Interrogativi sull’uomo

I. L’uomo non è solo un animale

Il nostro tempo sembra essere caratterizzato da una specie di denigrazione dell’uomo. L’uomo ha ben pochi amici in questo mondo, certo assai pochi nella letteratura contemporanea che si occupa di lui. Siamo insidiati da una specie di soverchiante auto-disprezzo.

Ma diffamare l’uomo si può senza diffamare in primo luogo me stesso, uomo tra gli altri uomini? Se l’uomo è in sé spregevole, ciò non significa la condanna di tutti gli uomini? Dobbiamo dunque tornare a chiederci: che cos’è l’uomo? qual è il suo valore? qual è il senso del suo passaggio nel mondo?

Sollevare questi interrogativi è già tentare un approccio alla risposta, è già aprire un varco. Questo varco cercheremo di aprirlo confrontandoci con tre visioni della vita che minacciano oggi più che mai l’uomo e che menano dritto alla eclissi dell’umanità.

  1. In primo luogo l’uomo rischia l’oscurarsi della sua identità perché è ridotto ad animale. Oggi il materialismo dell’uomo-macchina è una mentalità diffusa, direi quasi atmosferica. In questa prospettiva l’antropologia è solo un capitolo della zoologia e l’uomo è solo un animale di natura come l’allodola o l’ippopotamo. La nostra tesi sarà: l’uomo non è solo un animale, è una persona caratterizzata da ciò che gli antropologi contemporanei – Arnold Gehlen e Adolf Portmann in testa a tutti – chiamano Weltoffenheit, ossia «apertura al mondo».
  2. L’altra minaccia che incombe sull’uomo è la perdita della sua interiorità, il suo ridursi a cosa, la sua reificazione, il diventare una res, la rinuncia alla lotta per il significato. L’uomo deve riappropriarsi della sua interiorità per sfuggire alla massificazione e per non appiattirsi nella banalità, nel cinismo, o in una muta disperazione.
  3. La terza minaccia è più raffinata. Ci viene da coloro che riconoscono che, sì, l’uomo non è solo un animale di natura, e anzi affermano che egli è anche un animale di cultura, la cui specie può sussistere soltanto con lo sviluppo della società. e della civiltà. L’uomo è dunque un animale storico. Ma – ed è questa la convinzione degli immanentisti – non c’è nulla oltre la storia e le sue produzioni. Il cielo è chiuso sopra l’uomo, la dimensione religiosa è illusoria. Ebbene agli immanentisti noi obiettiamo che l’uomo non si realizza se non oltrepassandosi e che il movimento della persona non si conclude in essa, ma rimanda all’Assoluto. L’uomo non è più veramente e integralmente umano senza Dio, senza una prospettiva di immortalità.

La prima minaccia è il riduzionismo materialistico per cui l’uomo è nient’altro che un animale di natura e far l’uomo e gli altri animali non v’è differenza che di grado e di complessità. La definizione dell’uomo come appare nella undicesima edizione della Enciclopedia britannica dice: «L’uomo è un ricercatore del più alto grado di comodità con il minimo dispendio necessario di energia». Ma possiamo riconoscere ancora l’uomo in questa affermazione? Nella Germania prenazista veniva spesso citata la seguente enunciazione dell’uomo: «Il corpo umano contiene una quantità di grasso sufficiente per produrre sette pezzi di sapone, abbastanza ferro per produrre un chiodo di media grandezza, una quantità di fosforo sufficiente per allestire duemila capocchie di fiammiferi, abbastanza zolfo per liberarsi dalle proprie pulci». Senza dubbio come descrizioni di uno dei tanti aspetti della natura dell’uomo, queste definizioni possono infatti essere esatte. Ma quando pretendono di esprimere il suo significato essenziale, esse contribuiscono a liquidare la capacità che l’uomo ha di comprendersi. E questa liquidazione può portare all’autoestinzione dell’uomo.

L’anatomia e la fisiologia denunciano innumerevoli punti di contatto tra l’uomo e l’animale; tuttavia, nonostante la similarità di strutture e funzioni, i contrasti sono ancora più notevoli. Nel porre la domanda sull’uomo, il problema non è l’innegabile fatto della sua animalità, ma l’enigma di ciò che egli fa, a causa della sua animalità e malgrado essa, con e senza di essa. La domanda sull’uomo non deriva da ciò che ha in comune con il regno animale, ma da ciò che lo differenzia. In altre parole non è tanto la propria origine che l’uomo insegue, quanto il proprio destino. La concezione zoomorfica dell’uomo ci permette di assegnarli un posto nell’universo fisico, ma non riesce a spiegare l’infinita diversità che esiste tra l’uomo e l’animale più complesso al di sotto di lui. Le concezioni zoomorfiche dell’uomo sono altrettanto devianti quanto lo sono le concezioni antropomorfiche di Dio.

Nel delineare la specificità dell’essere umano, l’antropologia contemporanea ha coniato – con Arnold Gehlen e Adolf Portmann in testa a tutti – (le cui opere sono tradotte in italiano da Feltrinelli) – il temine Weltoffenheit, cioè «apertura al mondo». E con quel termine viene indicata la differenza qualitativa – di natura e di capacità – tra l’uomo e gli altri animali. Vediamo più da vicino la questione.

  1. Gli animali notano fra tutte le cose che li circondano solo quelle che assumono una rilevanza per l’istinto nell’ambito della loro specie. Essi raccolgono dall’ambiente solo ciò che in effetti conoscono in precedenza, nelle forme ereditarie della loro percezione e del loro comportamento. É invece specificamente umano l’atteggiamento di curiosità e di meraviglia di fronte alle cose, il chiedersi come/perché. Per noi uomini le cose non si trovano affatto a portata di mano sin dall’inizio, come per gli animali, ed è per questo che l’uomo muove incessantemente alla loro esplorazione.
  2. Negli animali la direzione agli istinti è fissata a priori. Nell’uomo la direzione degli istinti non è fissata a priori e dunque il suo sguardo sulla realtà è aperto a tutto ciò che entra nell’ambito della sua esperienza e si fa interrogazione incessante su di essa. Di più: l’uomo ha impulsi e istinti, ma è altresì capace di scompigliarli, di dominarli e orientarli secondo un suo progetto, conferendo ad essi una nobiltà o una perversione impensabili in zoologia. L’uomo porta anche nelle sue passioni la sua capacità di infinito.
  3. I nostri organi, in confronto a quelli degli animali, sono ben poco specializzati, ma, ed è il caso della mano, sorprendentemente versatili. L’uomo come animale di natura è il più debole di tutti: nasce troppo presto e quando muore è del tutto inetto. Ma egli sopravvive e si sviluppa perché è animale di cultura, bisognoso fin dal primo vagito della società familiare e della sua accoglienza.
  4. L’esistenza animale è sempre nella dipendenza del mondo delle cose. La volontà umana, invece, tende senza posa a subordinare il mondo delle cose ai suoi fini.

Henri Bergson nella Evoluzione creatrice perviene chiaramente a due conclusioni:

– Tra l’animalità e l’umanità non vi è solo differenza di grado, ma di natura: v’è tutta la differenza che passa dal limitato all’illimitato, v’è tutta la distanza che intercorre fra il chiuso e l’aperto. Una grande pagina riassume tutto il nostro argomentare: «Nell’animale l’invenzione non è che una variazione sul tema della consuetudine. Chiuso nell’abitudine della specie esso giunge senza dubbio ad allargarlo per sua iniziativa individuale, ma non sfugge all’automatismo che per un istante, giusto il tempo di creare un automatismo nuovo. Le porte delle sue prigioni si rinchiudono appena aperte. Tirando la sua catena, non fa altro che allungarla; Con l’uomo, la coscienza spezza la catena. Nell’uomo, e nell’uomo soltanto la coscienza si libera». Nella storia della vita, insomma, con l’uomo inizia un’era nuova. «Se, alla fine di un grande trampolino sul quale la vita avesse preso il suo slancio, tutti gli altri sono discesi, trovando la corda tesa troppo in alto, l’uomo solo ha saltato l’ostacolo». La creazione di una specie vegetale o animale è nel tempo. Ma il susseguirsi degli individui in esso lungo i secoli non costituisce una storia. Al contrario, la specie umana ha una storia: l’uomo è un animale di cultura e ha storia che muta di continuo con la sua opera il volto del mondo, le strutture sociali, la cultura, le forme d’arte, i modi e i tempi di produzione, poiché le persone sono capaci di novità, di atti di creazione, di bene e di male, scelgono attraverso il dubbio e la ricerca e non nella sicurezza cieca dell’istinto.

– Dopo la creazione della specie senza storia, comincia la storia grazie a quella particolare specie sui generis che è il genere umano, cioè il genere degli esseri a loro volta capaci di creare. La creazione delle specie finisce con la nostra. Ma finisce qualche cosa, perché un’altra cominci. Non ci sono altre specie da inventare, ma perché lo slancio creatore può continuare indefinitamente a manifestarsi attraverso le persone, all’interno dell’umanità. Verso quale direzione? Arte, scienza, vita morale, santità.

II. L’uomo è un essere che si fa problema a se stesso

 Come tutti gli esseri concreti, l’uomo occupa un posto nello spazio fisico. Ma, contrariamente agli altri esseri, la sua esistenza più autentica si svolge in uno spazio interiore. Mentre la geografia determina la sua posizione fisica, i suoi pensieri segnano la usa posizione individuale. Noi siamo in parte o interamente là dov’è il pensiero che pensiamo: esso è lo spazio della vita interiore. Un individuo è presente nei propri pensieri, i quali sono la sua situazione. La sua natura è fatta da ciò che egli crede di essere. Diversamente da una teoria delle cose che cerchi soltanto di conoscere il suo oggetto, una teoria dell’uomo plasma e influisce sull’oggetto medesimo. Le affermazioni riguardanti l’uomo danno tensione al suo spazio interiore. Non descriviamo solamente «la natura» dell’uomo, ma la modelliamo: diventiamo ciò che pensiamo di noi stessi.

Che succede nella vita dell’uomo, e come ci è dato comprenderlo? Lo chiediamo per sapere come dobbiamo vivere. La natura della nostra indagine contrasta con altre indagini. Gli altri problemi, noi li studiamo per curiosità; il problema dell’uomo lo studiamo perché vi siamo coinvolti personalmente. In altre analisi il ricercatore e il tema rimangono separati: conosco le Montagne Rocciose, ma io non sono le Montagne Rocciose. Invece, per quanto riguarda la conoscenza di me stesso io sono quello che cerco di conoscere; essere e conoscere, soggetto e oggetto sono una cosa sola. Non possiamo riflettere sull’umanità dell’uomo e mantenerci nello stesso tempo in una posizione di completo distacco, poiché ogni comprensione dell’uomo deriva dalla sua autocomprensione, e nessuno può stare lontano dal proprio io.

Ciò che distingue l’uomo dagli animali è la sua illimitata, imprevedibile capacità di sviluppare un suo universo interiore. Vi è più potenzialità nella sua anima che in qualsiasi altro essere conosciuto. Contemplate un bambino e provate a immaginare la somma di avvenimenti racchiusa in lui. Un unico bambino di nome Johann Sebastian Bach era dotato di tale potere da riuscire ad affascinare intere generazioni di uomini. Quali sorprese invece ci si potrebbe attendere da un vitello o da un puledro? Realmente, l’enigma dell’essere umano non sta in ciò che egli è, ma in ciò che egli è capace di essere. Quello che è palese nell’uomo non è che una minima parte di quello che in lui è latente. Si potrà anche descrivere che cosa sia la specie umana; ma concepire quello che la specie umana è capace di essere supera le nostre capacità. L’uomo dev’essere inteso come un complesso di possibilità, oltre che come un insieme di fatti.

L’uomo non è tabula rasa. Diversamente dagli altri esseri, il desiderio di conoscere se stesso è parte della sua natura, nella sua esistenza. E tuttavia, noi siamo più informati sulle conquiste dell’uomo che sulla vera realtà di lui. Che cosa significa, dunque, essere uomini?

La prima risposta alla domanda: «Chi è l’uomo?» è la seguente: è un essere che pone domande su se stesso. Nel porre simili domande l’uomo scopre di essere una persona, e la loro qualità gli rivela la sua condizione. L’uomo non è solamente un essere di una specie particolare. Il suo essere uomo dipende da certi rapporti senza i quali egli cessa di essere tale. La decisione di dare la precedenza alla domanda: «Che cosa è umano nell’essere umano?» si fonda sulla premessa che la categoria dell’umano non deriva semplicemente dalla categoria del mero esistere.

É infatti senz’altro concepibile che l’uomo possa continuare a esistere anche se in lui non c’è più nulla di umano. Una delle prospettive più terrificanti che si possa fare è che la nostra terra possa essere popolata da esseri che, pur appartenendo secondo la biologia al genere dell’homo sapiens, siano privi di quelle qualità che differenziano spiritualmente l’uomo dalle altre creature organiche. Come la morte è l’abolizione dell’esistere, così la disumanizzazione è l’abolizione dell’uomo. (vedi C. S Lewis, L’abolizione dell’uomo, Jaca Book, Milano 1979).

Pindaro: «Uomo, diventa ciò che sei!». Diventare uomo, attualizzare le potenzialità che fanno di un essere una persona è un compito, un dover essere, una decisione sempre di nuovo da rinnovare. Ma l’imperativo sta a significare anche che il comando può essere disatteso. La sua esecuzione, infatti, è affidata al suo coraggio e alla sua responsabilità, come aveva ben visto Socrate, che non a caso fece del «Conosci te stesso» il suo motto, l’insegna stessa del suo metodo e del suo apostolato. Solo chi si impegna, infatti, in quel difficile, mirabile esercizio di umanizzazione della propria vita si pone sulla strada che porta al superamento dell’egocentrismo e del narcisismo, così come al superamento della subordinazione ai luoghi comuni e alla pressione sociale. Conoscere se stessi significa lottare per la propria umanizzazione, andare incontro alla verità con tutta l’anima, vivere senza menzogna!

L’irrinunciabile dignità dell’uomo: «Una vita cui sia tolto il libero esercizio d’indagine, una vita senza l’esame del pro e del contro non vale la pena di essere vissuta» (Platone, Apologia 38 a). Interiorità e socialità: «quanto più discendo in me stesso, tanto più trovo le ragioni, i diritti, i bisogni degli altri», «quanto più mi pongo al sevizio degli altri, tanto meglio realizzo la mia umanità». Il mistero dell’uomo sarà scandagliato in profondità con il cristianesimo, basti pensare a tre grandi: Agostino, Pascal e Kirkegaard. L’uomo diventa ai suoi propri occhi motivo di sorpresa e di stupore, perché è egli stesso un problema, un enigma. S. Agostino, il metafisico della vita interiore, scrive nelle Confessioni (IV, 4, 9): «Io stesso ero divenuto per me un gran problema» (Factus eram ipse mihi magna quaestio). Perché l’uomo è un enigma? É l’unicità dell’uomo che ci sconcerta. I suoi atti non emanano da lui come radiazioni d’energia della materia, Collocato nel punto d’incrocio delle varie strade, egli deve decidere quale direzione prendere, Di conseguenza, il corso della sua vita è imprevedibile; nessuno è in grado di scrivere in anticipo la propria autobiografia. Nel suo poter esistere in modi radicalmente diversi, sta il carattere proprio, precipuo, specifico dell’uomo, il suo costitutivo essenziale, il carattere drammatico della sua esistenza. L’uomo è sempre tra la possibilità che e la possibilità che no (Kierkegaard). Il Null-punkt è la decisione di non decidere, l’esistere nella dimensione del «forse» in uno stato di atroce allucinante sospensione fra il sì e il no, in uno stato di atrofia morale, intellettuale e religiosa. Quale spaventosa, distanza nell’arco delle sue possibilità? «Che sarà dunque dell’uomo? – si chiedeva Pascal (Pensieri fr. 431 ed. Brunschvicg) – Sarà uguale a Dio o alle bestie?». Perché, in ultima analisi, di questo appunto si tratta.

III. L’uomo è un essere che si apre all’infinito

 Le tre domande di Kant (Che cosa posso conoscere? Che cosa devo fare? Che cosa mi è lecito sperare?) sono quelle di ogni uomo. L’apertura che l’uomo ha al di là del mondo della natura significa forse che egli trova appagamento soltanto nel creare, cioè nel trasformare il mondo della natura in mondo artificiale? L’uomo è destinato alla cultura? Oggi pare che questa idea sia piuttosto diffusa. Tuttavia anche nelle loro proprie creazioni gli uomini non trovano un appagamento duraturo. Essi cambiano la natura in cultura, ma, sostituiscono incessantemente le forme della loro cultura con nuove forme. Che l’uomo dunque non possa trovare un appagamento definitivo nemmeno nelle sue proprie creazioni ma che le lasci ben presto alle spalle, considerandole come semplici momenti di passaggio per la sua continua ricerca, presuppone che la sua destinazione vada oltre la cultura, sia al di là di quella raggiunta come al di là di ogni possibile cultura raggiungibile. Di nuovo il processo di formazione culturale, anche nella sua ricchezza creativa, diviene comprensibile solo se si scorge che le forze che sono alla base puntano al di là di ogni risultato raggiunto, e che i singoli risultati non sono che gradini verso un traguardo ignoto.

Qual è la forza motrice che genera questa tensione verso l’aperto? Essa si manifesta in quella propensione, caratteristica dell’uomo, al gioco e al rischio, o nel distanziarsi dal presente mediante un sorriso; punta all’aperto, apparentemente senza scopo. Arnold Gehlen ha parlato con una espressione assai felice di una «obbligazione indeterminata» che mette in agitazione il sangue dell’uomo e lo spinge di continuo al superamento del gradino raggiunto nella realizzazione della vita. Egli ha anche visto in questa inquietudine la radice di tutta la vita religiosa. Max Scheler ha visto nel fenomeno dell’apertura al mondo da parte dell’uomo un aspetto di potenzialità religiosa: «Nello stesso momento in cui si rivelò l’atteggiamento di apertura al mondo e di ricerca mai soddisfatta tendenti a inoltrarsi nel mondo scoperto e a non accontentarsi di alcun dato a sua disposizione… nello stesso momento l’uomo dovette ancorare anche il centro del suo essere a qualcosa che sta al di fuori del mondo» (Die Stellung des Meschen im Kosmos, Darmstadt 1947, p. 82).

Per il teologo Landon Gilkey la ricerca scientifica ha un presupposto implicitamente religioso: che il mondo sia opera della Sapienza onnipotente, che l’universo sia conoscibile perché è ordine, ecco un assioma che precede la ricerca, che è strutturalmente presente ad essa, ecco l’Assoluto a cui fa implicito, ma reale riferimento chi ha la passione di conoscere il mondo e le leggi operanti in esso.

Come ha intuito Pascal (Pensieri fr. 438 ed. Brunschvicg), «l’uomo supera infinitamente l’uomo» (l’homme passe infiniment l’homme). Secondo Henri Bergson l’uomo è «un essere intelligente ha in sé tutto ciò che gli serve per superarsi» (Evoluzione creatrice). Per Maurice Blondel, Dio è la condizione necessaria ad assicurare un senso alle nostre azioni (tesi di dottorato: L’azione. Saggio di una critica della vita e di una Scienza della pratica, del 1893). La volontà «volente», che vuole realizzarsi completamente, non adegua mai la volontà «voluta» ovvero ciò che della volontà riesce a realizzarsi nel concreto reale. Per il filosofo francese deve esistere un essere nel quale il contrasto tra volente e voluto, ideale e reale, finalmente si risolve, e nel quale l’ideale si realizzi pienamente. Questo essere è l’Assoluto, cioè Dio. Sulla stessa linea il teologo evangelico tedesco Wolfhart Pannenberg: la tensione verso Dio è infinita, proprio perché gli uomini non posseggono mai il loro destino, ma devono continuamente cercarlo e realizzarlo. Di qui l’imprescindibile conclusione, di cui S. Agostino ci ha dato la formulazione più bella nelle Confessioni (I, 1, 1): «Ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposi in te» (fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te).

L’uomo è irrevocabilmente chiamato ad andare a Dio e solo se egli va a Dio trova se stesso, cammina nella verità e conosce la gioia in quanto esperienza della verità adempiuta. L’uomo non è completo in sé stesso e autosufficiente. La figura della sua esistenza non può essere il cerchio, che si chiude in se stesso, ma l’arco che è gettato oltre ciò che incontra, oltre ogni realtà finita. «Questa è la legge della sua esistenza e ne dà testimonianza una inquietudine profonda che non scompare mai. Essa può essere fraintesa, ma non può essere eliminata. Quando l’uomo se ne accorge, allora essa diventa un tormento; quando l’accetta, allora essa lo conduce alla calma essenziale, cioè al compimento del suo essere» (Romano Guardini, L’inizio, trad. it., Jaca Book, Milano 1973, p. 31). Nella espressione «Ci hai fatti per te…» il concetto agostiniano dell’uomo tocca una straordinaria profondità. Questo infatti è il paradosso esistenziale. Nella pratica quotidiana la cura e la sollecitudine per se stessi superano in importanza la considerazione di altre mete. Tuttavia l’essere umano, senza tracce di una forza che lo trascenda, è privo di senso. L’io ha bisogno di un significato che da solo non riesce a fornire.

La domanda centrale che proponiamo è se tale esigenza sia autentica, radicata nell’esistenza, necessariamente emergente dal nostro essere, oppure se sia soltanto una presunzione, un meccanismo di difesa, un espediente apologetico. Esiste qualche segno di cui si possa comprendere che la nostra esistenza non è riducibile al solo esistere? Perché preoccuparsi di un significato? Perché non accontentarsi del soddisfacimento dei desideri e dei bisogni? La vita dovrebbe essere un circolo perfetto: desiderio… piacere… desiderio… piacere… Preoccuparsi di un significato vuol dire mettersi su una tangente che porta all’infinito.

Secondo Freud, l’essenza più profonda dell’uomo è data dagli istinti organici, e il loro soddisfacimento costituisce per l’uomo l’occupazione fondamentale. Ma quello che qui viene definito si riferisce a bios (vita), e non all’esistenza, la quale comprende sia il bios che l’essere uomini. Gli impulsi vitali cibo, del sesso e del potere, come anche le funzioni mentali tese a soddisfarli, sono caratteristici tanto degli animali quanto dell’uomo. Essere uomini è la caratteristica degli esseri che sanno chiedersi: «Dopo il soddisfacimento cosa viene?». Il cerchio di bisogno e soddisfazione, desiderio e piacere, è troppo ristretto per riempire la loro esistenza. Il bios, o la vita, richiede soddisfacimento; l’esistenza richiede l’apprezzamento. La soddisfazione è un’esperienza sensoriale che pone fine a un desiderio. L’apprezzamento è un’esperienza imponderabile, un’apertura, l’inizio di una sete che non conosce una soddisfazione definitiva.

Una grande minaccia per l’uomo è l’espropriazione della sua identità, la perdita della sua interiorità: è l’alienazione più terribile, chi perde se stesso, che cosa mai potrà avere in cambio, che cosa mai potrà dare agli altri? Eraclito nel Frammento 45 afferma: «I confini dell’anima non li potrai mai raggiungere, per quanto tu ti spinga innanzi, tanto è profondo il suo legame con il Logos». S. Agostino ha indagato l’abissale profondità dell’uomo. Immagine di Dio, l’uomo non può conoscere veramente se stesso senza conoscere qualcosa di Dio. L’uomo, il cui spirito si scopre in relazione costitutiva con Dio, acquista così una profondità nuova, insospettata dagli antichi. Noi siamo inscrutabili a noi stessi perché partecipiamo in qualche misura alla profondità di Dio: «il pensiero stesso non può essere compreso, neppure da se stesso, in quanto è un’immagine di Dio» (mens ipsa non potest comprehendi, nec a se ipsa, ubi est imago Dei), De symbolo, I, 2). L’ultima parola della conoscenza di sé è la prima della conoscenza di Dio. Ma qual è la modalità propria del rapportarsi esistenziale dell’uomo a Dio? É la preghiera. A chi diremo grazie nella gioia? In chi confideremo nella prova dolorosa e nell’angoscia?

NOTA. Testo scritto in vista di una lezione / conferenza. Non si conosce la data di redazione. Ritenendo che sia stata scritta tra il 1980 e il 1990, è stata inserita come data 1.1.1985.