La crisi nell’Italia di Crispi

I-L’Italia di Crispi, tra demagogia e autoritarismo

Nel marzo 1886 Crispi concluse un discorso contro le funeste conseguenze della politica di Depretis gridando al banco del governo: «Mettete un uomo energico, là». L’uomo al quale pensava era lui stesso. Un anno dopo, aprile 1887, il vecchio Depretis formava l’ultimo dei suoi governi affidando proprio a Crispi, capo dell’opposizione interna alla Sinistra costituzionale, la cosiddetta «Pentarchia», il Ministero dell’interno. Nel luglio Depretis morì e Crispi assunse la presidenza del Consiglio, accentrando nella sua persona le speranze e le aspettative degli scontenti.
«Incipit vita nova» scrisse Beccarini, plaudendo alla fine del trasformismo e a un nuovo modo di governare. Infatti Crispi, prossimo ai settant’anni, fu salutato come «l’atteso», il giovane vegliardo dal «pugno di ferro», il solo capace di sollevare la Patria «tirandola su per i capelli»: «l’uomo energico» – com’egli stesso si vantava di essere – dotato dello straordinario potere di galvanizzare «i sette popoli vecchi, decrepiti, viziati» che in venticinque anni Destra storica e Sinistra depretisiana non avevano saputo educare, rifacendoli «seri e virtuosi». Di più: la posizione parlamentare di cui inizialmente disponeva Crispi era forte; aveva ereditato la maggioranza di Depretis e poteva contare sull’appoggio del Centro, della Pentarchia e anche dell’Estrema Sinistra.
Tutto pareva andare per il verso giusto e il primo Crispi, capo dell’esecutivo senza interruzione dal luglio ’87 al gennaio ’91, affrontò effettivamente con impegno alcuni punti decisivi della riforma amministrativa dello Stato, conseguendo notevoli successi grazie alla presenza attiva di due ministri, il bresciano Zanardelli alla Giustizia, il piemontese Giolitti, al Tesoro. Fu il primo governo Crispi che varò la legge provinciale e comunale del 1888, la legge sanitaria nello stesso anno e quella del 1890 sulle istituzioni di beneficenza, infine la riforma Zanardelli del Codice penale e di procedura penale, in vigore fino al 1930.
Il Codice Zanardelli presentava segni positivi di novità: aboliva nel Paese di Cesare Beccaria la pena di morte, dava un primo riconoscimento al diritto di sciopero e istituiva la quarta Sezione del Consiglio di Stato per riparare i torti subiti dai cittadini da parte dell’amministrazione pubblica. Si trattava di aperture liberali, cui faceva da contro-campo l’assai discussa legge di pubblica sicurezza che diminuiva le garanzie di libertà per i cittadini.
Crispi, purtroppo, confondeva l’energia realizzatrice con l’ostentazione di un’autorità dittatoriale. Non amava essere il capo di una maggioranza composta, né render conto del suo operato alle sparute, ma combattive opposizioni di Sinistra. Così, in breve tempo, si persuase che era meglio governare addirittura senza il Parlamento. Ad esempio, nel corso di quasi un anno, fra il 23 luglio 1894, quando era stata chiusa la sessione, e il 10 giugno 1895, data di riconvocazione del Parlamento, le Camere avevano potuto lavorare per undici giorni.
Crispi aveva governato senza Parlamento, in modo personale, concordando forse col re i provvedimenti più gravi, senza spesso neppure informare i colleghi di gabinetto. In questo periodo anche le imposte furono consentite con decreto reale; del resto, nel corso ulteriore della guerra etiopica Crispi non ebbe scrupoli nell’autorizzare spese militari senza sentire il Parlamento e neppure la formalità del decreto reale. Con l’esperienza crispina si poté sperimentare quali riserve di arbitrio rimanessero nelle ambiguità non tanto dello Statuto albertino, quanto della sua integrazione legislativa e della interpretazione parlamentare.
Crispi giunse, insomma, a esautorare il Parlamento, ma l’esautoramento delle Camere ingenerò inevitabilmente tensione e conflitti. E, alla fine, l’impulsivo Crispi inciampò e cadde. E inciampò su una classica buccia di banana. La caduta del primo governo Crispi fu, infatti, causata da una sua inconsulta risposta a un intervento critico di Ruggero Bonghi. «Quando Bonghi era al governo – così disse Crispi – non era difficile ottenere il pareggio del bilancio perché a quell’epoca non vi erano né un esercito, né una flotta a causa della politica servile verso lo straniero seguita dalla destra». Di fronte a questa offesa, per altro infondata, alle «sante memorie», non solo insorse la Destra, ma anche molti sostenitori di Crispi gli voltarono le spalle.
Il secondo governo Crispi durò dal dicembre ’93 al marzo ’96. Questo governo nacque male e finì peggio. A settantacinque anni tornava al governo Crispi perché la lotta sociale usciva allo scoperto e il liberalismo progressivo del breve governo Giolitti aveva terrorizzato le classi dirigenti. Giolitti, infatti, non temeva l’evoluzione democratica delle istituzioni, sosteneva la neutralità dello Stato nella lotta sociale, vietava l’uso delle armi contro gli scioperanti e valutava apertamente in modo positivo il contributo che il socialismo nascente poteva dare a un moderno regime liberale. Giolitti aveva assistito nel ’92 al sorgere del Partito socialista, guidato da Filippo Turati, nobilissimo apostolo di giustizia sociale e libertà, con animo evidentemente diverso e opposto rispetto a quello dei crispini e della destra. E sarà proprio la collaborazione antagonistica tra liberalismo progressivo e socialismo, tra Giolitti e Turati, la carta vincente nel ventennio 1892 – 1912.
Il secondo governo Crispi nacque male anche perché Giolitti era stato abbattuto con un falso pretesto, in nome dello scandalo della Banca Romana, scandalo in cui la sua correttezza personale uscì intatta, mentre vi erano implicati in primo luogo proprio Crispi e il suo variopinto entourage familiare. Per circondarsi dell’alone di salvatore della Patria, a Crispi non parve vero esasperare il clima di catastrofe imminente. Giunse perfino a scambiare la lotta sociale degli zolfatari o dei braccianti siciliani per «cospirazione separatista» e si sentì perciò in dovere di «riconquistare l’isola».
L’ex-garibaldino, l’ex eroe e patriota, l’uomo della Sinistra che aveva fatto cento mestieri negli anni d’esilio e che amava ripetere «Amo il popolo; anch’io sono un lavoratore», contro gli zolfatari e i contadini di Sicilia proclamò lo stato d’assedio, scatenando la repressione militare dei moti operai; dichiarò illegale il Partito socialista e ne deferì i capi all’autorità giudiziaria; sciolse 248 organizzazioni chiamate sovversive e arrestò i deputati che le rappresentavano in Parlamento; privò 847.000 elettori, 100.000 in Sicilia, del diritto di voto. Nello stesso tempo, però, Crispi provvedeva a garantire la piena clamorosa assoluzione agl’imputati degli scandali bancari, compresi i rei confessi.
Crispi finì così col disgustare tutti. Disgustò i liberali progressisti, che riconoscevano ormai il loro capo in Giolitti. Disgustò i conservatori onesti, che erano rappresentati nel secondo Governo Crispi da Sonnino, il quale avrebbe voluto che le giuste richieste dei Fasci siciliani fossero accolte e tradotte addirittura in un apposito disegno di legge sui contratti agrari in Sicilia; disegno di legge mirante a ridurre i latifondi, a privatizzare i demani e a favorire il credito agevolato per la formazione della piccola proprietà contadina. Il progetto Sonnino non passò e Crispi non si servì certo dei soliti mezzi a cui ricorreva quando voleva che passasse un provvedimento a lui gradito. In una parola, Crispi disgustò con i suoi eccessi sia la Sinistra non socialista, sia la Destra.
Tuttavia Crispi cadde per i risultati disastrosi della sua politica coloniale. Il 2 maggio del 1889 il primo Governo Crispi aveva sottoscritto con Menelik il trattato di Uccialli, che permetteva agli italiani di stanziarsi sull’altopiano a ovest di Massaua. Ma l’ordine impartito da Crispi al generale Baratieri di operare incessanti sconfinamenti ebbe un duplice effetto: spinse i vassalli di Menelik a unirsi al loro capo contro il pericolo italiano e mise in grado Menelik di denunciare il trattato di Uccialli (febbraio 1893). Fu la guerra, e le poche truppe italiane furono soverchiate ad Amba Alagi (7 – 12 – ‘95) e a Macallé (gennaio 1896). Furono inviati allora notevoli rinforzi in Africa al comando del generale Baldissèra. Ma ancora una volta Crispi non seppe attendere l’effetto dei provvedimenti presi. Con un imperioso telegramma in cui definiva la campagna del Baratieri una «tisi militare», ingiunse al generale l’immediato passaggio all’offensiva. Fu Adua. Quel 1° marzo 1896, con i seimila caduti ad Adua, l’Italia perdette probabilmente più vite umane che in tutte le guerre del Risorgimento. «Il Paese aspetta un’altra vittoria ed io l’aspetto completa» aveva telegrafato Crispi a Baratieri il 7 gennaio 1896. Crispi insomma aveva sperato in una clamorosa vittoria su Menelik per superare la grave crisi interna.
La disfatta di Adua segnò, invece, la sua fine politica. Le folle scesero in piazza a dimostrare «contro la guerra di Crispi». Il 5 marzo Crispi affrontò le bordate di insulti lanciati dai banchi dei deputati e annunciò le sue dimissioni senza nemmeno attendere il voto.

II-La politica di potenza

La Sinistra anticlericale prima e dopo il 1870 vede nel Kulturkampf di Bismarck una direttrice anti-cattolica da trapiantare in Italia e nella Real-politik del Cancelliere il modello di quella sintesi di potenza militare e spregiudicatezza diplomatica che aveva garantito il primato della Germania in Europa e che avrebbe potuto, se adottata dal nostro Paese, aprirgli le porte del futuro. Di qui il sogno di Crispi, una volta capo del Governo, di essere lui il Bismarck della nuova politica italiana. Di qui il suo pellegrinaggio a Berlino, con l’intento di trasformare la Triplice da strumento «difensivo» in alleanza difensiva-offensiva. Ma se è vero che Bismarck e Crispi sottoscrissero alcuni impegni segreti bilaterali in funzione antifrancese, la linea bismarckiana rimase sempre quella di non fare assolutamente della Triplice «una società di profitti» e di non avallare alcuna avventura da parte italiana.
In realtà Crispi, quando giunse al Governo, era da tempo un fervido ammiratore della politica realistica, o alla Bismarck come si diceva, cioè una politica nella quale sempre meno si dava peso ai principi che ci avevano guidati nel Risorgimento e sempre più ai fattori di potenza della nazione armata, ispirata solo dal proprio egoismo nei «necessari contrasti» di interessi fra Stati vicini. La Sinistra inoltre si era inventato il mito di una comunanza di idee e di fini del movimento germanico e in quello italiano, per dedurre che se la fortuna d’Italia coincideva con quella della Germania, dunque doveva contrastare con quella della Francia. Si capisce allora perché, al di là di fuggevoli schiarite, le tendenze di Crispi e dei suoi amici verso la Francia sono in ogni circostanza diffidenti e ostili e poco conta che si tratti della Francia del clerico-monarchico Mac Mahon o del repubblicanissimo Gambetta.
Con questi sentimenti e partendo da siffatte premesse, il revirement di Crispi divenne veramente totale: l’ex-mazziniano e antitriplicista si convertì all’oltranzismo triplicista e giunse a perseguitare le associazioni irredentistiche, che si battevano per tener vivo il senso di appartenenza di Trento e Trieste all’Italia. La permanenza dell’Italia nella Triplice serviva certamente a premunirsi da un ritorno offensivo dell’Austria, ma, come al solito, la mancanza di misura e la partecipazione portarono Crispi a decisioni eccessive e odiose. Le conseguenze della infatuazione crispina per Bismarck furono disastrose per l’Italia. Nel vecchio rivoluzionario l’amor patrio si era tramutato in «anelito all’ingrandimento della potenza dello Stato»; le glorie antiche segnavano i doveri dell’avvenire e ai suoi occhi l’essere amati nel resto del mondo contava poco per l’Italia se non si cominciava finalmente ad essere temuti.
Una politica di potenza per un Paese con immensi problemi sociali e finanziari, oltre che di organizzazione dello Stato, ancora irrisolti, era una vera follia, un peso insopportabile. Porto un esempio. Già nel giugno del 1887 Crispi, allora ministro dell’Interno, aveva caldamente appoggiato il programma di costruzioni navali diretto contro la Francia. Nel dicembre del 1888, Crispi, divenuto presidente del Consiglio, fece votare altri ingenti stanziamenti per la Marina. L’Italia divenne così la terza potenza marittima mondiale con dieci corazzate di prima classe, di cui cinque non avevano uguali per dimensioni, velocità, autonomia e armamento. «Occorre liberare l’Italia dalla prigionia del Mediterraneo» sentenziò oscuramente Crispi. E ancora: «Oggi l’Italia si afferma e cammina. Dai più lontani oceani si leva il grido: Italia!, ridando un nuovo significato all’antica frase civis romana sum».
Invano il meridionalista Giustino Fortunato sosteneva che l’Italia avrebbe dovuto accontentarsi di essere «la prima delle nazioni di seconda categoria». Invano gli antiprotezionisti che scrivevano sul “Giornale degli economisti”, fondato proprio nel 1890, – e tra essi c’erano nomi illustri come Maffeo Pampaloni e Vilfredo Pareto – denunciavano gli esiti disastrosi in economia di una politica estera megalomane e spropositata, che alimentava la mala pianta del militarismo, della dilatazione della mano pubblica nei processi produttivi e la difesa ad oltranza dei privilegi cari appunto ai protezionisti. Crispi si vantava di essere un libero-scambista, ma con la sua incompetenza divenne succube degli interessi di chi chiedeva alte barriere doganali, sottraendosi alla libera concorrenza e imponendo ai consumatori disarmati i prezzi che loro facevano comodo.
La guerra doganale colpì l’Italia più duramente della Francia. La Francia nel periodo 1881 –’87 assorbiva il 41 per cento delle esportazioni; nel 1888 – 1890 le esportazioni italiane in Francia diminuirono del 63%. Inizialmente Crispi si vantò della rottura dei rapporti commerciali con la Francia, ma la delusione fu rapida. L’agricoltura fu la prima vittima e si può dire che nessun politico fece tanto male all’Italia meridionale quanto il meridionale Francesco Crispi.
Nel Sud crollarono le esportazioni del vino e conseguentemente i prezzi: i proprietari terrieri, che avevano convertito le loro terre dalla cereali cultura al vigneto, non resistettero alla perdita del mercato francese, dal quale dipendevano, e alla contemporanea devastazione dei vigneti a causa della filossera.
Il solo rimedio escogitato dal Governo fu l’aumento del dazio sulla importazione dei cereali; così che gli effetti della depressione furono ancora una volta pagati dai consumatori, dai braccianti privi di terra e dai produttori meridionali di vino, olio e frutta.
A queste considerazioni si aggiunga che, con l’uscita di Bismarck dalla scena politica nel 1890, i mutamenti che intervennero nel quadro internazionale non erano certo tali da favorire l’attuazione del programma crispino di politica estera. Nel marzo 1890 Bismarck è costretto al ritiro dal giovane Guglielmo II. Nell’agosto 1892 il Governo liberale inglese fa sapere di non sentirsi vincolato dagli impegni mediterranei presi da Salisbury. L’ipotesi, tanto paventata da Bismarck e da Crispi, di una stabile alleanza tra la Francia e la Russia diventava realtà nell’agosto di quello stesso 1892 con la stipulazione di una convenzione militare, trasformata in vera e propria alleanza nel gennaio 1894.
Lo schema crispino di un’Italia integrata in un blocco anglo-germanico, garantita sul continente dalla Triplice e nel Mediterraneo da un’intesa navale con Londra, saltò del tutto nel 1896 quando, a causa della posizione assunta, da Guglielmo II nei confronti dei Boeri, esplose la rivalità fra Londra e Berlino. «In una simile situazione – osserva Decleva – Crispi non poteva più contare su nessun appoggio. Poteva solo rinserrarsi nelle sue ossessioni; ma di fronte alla Francia non aveva più nessuno cui rivolgersi. Premuto dalle difficoltà, Crispi tentò anche di tornare sui suoi passi e propose la riapertura dei negoziati per il trattato di commercio. invano. La risposta fu la denuncia da parte francese del trattato del 1868 tra l’Italia e la Tunisia» (L’Italia e la politica internazionale dal 1870 al 1914, Mursia, Milano, 1974, p. 98).
In un primo momento era parso che le cose andassero meglio in Africa; ma sappiamo che i successi italiani avevano per contraccolpo rafforzato Menelik. Nel dicembre 1895 gli abissini conquistarono Amba Alagi e gli italiani ebbero millesettecento morti. Il tentativo di coinvolgere gli inglesi in appoggio all’Italia fallì miseramente. Adua doveva cancellare la sconfitta di Amba Alagi, ma il 1° marzo 1896 per l’Italia fu il disastro. Crispi si dimise, col segreto desiderio di essere riconfermato, ma il Paese ne aveva abbastanza di lui e il re non se la sentì di stare al suo gioco. Il politico siciliano alla fine parve persino ammettere il fallimento, ma con le solite riserve mentali, imputandolo cioè alla «mancanza di tempo e di forze che gli avevano impedito di fare quello che era nella sua mente».
Dichiarazioni e progetti dell’ultimo Crispi, quand’era ormai lontano dal potere, attestano un sorprendente ritorno alle origini, a Mazzini e a Cattaneo, nella convinzione che la pace in Europa sarebbe stata garantita non dal prevalere di un gruppo di potenze sull’altro, ma dalla costruzione degli Stati Uniti d’Europa e di una confederazione balcanica che riunisse le quattro etnie più consistenti della zona.
Anche Bismarck, gran nemico del liberismo quand’era al potere, una volta che ne fu cacciato, si tramutò d’improvviso in un suo fervido assertore. Significativa nèmesi per i sostenitori della Real-Politik.

III-L’autoritario «moderato»

Che cosa significò il «crispismo»? Il crispismo fu un’atmosfera politica che andò oltre i programmi dell’uomo Francesco Crispi e caratterizzò efficacemente un’epoca. Crispi fu non a caso il primo eroe letterario della politica italiana, l’uomo forte che piacque agli scrittori, ai Carducci, ai Verga, agli Oriani. Quest’ultimo, Alfredo Oriani, fu narratore di intimità provinciali, di ambizioni insoddisfatte, di tormenti psicologici, ma fu anche il più popolare cantore del mito crispino, secondo cui, solo l’uomo di Vittorio Emanuele II e di Garibaldi avrebbe potuto lavorare alla creazione di un fascio di volontà concordi che, trascendendo gli interessi e gli egoismi di parte, ridesse alla Nazione un primato e la spingesse sotto una guida decisa verso l’esterno, forte nel conflitto con gli altri popoli. Insomma,« a forza di dire che il diritto delle Nazioni doveva rendersi visibile per mezzo della forza, sorgeva uno stato d’animo per cui, pur senza percepirne il contrasto, dall’Europa dei popoli liberi di Mazzini e Cavour si passava al nazionalismo e alla esaltazione della politica di potenza alla Bismarck». Cioè si passava dal Risorgimento all’Anti-Risorgimento, dal connubio di patria e libertà alla scissione di quei due fattori. A questi estremi approdi retorici del crispismo si dovette pure la popolarità di Crispi, l’uomo dei Mille, il «dittatore» che doveva metter fine al bizantinismo parlamentare, che sognava l’Italia grande potenza. E la sua popolarità, la sua capacità di ottenere consensi in settori disparati della pubblica opinione, quasi prefigurava i tratti di un rapporto nuovo, «novecentesco», tra il dittatore e il popolo. E se l’uomo Crispi oscillava di continuo fra gli ideali liberali e una prassi autoritaria, per il crispismo egli, ed egli solo, aveva le carte in regola per invocare per sé una specie di diritto alla rappresentanza plebiscitaria della Nazione.
Il modello Crispi si appellava senza dubbio a fattori carismatici personali, tentava cioè, come ha osservato Sergio Romano (Crispi, Bompiani, Milano, 1986 VIII ed.), ad assommare nella sua persona quella fiducia che stava vacillando nelle istituzioni. Naturalmente egli si appellava di continuo alla monarchia, e tendeva a presentarsi come «uomo del Re»: ma, per così dire, come un Garibaldi investito delle prerogative di un Bismarck. Di fronte alle difficoltà di produrre le decisioni che, nella sua ottica, gli apparivano necessarie, da parte del sistema politico, Crispi pose se stesso e la sua presunta popolarità ad alternativa del Parlamento. Le risorse, per un «modello» come quello di Crispi, erano, però, risorse da gioco d’azzardo. Per la parte decisiva che vi teneva il carisma dell’uomo, quelle risorse non potevano, infatti, consistere che nel successo stesso della sua politica. La mitologia del suo passato, infatti, era solo parzialmente adoperabile, perché venne sottoposta dagli avversari a un bombardamento fittissimo e demolitore di natura scandalistica, cui la spregiudicata confusione del pubblico e del privato da parte dell’uomo prestava largamente il fianco.
Crispi dette buona prova di sé nel varare riforme riguardanti l’amministrazione dello Stato, ma anche qui il meglio delle proposte avanzate da Giolitti e Sonnino non andò in porto. Critico acuto e aggressivo del trasformismo, Crispi ne perpetuò le pratiche e fallì clamorosamente nel tentativo di formare «un largo partito progressista». Uomo di sinistra, finì col fare una politica di estrema destra. Cedendo al complesso della «congiura», si trasformò addirittura in strumento armato della reazione. Nel suo secondo governo, adottando per i lavoratori siciliani le disposizioni del Codice penale militare per i territori invasi dal nemico, conseguì due risultati: approfondì il solco fra Stato e base popolare e ridette vita all’anarchismo estremo, rendendo più difficile sia la lotta sociale, sia il generoso tentativo socialista, allora ai suoi albori, di inserire i lavoratori nello Stato italiano, di farli finalmente partecipi e protagonisti della vita politica.
Gli storici nazionalisti come Gioacchino Volpe e poi la storiografia fascista videro in Crispi «l’ardito precursore», «una strada di luce nel cielo notturno», «il profeta della nuova Italia», l’Italia del «prussianesimo romano» che invoca lo Stato forte, fondando la sua volontà di dominio e di espansione sulla solidarietà nazionale. Ma anch’essi, così poco disposti ad ammettere il carattere mitologico di quei programmi e dell’ideologia che vi è sottesa, riconobbero che i frutti della politica crispina furono pochi ed amari. «Dall’amicizia con l’Inghilterra – nota acutamente il Volpe – non trasse vantaggio. Il tentativo di far della Triplice uno strumento di azione oltre che di conservazione fallì. Vide crollare il piccolo edificio coloniale italiano…». In realtà la guerra doganale ci aveva stremati; l’oltranzismo triplicista ci consegnò mani e piedi a Bismarck, spaccò ulteriormente il Paese, ci isolò sul piano europeo; Adua, infine, seppellì ogni sogno di gloria assai più che Lissa e Custoza.
Ci si deve poi francamente chiedere: si può contrabbandare per «grandezza d’animo» la megalomania che caratterizzò marcatamente sia la personalità di Crispi, sia i suoi programmi? E può dirsi vero statista chi vuole cose fra loro contrastanti e comunque fuori di ogni proporzione con le forze del Paese? La ribellione al reale per rifugiarsi nel mito e, peggio, in un mito al cui centro sta il proprio «io» e la pretesa infallibilità del suo carisma, non è la via migliore per dare voce sul terreno della politica a un’esigenza pur giusta e comprensibile, come quella di cercare un riscatto dalla mediocrità. Occorre, però, stare attenti a non sovrapporre il cliché di Mussolini alla realtà storica della figura di Crispi. Crispi, insomma, malgrado i suoi limiti negativi ed i suoi errori, grazie alle sue oscillazioni di fondo, è migliore del mito che di lui creò il «crispismo» a lui contemporaneo e quello posteriore nazional-fascista.
Si deve dire, e con forza, che Crispi non aveva l’animo e le ubbie di un imperialista o anche solo di un nazionalista del ventesimo secolo. Era anch’egli un figlio spirituale della Rivoluzione francese, pur così odiata da lui come da Mazzini e da altri per il suo incombere sull’anima italiana. Giacobino, giusnaturalista, non era ancora capace di respingere tutti i sogni umanitari, ad onta del conclamato realismo politico, e in ciò diversissimo da Bismarck, che di quei sogni aveva sempre riso. Il Crispi rimase sempre lontano da qualsiasi dottrina di conquista per la conquista, da ogni nazionalismo concettuale. In politica interna continuò a predicare che la libertà è «il nostro idolo, la nostra vita», a negare l’onnipotenza dello Stato, ad invocare l’Inghilterra come paese modello e a definirsi liberale progressista, avverso ad ogni dittatura e riluttante a ricorrere al carabiniere. Solo nel secondo ritorno al potere dopo il ’93, cominciò a pensare che in Italia il regime parlamentare non fosse possibile; ma anche allora protestò che egli non avrebbe mai fatto nulla contro il Parlamento, lasciando tal briga a chi fosse venuto dopo di lui: e, comunque, fra gli stessi senatori e deputati la sua non era, certo, una voce isolata. Il regime costituzionale alla tedesca, ch’egli auspicò dopo il ’96, non era poi cosa talmente insolita nelle discussioni di quei giorni, e non ad opera del solo Sonnino.
«In politica estera – osserva Federico Chabod – rimase dottrinalmente fermo all’ideale della nazionalità, e sinceramente protestò il suo amore per la pace e il suo riluttare dalla guerra, anche dalla guerra con la Francia che sarebbe stata una guerra civile. I tempi del totalitarismo, Führer-prinzip e spazio vitale, non erano ancora giunti; il suo pensiero fu dunque lontano non diciamo dalla dottrina fascista ma anche dal nazionalismo alla Corradini e perfino dagli accenti antiumanitari e antidemocratici di un Oriani» (Storia politica estera italiana dal 1870 al 1896, I ed.., 1951, vol. II, p. 601). Crispi, insomma, fu autoritario in pratica: ma ideologicamente non giunse mai a rinnegare i principi che aveva additati alla Sinistra del 1876: «Spesso gli autoritari parlano dei diritti dello Stato. Questo è un errore. Lo Stato non ha diritti e non può averne. Esso riceve una delegazione dal popolo per l’adempimento delle funzioni che gli vengono attribuite…». Certamente la sua fu una politica estera dominata dal miraggio della grandezza del proprio Paese; ma concettualmente egli non osò rinnegare apertamente l’ideale della fratellanza dei popoli. Lo mise, però, sempre più tra parentesi, sì che mentre Mazzini diceva: «Senza Patria, non è possibile ordinamento alcuno dell’Umanità. L’Umanità è il fine, la Nazione il mezzo», per Crispi e per i suoi amici l’Umanità come fine tendeva sempre più a scomparire a vantaggio di quel soverchio orgoglio nazionalistico, che poi nel secolo XX avrebbe conferito tragica realtà al monito di Grillparzer: «Dall’umanità, attraverso il nazionalismo, alla bestialità». Crispi non vide dove portava l’esaltazione del nazionalismo esasperato e pertanto, malgrado il sopraggiunto distacco da Mazzini, frammischiò nei suoi giudizi la valutazione della pura potenza a criteri di segno opposto. Insomma l’ammiratore di Bismarck non riuscì mai del tutto a far tacere nella sua coscienza la voce dell’apostolo genovese.

Giornale di Brescia, 9, 10 e 15 maggio 1993.