restituita a se stessa, alla integrità della sua dottrina, è chiamata a diventare la Chiesa universale e a reinserire nella sua sintesi le verità fatte valere unilateralmente dalle altre confessioni cristiane.
Non si possono leggere senza commozione le pagine in cui il Förster, nell’atto in cui proclama la sua adesione al credo della Chiesa cattolica, assume il compito di servire la riconciliazione cristiana non entrando nel campo ove lo spingono le sue più profonde aspirazioni. «Mi si può credere – così il Förster scrisse di sé sin dal 1910 in “Autorità e libertà” – nell’animo mio si agita una vera passione cattolica, un’aspirazione profonda verso la casa materna dell’anima, verso il santo nutrimento della coscienza cristiana, verso le tradizioni dalle profonde radici, verso la Comunione dei Santi e il contatto coi secoli passati fino ai primi tempi… Mi sembra che, secondo i disegni della Provvidenza, esistano nell’epoca nostra uomini ai quali non è dato se non prendere una posizione fra le opinioni: quella cioè di essere un appello vivente ed una vivente preparazione alla vicina unità… In tutta l’evoluzione della mia vita e nella mia più intima convinzione sento che io compio un lavoro provvidenziale nel vero interesse del pensiero cattolico. Ogni altro atteggiamento sarebbe molto più semplice, ma significherebbe rinunciare al mio compito».

Il pedagogista del carattere.

Il Förster, pedagogista della cultura e dell’educazione etica della gioventù e dei popoli, autorevole rappresentante dell’umanesimo tedesco d’ispirazione universalistica, instancabile lottatore per la libertà, la democrazia e l’animazione etica dei rapporti internazionali, ha reso eroica testimonianza ai suoi ideali, pagando sempre di persona, erigendosi – con la fermezza dell’uomo di carattere che difende i diritti imprescrittibili della coscienza – contro imperatori e dittatori onnipotenti, e perfino contro il proprio popolo, in strenua opposizione ad ogni assalto alla libertà e alla dignità umana. Si comprende, allora, perché i suoi scritti siano pervasi da una appassionata, alta coscienza di quei valori che soli possono rendere umana la vita e degna dell’uomo l’educazione.
La dialettica realistica si sostituisce all’astratta enunciazione di principi: la pedagogia del grande tedesco è essa stessa uno splendido esempio di «psicagogia», di scienza ed arte della vita di persuasione razionale intorno al vero, colto e saldamente indotto dalla disamina critica di altre dottrine, dalla riflessione attenta su tutto ciò che può farci meglio conoscere l’uomo e dalla ricerca del compito specifico degli educatori nella presente situazione storica e politica.
La pedagogia «morale» di Förster affronta ogni problema educativo in strettissima connessione con i problemi eterni dell’anima e coi problemi storici della civiltà.
La vera educazione, infatti, non è un campo chiuso specializzato, riservato a degli iniziati, e la pedagogia non è una scienza che possa disinteressarsi dei fini supremi della vita e degli orientamenti etico-politici. È inutile e pericoloso nascondersi che la concreta realtà educativa è condizionata dalla direzione generale degli spiriti e che non può esservi efficace educazione d’un popolo senza un ideale di moralità pubblica. Se si abbandona lo sforzo e l’impegno di razionalizzare la politica, il mondo delle forze sotterranee travolge brutalmente e annulla ogni effettiva possibilità di educare. Ma, d’altra parte, l’animazione etica della vita associata è possibile solo a chi resiste alla alienazione socio-morfica, a chi oltrepassa la pressione di appiattimento che la società esercita sul singolo individuo, portando nell’essere la tensione realizzatrice del dover essere e dei valori in cui quell’imperativo si esprime e si attua. La conclusione è chiara: il fondamento dell’educazione del carattere è nel risveglio del singolo ai valori e nel rafforzamento, nell’esplicazione della coscienza personale; educatore è colui che sa essere d’aiuto per un’efficiente auto-organizzazione spirituale. «Vera educazione è la capacità di distinguere nella vita ciò che è essenziale da ciò che è contingente, e carattere è la forza di manifestare, anche nella condotta della vita, questa distinzione» .
L’educazione del carattere è il fulcro dinamico dell’educazione della personalità, e non una sua appendice. Essa ha pertanto una priorità axiologica innegabile, che nessuna educazione intellettuale o meramente scientifica potrà rendere superflua. Già Aristotele a questo proposito aveva ammonito che «l’educazione morale è tanto più importante in quanto l’uomo, la cui educazione è solo intellettuale, più facilmente degenera, diventando il più selvaggio e sfrenato di tutti gli esseri». A distanza di due millenni, Goethe ribadiva lo stesso concetto e con espressioni non meno vigorose e significative: «per colui che non domina le passioni, la ragione serve soltanto a diventare più bestiale di ogni animale»; «tutto ciò che libera il nostro spirito senza darci la padronanza di noi stessi conduce alla rovina».
Il Förster fa sue le semplici, grandi parole di Pestalozzi, quando l’educatore svizzero osserva che «un’epoca intera, come un uomo singolo, può compiere grandi progressi nella conoscenza e rimanere invece molto indietro nella volontà di bene» e avverte che il punto nodale, il problema numero uno del nostro tempo sta proprio nel rapportare progresso tecnico, conoscenza scientifica e vita morale, carattere, condotta coerente ad una visione del mondo criticamente giustificata.
A scuola, in quali termini di concretezza didattica si pone la grande questione della formazione armonica del carattere? Occorre in primo luogo sottolineare energicamente il valore formativo del lavoro scolastico stesso quand’è ben fatto e dell’arte di rilevare, con sobrietà e finezza, i valori morali insiti in ogni materia d’insegnamento. Si tratta di due aspetti dell’educazione morale indiretta, ma quanto efficaci! «Si esercita un’azione educatrice sul carattere quando si sappia collegare ogni attività apparentemente solo tecnica con compiti morali, ispirandola ad essi; guasta invece il carattere ogni pedagogia che tratti isolatamente le singole materie e non le sappia collegare con i fondamentali interessi dell’anima. Una tale pedagogia porta alla disgregazione della psiche, all’isolamento delle singole attività dal tutto, ed educa direttamente alla mancanza del carattere» .
Il Förster insiste, non a torto, sulla spontanea eticità delle singole materie d’insegnamento e, a suo avviso, ciò vale soprattutto per l’educazione estetica, intesa senza moralismi preconcetti. L’arte dei sommi ha una forte carica morale immanente nella perfezione stessa dell’opera. E, si badi bene, il valore etico della grandi opere letterarie non consiste nelle convinzioni morali dei loro autori, ma solo e proprio nel rappresentare con estrema evidenza tutte le realtà della natura umana e lo spietato giudizio che sorge logicamente dalle conseguenze delle colpe. L’artista esprime nella sua opera l’archetipo plastico del fenomeno, la realtà nascosta e potenziale, quella che le belle parvenze della vita ci nascondono; e questo ci spiega perché i personaggi delle grandi opere d’arte ci siano più familiari dei nostri più intimi amici. La dinamica e la reciproca interazione di situazioni, decisioni ed affetti – che a noi rimangono troppo spesso celate – sono poste in evidenza dagli artisti con sublime vastità e profondità. Se si confronta in tal senso il realismo delle tragedie antiche o di Shakespeare col film moderno, nota acutamente il Nostro, una differenza balza subito agli occhi. Nella grande tragedia ha poca parte la descrizione del delitto, ma la luce più viva cade sulle tremende conseguenze della colpa, sia nell’anima dell’uomo che nel mondo esterno. Dalla chiara coscienza di quelle conseguenze nasce quel brivido d’orrore di fronte alla colpa, di cui non v’è traccia alcuna nel film moderno, fatte pochissime eccezioni. Quasi sempre nel film tutta la luce cade sul lato sensazionale, mentre le conseguenze restano nel buio più completo.


La scienza e l’arte della vita.

Accanto ad una educazione morale indiretta c’è un’educazione morale diretta, di cui il Förster ha descritto in modo mirabile la didattica e la metodologia.
Per Förster l’essenza della vera «pedagogia morale» consiste nell’eliminare la predica morale, nell’aiutare invece i giovani ad acquistare chiara conoscenza della realtà in loro ed intorno a loro, e nell’additare le forze interiori che essi devono coltivare per essere all’altezza di questa realtà.
Nelle conversazioni moral