Karl Jaspers e il problema di Dio

Karl Jaspers è una grande figura poliedrica del Novecento. In origine medico esperto di psicopatologie, il cui manuale, pubblicato nel 1913, viene in parte studiato ancora oggi, e che fu importante per lo sviluppo di alcune tendenze della psicopatologia e della psichiatria dell’epoca, Jaspers lavorava presso una nota clinica psichiatrica a Heidelberg, dove poi continuò a vivere insegnando filosofia. Nell’ambito degli studi psichiatrici, Jaspers si caratterizza fin dall’inizio per il tentativo di guardare all’interezza dell’umano, secondo un filone della psichiatria che cercava di superare le tendenze organicistiche dell’epoca, al fine di introdurre nell’ottica psichiatrica anche elementi della biografia del paziente, della sua esperienza di vita. Questo è un elemento di non secondario interesse, anche per quello che riguarderà lo sviluppo successivo della sua filosofia, che si concentrerà specialmente nella stesura di un’opera fondamentale, Philosophie.

Il passaggio di Jaspers dalla psichiatria alla filosofia avvenne sotto il segno di una profonda avversione verso la filosofia accademica, la quale, a sua volta, si mostrava infastidita da questo personaggio che non apparteneva al tradizionale circolo di filosofi e studiosi, ma che proveniva dal mondo delle scienze, delle quali, peraltro, Jaspers dichiarerà sempre l’importanza primaria sia per la conoscenza metodica sia per il sapere di oggetti. Le scienze sono fondamentali per entrare in profondità in campi precisi del sapere; tuttavia, rimangono alcune domande alle quali non sono in grado di dare risposta. Vi è una dimensione di unicità della vita umana che sfugge alla conoscenza metodica, e che apre un ulteriore ordine di ricerca, non in opposizione a quello delle singole scienze, ma che segnala un dato di essenzialità, di ricerca di profondità e di senso.

La filosofia di Jaspers, pur contenendo al suo interno numerosi cenni alla filosofia kantiana, si distingue sia da una prospettiva di teoria della conoscenza sia da un pensiero filosofico inteso come ricerca puramente intellettuale. Per Jaspers la chiarificazione dell’esistenza – e quindi un dipanare ciò che è, un portare alla luce –  conduce a un filosofare che unisce la dimensione del pensiero e la vita, che ha cioè bisogno anche, in quanto filosofia dell’esistenza, dell’ “altra ala” della vita. Il pensiero da solo non basta. Questo è il cuore della sua ricerca, che trova in Philosophie all’inizio degli anni ’30 una sua sintesi, proseguita oltre il buio del nazismo durante la Seconda guerra mondiale, dalla quale egli uscì comunque indenne, sebbene gli fosse stata sottratta la cattedra d’insegnamento e avesse dovuto vivere pericolosamente perché sposato con una donna ebrea.

Nel secondo dopoguerra, si affaticò sull’idea della centralità dell’esistenza, dell’attenzione del pensiero alla vita e alla ricerca di senso, in tanti campi della vita umana. Non a caso, sono presenti riflessioni di ordine politico, religioso e storico. Alcune opere sono molto note, una delle quali suscitò parecchio scalpore all’epoca, La colpa della Germania, relativa alla necessità, di cui Jaspers si faceva paladino, di un’assunzione di responsabilità più definita da parte dei tedeschi nell’aver permesso al nazismo di propagarsi e prendere potere. Sono affrontate anche tematiche politico-sociali, relative alla pace, e la grande problematica della bomba atomica, rispetto alla quale il filosofo fu tra i primi a denunciare la gravità e il pericolo a cui l’umanità era ormai irrimediabilmente sottoposta. Un pericolo assolutamente inedito, perché per la prima volta il genere umano si dimostrava in grado di annientare se stesso, ben oltre l’uccisione di un uomo per mano di un altro, ma attraverso la creazione di uno strumento fatale di distruzione di massa.

L’idea di filosofia di Jaspers può sembrare ad alcuni poco rigorosa, e così parve a Heinrich Rickert, un neokantiano ortodosso, che all’epoca si opponeva alla chiamata di Jaspers all’Università di Heidelberg. E tuttavia mi sembra una filosofia in grado di interpellare e affrontare la vita stessa e di aiutarci ancora oggi a imparare a pensare, un stimolo costante, uno spunto per continuare a farlo.

Il pensiero filosofico di Jaspers è strettamente legato al binomio esistenza-trascendenza. Per il filosofo il riferimento all’esistenza nasce da una distinzione, che lo allontana da Heidegger, nonostante sia stato per tanti versi a lui assimilato all’interno dell’unica dizione di esistenzialismo tedesco (anche se entrambi rifiutavano questa denominazione, preferendo il nome di “filosofia dell’esistenza”, perché ritenevano il termine esistenzialismo riduttivo rispetto a una ricerca comunque filosofica). Il termine esistenza, che comunemente usiamo per tradurre il tedesco Existenz, per Jaspers si differenzia dall’altra parola generalmente utilizzata, che è Dasein, cioè esserci. Questi due termini, che per Heidegger hanno una più stretta identificazione, non si corrispondono. La differenza consta nel fatto che esserci, Dasein, indica sostanzialmente il nostro essere qui e ora, determinati esseri biologici e sociali, dotati di certe caratteristiche, eppure viventi in un mondo dove non vi è una distinzione specifica da esistenza a esistenza. L’esistenza invece, dice Jaspers, è solo possibile. Non è un dato scontato. Mentre tutti siamo qui e ora necessariamente, non tutti esistiamo, cioè non tutti viviamo pienamente la possibilità dell’esistenza, ovvero nella dimensione della libertà, di un’autentica comunicazione con gli altri, di una vita in cui l’esistenza tende alla piena realizzazione della sua possibilità. Jaspers infatti non usa mai il termine esistenza senza accompagnarlo all’aggettivo “possibile”, möglich.  Tutti quanti ci siamo, ma il nostro originario sforzo è quello di tendere a esistere pienamente. E, in fondo, la vita non consiste in altro se non nel trasformare e rilanciare il nostro esserci nella misura della libertà e della comunicazione con gli altri.

Ma attraverso che cosa divento libero? Come esisto, cioè giungo alla piena possibilità di diventare me stesso? Divento libero e pienamente me stesso attraverso la relazione con la trascendenza. Essa è ciò che mi spinge ad assumere fino in fondo la possibilità della mia esistenza. Dunque in un certo senso, si potrebbe dire che la filosofia di Jaspers si fondi su questi tre termini: l’esserci, l’esistenza e la trascendenza; in un altro senso, si potrebbe sintetizzare nel binomio, già menzionato, di esistenza-trascendenza. Il che vuol dire, in altre parole, che non posso diventare me stesso a prescindere dall’altro, che non posso essere me stesso se non tendendo a qualcosa che oltrepassa me stesso, che è al di là. La caratterizzazione del pensiero di Jaspers è intrinsecamente etica: vi è continuamente questa tensione all’oltrepassamento di sé, che si pone come apertura fondamentale alla trascendenza. La trascendenza, a sua volta, è data dalla comunicazione con gli altri, senza i quali non sono me stesso, dall’apertura con un’ulteriorità non meglio identificata.

Dunque al centro del pensiero jaspersiano c’è l’esistenza in relazione con la trascendenza. Un’esistenza certamente singola, unica e irripetibile e tuttavia tale singolarità non è tale se non emerge dalla relazione con gli altri e con la trascendenza. Questa considerazione è importante, perché, da un lato, insiste sul carattere unico dell’uomo e, dall’altro, perché mostra come non si possa divenire se stessi da soli, ma sia necessaria la relazione con qualcun altro, l’apertura oltre se stessi.

Nell’interrogarsi su che cosa sia la trascendenza, è evidentemente più semplice pensare agli altri, intesi come persone, individui, che mi trascendono, in un incontro di due libertà distinte, in quanto l’altro non può essere mai riportabile a me stesso. Scrive Jaspers in un capitolo del secondo volume di Philosophie: “Io non posso essere me stesso se l’altro non è se stesso”. La comunicazione esistenziale, che è il massimo della comunicazione, quella tra due esistenze, è tale solo se ciascuno continua a essere se stesso, altrimenti non è comunicazione ma un modo per essere soggiogati l’uno dall’altro. Anche riguardo all’amore, Jaspers ricorda che esso è primariamente lotta (nel recupero di alcuni elementi dell’idealismo tedesco, in riferimento alla lotta amorosa), cioè tensione, nel senso positivo del termine. L’amore vero problematizza, mette in movimento, è dinamico. E ciascuno non può che essere se stesso per entrare in un rapporto pieno e significativo con l’altro.

Non è però immediatamente chiara, quando si parla di trascendenza, la dimensione di un’ulteriorità che oltrepassa l’esistenza. Eppure, intesa in questo modo, la trascendenza è fondamentale per l’esistenza. A questo proposito, ci fu un interessante dibattito tra Karl Jaspers e Karl Barth, il noto teologo protestante di Basilea, dove visse lo stesso Jaspers dal 1948 in avanti. La controversia verteva su un tema che tocca tutti noi ancora da vicino: per Jaspers, una delle forme attraverso cui entrare in relazione con la trascendenza è costituita dalle cosiddette “situazioni-limite”. Con questo termine il filosofo indica quelle esperienze della vita umana nelle quali l’individuo è particolarmente interpellato, provocato e coinvolto. Vale a dire, per esempio, la morte delle persone care, il dolore, la malattia, la sofferenza, l’abbandono, la lotta, cioè tutti quegli eventi che si configurano in modo drammatico e che inevitabilmente segnano in profondità. L’esperienza della situazione-limite è un’esperienza di apertura alla trascendenza, perché nell’urtare contro il muro della situazione-limite la persona coglie qualcosa che lo oltrepassa. Ne nacque un dibattito, di cui si può trovare traccia in alcune pagine della Dogmatica di Barth, più restio ad accettare questa tesi. Il teologo sosteneva che la situazione-limite può sì aprire alla trascendenza, ma può anche chiudere rispetto a essa.  Eppure, si accolga o meno la tesi di Jaspers, si pone un elemento condivisibile, ovvero che quando l’esistenza s’incontra o si scontra con il limite che la caratterizza, tale limite, nel porre all’individuo un muro, gli dà contemporaneamente la possibilità di guardare oltre. In un certo senso, quindi, la misura del limite non è semplicemente il dato negativo invalicabile, ma è anche la capacità, guardando oltre di esso, di trovare le risorse, la forma per affrontarlo adeguatamente.

Certamente per Jaspers, poiché le situazioni-limite sono esperienze caratterizzanti dell’azione umana, esse pongono l’individuo di fronte al problema della trascendenza, al di là della risposta che poi ciascuno dà. Di fronte alla drammaticità di alcune situazione-limite, la provocazione di Jaspers è particolarmente utile perché ci porta a “interfacciarci” con il dato e il valore del limite stesso. A questo riguardo, si potrebbero recuperare alcune pagine kantiane o addirittura immagini kierkegaardiane – e infatti, a mio parere, anche se può sembrare molto difficile, il pensiero jaspersiano è collocabile nel punto di equilibrio tra Kant e Kierkegaard.

In un’altra pagina di Jaspers, si può rileggere la stessa esperienza delle situazioni-limite nel senso della relazione tra la responsabilità e il dono. In essa, il filosofo mette in luce il fatto che quanto più la libertà vive se stessa, quanto più l’esistenza vive la sua responsabilità, e dunque si scorge capace di una piena realizzazione di sé, tanto più coglie che ciò che ha raggiunto le giunge quasi come un dono. Citando Jaspers: “Io sono responsabile di me perché voglio me stesso della cui originarietà sono certo, inoltre, per quanto mi concerne, sono solo se a me donato, perché questo voler se stesso ha bisogno di qualcosa che sopraggiunga”. L’esperienza, cioè, dell’autonomia personale, della capacità di realizzazione di se stessi, dell’esercizio della libertà è anche esperienza di quel momento in cui io colgo che ciò che ho raggiunto, anche grazie al mio impegno e alle mie scelte, non è solo frutto di me stesso, ma è anche risultato di qualcosa che mi giunge, che proviene a me come un dono. Questo è un dato che ci dice della presenza della trascendenza nella vita personale, e di come la prospettiva di Jaspers abbia un carattere eticamente fondato: il singolo è responsabile, dunque ha il compito di vivere appieno la sua libertà. Ma proprio quando la sperimenta massimamente, in alcuni momenti più significativi della vita, si rende conto che non dipende totalmente da sé, ma gli sopraggiunge.

Jaspers ha avuto il pregio di scandagliare nella sua vita tante esperienze che costituiscono, in un modo o nell’altro, un richiamo alla trascendenza, come scrive nelle pagine sulla sfida e l’abbandono, l’ascesa e la caduta, la razionalità e la passione, sul singolo e la molteplicità.

Un tema in particolare ha caratterizzato la riflessione jaspersiana, un tema che costituisce il terzo volume della sua opera, intitolato provocatoriamente dal filosofo Metafisica. Chiaramente la sua impostazione differisce da quella tradizionale: non intende essere ontologica ma vuole esprimere sempre una dimensione dell’essere, dell’ulteriorità dell’essere, che non si può mai conquistare del tutto. Un termine, ivi contenuto, ha suscitato un ampio dibattito, ovvero la parola “cifra”. Jaspers sostiene che la trascendenza si riveli attraverso le sue cifre.

Dal punto di vista del pensiero, verrebbe da chiedersi: se la ricerca filosofica consiste nell’unire il pensiero alla vita, in che cosa la riflessione oltrepassa la semplice descrizione degli eventi della vita nel tentativo di individuare le cifre della trascendenza? Per Jaspers la “cifra” non è il “simbolo”, intendendo quest’ultimo come troppo oggettivo, mentre in realtà la trascendenza si svela e si nasconde contemporaneamente. Nella “cifra” il rapporto con la trascendenza avviene attraverso un’intuizione, come qualcosa a cui si allude. La controversia si scatenò sull’evanescenza di tale definizione, poiché per alcuni era troppo debole per poter esprimere e trasmettere la trascendenza. Per Jaspers invece – il che non fu immediatamente capito al suo tempo – la cifra è ciò che custodisce il carattere trascendente della trascendenza, è ciò che designa l’impossibilità a impossessarsi di essa: non si può raggiungere una conoscenza tale di essa che ci permetta di dominarla. E per questo la sua caratteristica primaria è quella di manifestarsi e nel frattempo allontanarsi. In questo si compongono istanze differenti: da un lato, la cifra della trascendenza e il naufragio di ogni tentativo di conoscerla sono stati visti come dati assolutamente pessimistici dell’impostazione filosofica jaspersiana (anche Luigi Pareyson, nella prima monografia dedicata a Karl Jaspers, pubblicata a Napoli dall’editore Loffredo nel 1940, coglie in essi, e innanzitutto, tale accento pessimistico. Nel 1975, in un testo intitolato Rettifiche sull’esistenzialismo, ammise di essere stato forse troppo duro nei confronti del filosofo); dall’altro lato, possiamo trarre alcuni insegnamenti dalla riflessione jaspersiana. Si coglie il carattere anti-idolatrico in ogni visione della trascendenza, di cui non ci si vuole appropriare.

L’altro aspetto fondamentale della questione riguarda il carattere critico della trascendenza. Essa, nella misura in cui rimane irraggiungibile totalmente, rappresenta, rispetto all’esistenza, quel pungolo critico che appare sempre essenziale nella vita. Non possedendola, la trascendenza esercita sull’individuo il desiderio di andare oltre. Dal punto di vista dei credenti, vi sono naturalmente numerose obiezioni: la prima è che, ammettendo questa visione della trascendenza o di Dio, pur vicina, per certi versi, a quella di Kierkegaard, con questo Dio non vi è dialogo, il che costituisce un paradosso per chi crede in una relazione personale con Dio, un Dio persona che entra i contatto con le persone. Un paradosso è individuato anche nel fatto che un filosofo dell’esistenza non concepisca l’idea di un Dio persona, poiché incapace ad andare oltre una critica della rivelazione (anche cristiana) intesa come un modo di uscire dal nascondimento di Dio e della trascendenza, che lui ritiene necessario per preservarne l’integrità. Questa è la grande contraddizione del suo pensiero, a cui fa immediatamente seguito un’altra, e cioè che la Chiesa jaspersiana è una Chiesa solamente invisibile, mentre la Chiesa visibile rischia di idolatrare la trascendenza. Quindi, Jaspers non coglie una dimensione ecclesiale fondamentale, che è il dato comunitario-relazionale, appartenente alla condivisione della fede.

Queste le due grandi obiezioni del credente in una fede rivelata. Però, Jaspers stesso scrive che il credente nella rivelazione e il credente filosofico hanno molti punti d’incontro. Primo, l’idea di partenza per il credente che la propria fede non sia separata dalla ragione, poiché questa costituisce un punto prezioso (diverso dalla tradizione classico-tomistica), un profilo esistenziale.  Ciò che Jaspers chiama “coscienza assoluta”, intesa come il cuore pulsante di un’esperienza esistenziale, è ciò per cui la coscienza non può essere definita esclusivamente come coscienza morale perché, per conoscere fino in fondo l’esistenza, bisogna che acquistino cittadinanza anche nozioni come fede, amore, fantasia. Parole di cui è fondamentale la presenza anche in campo filosofico, proprio a partire dall’unità dell’esistenza, che permette di affermare il cammino unisono della vita e del pensiero. Pertanto, ogni ricerca filosofica, razionale non può mai astrarsi dalla vita, ma deve passare attraverso tutte le dimensioni che la compongono. E questo punto del pensiero di Jaspers, come lo scandagliare tutti gli aspetti dell’esistenza, mi pare fondamentale. Del naufragio, di cui parla, hanno bisogno anche i credenti nella rivelazione, per non arrestarsi nella ricerca di Dio, per non darla per data e conclusa. In questo senso è una ricerca, un contributo per tutti.

Vi è poi un altro elemento, collegato al tema della coscienza assoluta e ricalcato su un’immagine kierkegaardiana, che è il rapporto tra il tempo e l’eterno nella vita personale. Jaspers insiste sul tema dell’attimo, dell’Augenblick di alcune esperienze importanti che segnano la vita. Il rapporto con l’eterno, dice Jaspers, non è qualcosa di programmabile a tavolino, di cui si possono quantificare i diversi passaggi; ma, dopo una ricerca durata anche un’intera vita, è come se l’eterno si rendesse presente nel tempo, si manifestasse come in un bagliore, in un attimo. Nella vita di ciascuno, tali esperienze significative e riassuntive ci permettono di intuire qualcosa, di individuare una strada da percorrere, di compiere una scelta, ed è lì che l’eterno si rende tempo nell’attimo, che può essere il momento della decisione. Questa grande immagine accompagna un modo di riflettere sulla presenza di Dio nella vita delle persone. La ricerca costante e infruttuosa in tanti momenti, il lungo silenzio, la fatica, a volte vengono superati da alcuni istanti che ridanno luce a un cammino apparentemente buio e muto, privo di approdo e di alcun tipo di esito. Per quanto al Dio jaspersiano non si dia il nome del Dio della fede cristiana, la sua rimane una filosofia aperta continuamente alla trascendenza e pertanto è in grado di offrire un notevole apporto per chi ricerca, credente nella rivelazione o credente filosofico.

NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 9.4.2013 su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.