Cultura radicale e crisi contemporanea

Il primo assioma: “mensuro ergo sum”

Per capire la crisi della nostra cultura e in particolare il filone nichilista si deve risalire a due assiomi veramente molto nuovi nella storia della cultura occidentale.

Il primo, formulabile così, in latino: mensuro ergo sum (misuro e dunque ho potere), comincia a circolare a partire dal galileismo, cioè a partire da quella grande cesura nella teoria della conoscenza che si produce nei primi anni del Seicento.

Qual è questa cesura? Il mondo veniva prima percepito sulla base di un organo, il corpo stesso dell’uomo; veniva dunque percepito, per esempio, come colorato, come duro, come “a forma di cavallo” quando si incontrava un cavallo. La gente si fidava di queste essenze filtrate dal corpo dell’uomo e che, in quanto percepite attraverso il corpo, erano sempre in qualche modo a forma di uomo: erano antropomorfiche.

La natura era dunque fatta di essenze, di qualità, e queste erano relative al modo in cui l’uomo le percepiva; essere saggio significava saper leggere queste essenze, che venivano riconosciute nella realtà circostante. Con il Seicento a questa percezione attraverso il corpo dell’uomo si sostituisce la misurazione delle semplici quantità, in altre parole, il fisicalismo epistemologico, cioè la riduzione della conoscenza alla fisica.

Nel Settecento si aggiunge l’idea che questa riduzione alla quantità debba conferire potere sulla natura e debba essere utilizzata per acquisire potere sulla natura. Cioè, al fisicalismo teorico si aggiunge una intenzione tecnica di dominio sulla materia.

Già i pitagorici avevano ridotto tutto a matematica, pensando che con i numeri si potesse spiegare il mondo; tuttavia volevano utilizzare questa quantificazione in vista di ascese mistico-sapienziali. Gli enciclopedisti e gli illuministi dei Settecento, invece, riprendono l’insegnamento di Francesco Bacone: “l’importante non è conoscere il mondo, ma trasformarlo” e capiscono che si tratta di investire queste conoscenze quantitative nel dominio sulla natura.

L’Ottocento apporta un terzo elemento: l’organizzazione industriale del dominio sulla natura. Si perfeziona così la forma di pensiero, che io chiamo scientismo tecnologico, riassumibile in questo assioma: “misuro, quindi ho potere”. Mediante l’organizzazione industriale diventa possibile dominare la natura e manipolare integralmente l’essere circostante; a poco a poco si è in grado di dare forma, come se si trattasse di materia plastica, a tutto ciò che ci circonda.

Quelle vecchie essenze, che in qualche modo erano immutabili e normative, sulle quali dovevo regolarmi o secondo la natura dell’uomo o secondo la natura delle cose (il logos implicito nelle cose), appaiono ora come casuali, modificabili, e non soltanto per ciò che riguarda la natura materiale, ma anche per quanto riguarda l’uomo, come singolo ed in società. Pensate, ad esempio, alle manipolazioni biologiche, pensate alla clonazione, alla possibilità di ottenere, sulla base di una cellula di un solo maschio, la fecondazione di un ovulo femminile, dal quale si svilupperà un essere umano identico a quello che ha ceduto la cellula, come un gemello monocoriale.

Un dittatore potrebbe per esempio desiderare che vi fossero 100.000 suoi gemelli, oppure scegliere il più robusto e conformista degli operai, mettiamo Stakanov, e prelevando 5000 cellule (il che non è nulla) da questo Stakanov, fecondare 5000 donne ed ottenere operai identici agli Stakanov che vuole…, oppure potrebbe prendere il più vigoroso e acritico dei contadini o il più scattante e conformista dei poliziotti e decidere esattamente che tipo di persone vuole produrre.

Lo stesso vale sul piano sociale: la rivoluzione è un concetto tipicamente moderno che estende alla società il tipo di intervento che si fa sulla natura in laboratorio. Mentre la società antica si doveva uniformare al logos, doveva riflettere in qualche modo un ordine cosmico preesistente e quindi si poteva tutt’al più immaginate una ribellione o una rivolta, nell’epoca moderna nasce l’idea di rivoluzione, che concepisce la società come un prodotto dell’uomo. Sia la natura che il singolo e la società possono essere prodotti o riprodotti secondo un disegno dell’uomo. E’ chiaro che, non essendoci più essenze normative a cui fare riferimento, si può prendere l’uomo o la società e trasformarli in qualcosa d’altro.

Su questa base di scientismo tecnologico e di fisicalismo possono innestarsi tutte le morali, le politiche e i diritti che l’uomo crederà bene d’inventare. Per questo tipo di conoscenza sono equivalenti tutte le possibili filosofie pratiche; e, come direbbe Kant, su questa ragione teoretica potrebbero innestarsi tutte le immaginabili ragioni pratiche.

A questo proposito possiamo parlare di “non cognitivismo etico” o anche di “nichilismo morale”, nel senso che qualunque morale è equivalente. La scienza può produrre il mostro e il superuomo, l’atomica o la bomba al cobalto; di per sé la ragione scientifica non è vincolata ad alcun assioma morale per cui si possono inserire con uguale legittimità un principio come quello di Camus: “considera l’altro uomo come fine e mai come mezzo” o il principio del marchese Sade: “considera l’altro come mezzo e mai come fine”. Considerare l’altro come fine significa secolarizzare il principio cristiano “ama il prossimo tuo come te stesso” che, da principio rivelato, diventa principio della ragione laica; considerare invece l’altro come mezzo presuppone la teorizzazione del soggetto assoluto.

Il secondo assioma: “volo ergo sum”

Volo ergo sum, non cogito ergo sum: io, infatti, non avendo normativa depositata in me da un Dio, da una legge cosmica, da un logos, da un significato preesistente a cui devo uniformarmi, “sono ciò che voglio essere”, sovrano, manipolatore, autore, creatore di me stesso.

Dei passi nettissimi in tutto il pensiero moderno, per esempio in Nietzsche o in Marx, o anche in Sartre, mostrano chiaramente questa sovranità assoluta, affermando che “io non ho una natura, io sono una storia, sono autore della mia storia, sono ciò che voglio essere”.

Allo stesso tempo la sola conoscenza possibile è quella che porta alla misurazione ed al dominio tecnologico sulla natura; uscendo da questo tipo di conoscenza si hanno solo delle preferenze, delle opzioni.

Così la morale kantiana del rispetto dell’altro diventa, in pratica, un postulato, cioè qualche cosa che non può più essere fondato. Considerare l’altro come fine, amare l’altro come se stesso e tutti i comandamenti morali che possono derivarne sono delle scelte, le quali non scaturiscono più dalla conoscenza, né dalla natura, né dalla volontà di Dio. E’ chiaro che sia la natura che Dio vengono eliminate quali entità normative.

Proseguiamo dunque un momento secondo la linea di questa scelta del soggetto assoluto, il quale può essere sia microindividuale che macroindividuale o collettivo. Il soggetto microindividuale appare essenzialmente nel Settecento: è il libertino di Sade, per prendere l’autore più tipico. I soggetti assoluti macroindividuali appaiono nell’Ottocento e sono la nazione e la grande industria paleocapitalista (quella di tipo rockfelleriano); nel Novecento, poi, troveremo la razza e la classe. Sono tutti soggetti che, come nel caso del libertino individuale, applicano coerentemente il principio “considera l’altro come mezzo e mai come fine”; quindi la politica di potenza dello stato nazionalista consiste nel considerare tutte le altre nazioni come semplice strumento.

Naturalmente anche tutte le altre nazioni dicono “Io” e, rispetto a questo “Io”, gli altri sono solo strumenti o vittime. Lo stesso vale per la grande impresa, finalizzata al profitto, che dice “Io”, mentre tutti gli altri sono da distruggere, da superare o da strumentalizzare. Quando si passerà alla razza, vi sarà una razza superiore, una razza che dice “Io” e sarà di nuovo la stessa cosa.

Infine, il soggetto assoluto può essere collettivo, ed in questo caso le sue vittime non sono più dei soggetti esterni, ma sono coloro che ne fanno parte. Questa concezione del soggetto assoluto è tipica del marxismo, secondo il quale il soggetto assoluto è il produttore collettivo, demiurgo che deve far accedere l’umanità alla “superumanità” attraverso il lavoro collettivo. Marx dice del soggetto collettivo quello che Nietzsche, prolungando Sade, dice del soggetto individuale. Questo soggetto collettivo applica una sovranità totale nei confronti dei dissenzienti interni, che inceppano il processo di ascensione alla superumanità.

Se una classe, nel suo insieme, è l’antagonista di questo soggetto deve essere sterminata; basti pensare a quello che hanno fatto Lenin, nei confronti della nobiltà e della borghesia, o Stalin qualche anno dopo, nel 1929‑30, nei confronti dei piccoli contadini che non volevano collettivizzare le loro terre e che sono stati sterminati (è il più grande sterminio documentato fino a questo momento nella storia dell’uomo: da 10 a 15 milioni di kulacki sono stati eliminati da Stalin). Quello che hanno fatto i Paesi nazionalisti verso l’esterno viene fatto dal soggetto collettivo verso l’interno.

 Il soggetto assoluto della cultura radicale

E’ chiaro che il radicalismo si colloca in modo molto più appropriato nel prolungamento del nichilismo microindividuale. Il soggetto assoluto che viene teorizzato nella cultura radicale è il piccolo soggetto individuale ed il suo antenato è precisamente il libertino del Seicento e poi dell’illuminismo ateo (della mano sinistra, come lo chiamo io) culminante in Sade. Ci sono poi dei prolungamenti nell’Ottocento, per esempio in Stirner e in Nietzsche, e nel Novecento in Sartre ed in altri.

Ora cerchiamo di riflettere un momento su come si organizza la rappresentazione del mondo di questo soggetto.

Esso divide il mondo in uno sfondo ed in un proscenio. Lo sfondo è costituito da una natura inerte, attivissima se vogliamo, ma impersonale, una natura che non è nient’altro che cava di materiale e riserva di energia; questo mondo, privo di senso e di valore normativo, è lo stesso che voi trovate, per esempio, in Leopardi, cioè la famosa natura cieca, il mondo-macchina del modello cartesiano e poi meccanicista. Estremamente interessante è il fatto che di questo sfondo facciano parte anche tutti gli altri uomini, tutti gli altri soggetti.

Sul proscenio esiste invece il soggetto che dice “Io” e questo soggetto è assoluto. Il mondo, quindi, si divide esattamente in un protagonista, anzi monagonista, unico attore, unico soggetto attivo, ed in uno sfondo, costituito da tutta la natura e da tutti gli altri uomini che sono considerati parte della natura da sfruttare. Essi possono essenzialmente fornire il piacere. Gli altri esseri umani, quindi, in questa visione, sono delle riserve di piacere, o attraverso il loro servizio nei confronti del soggetto assoluto o attraverso le prestazioni fisiche che possono essere loro richieste.

Sembrerebbe quindi che il soggetto assoluto raggiunga un’assoluta libertà. Difatti, se voi prendete la presentazione che fa di Sade un suo entusiastico ammiratore, Gilbert Lely, vi trovate: “con il vocabolo ateismo l’autore di Juliette intende biasimare anche, e furiosamente, tutto ciò che per lui si presenta come un ostacolo alla nativa libertà dell’uomo”. Sade contro Dio è Sade contro la monarchia assoluta, è Sade contro Robespierre, è Sade contro Napoleone, è Sade contro tutto ciò che costituisca, direttamente o meno, una interferenza di qualsivoglia natura nei confronti della soggettività umana. Egli infatti afferma il soggetto “contro tutte le limitazioni della sua potenza e della sua libertà”. Così, per esempio, questo eroe libertino dirà che sarebbe sciocco avere più pietà della moglie che del pollo sgozzato per il proprio pranzo; sono l’una e l’altra bestie di servizio, bisogna servirsene, dunque, e impiegarle all’uso indicato dalla natura senza far differenza.

Questa superiorità assoluta del soggetto sugli altri si manifesta, per esempio, nel privilegiare in modo assoluto e sistematico la sodomia nel rapporto sia omo che eterosessuale. Il partner è succube, nel senso etimologico, è privato del volto e dello sguardo, organi della reciprocità, ed è passività pura, materiale per alimentare il fuoco della passione. La posizione fisica nel rapporto implica proprio questo rifiuto dell’incontro, la sterilità del rapporto, il rifiuto dell’impegno. Anche posto che tutti e due godano, il rapporto si scinde sempre in una situazione o posizione attiva ed in una situazione o posizione passiva; tuttavia, è molto meglio che l’altro non goda perché, dice Sade, non c’è nulla che esalti il senso di potenza del soggetto quanto godere mentre l’altro non gode e soffre. Il soggetto di questo genere finisce per essere un soggetto solo, solipsista, perché è unico; la sola presenza di un altro soggetto nel suo mondo lo priverebbe di quella sovranità di cui egli vuole godere. Questo è stato descritto da Sade in certi passi dove si vede benissimo che nel mondo del bambino, come nel mondo del soggetto assoluto, quand’io mi sento padrone ed entra un altro (che sia il fratellino o chiunque altro) cosicché il mondo si viene decentrando metà intorno a me e metà intorno all’altro, io odio l’altro per questo decentramento del mondo che da lui procede.

A questo punto si direbbe che il contrasto soggetto-sfondo sia nettissimo, invece lo stesso Sade si accorge che in definitiva il soggetto si riassorbe nell’omogeneo universale e trionfa lo sfondo. Il libertino assoluto scopre così che gusti e passioni sono molto meno capricciosi e soggettivi di quanto sembra, e che in realtà sono le funi attraverso le quali il soggetto letteralmente “è mosso” dal burattinaio che è la natura. I passi di Sade in questo senso sono numerosissimi: “siamo travolti da una forza incoercibile e mai un istante padroni di determinarci se non per inclinarci dove siamo inclinati: possiamo forse cambiare i nostri gusti? possiamo diventare altri da quello che siamo? lo esigereste da un uomo deforme?…”. Quindi tutti i gusti sono legittimi e il soggetto può fare soltanto quello che i suoi gusti gli dettano, perché avere certi gusti significa essere totalmente determinati e non poter fare nient’altro. Sade arriva a dire che l’uomo dotato di gusti singolari è un malato; “è mai venuto in mente di polemizzare con un malato o di punirlo? Te lo ripeto, siamo forse padroni dei nostri gusti, non dobbiamo sottometterci a quelli che la natura ci ha dato proprio come sotto la tempesta si piega la testa orgogliosa della quercia?”. Ecco che quella libera attività finisce per rovesciarsi in assoluta passività. E ciò è logico perché siamo in un universo deterministico, e l’uomo è una macchina all’interno del mondo macchina.

Vediamo alcune delle conseguenze pratiche ed anche delle contraddizioni che nascono dal considerare il soggetto assoluto come un organo della natura.

Tutte le azioni diventano indifferenti, non c’è né bene né male; ecco allora che il sadico comincia a divertirsi molto meno, perché faceva parte essenziale del suo piacere la trasgressione; ma se non c’è più niente da trasgredire non c’è più piacere.

Costituisce fonte di piacere la profanazione: per esempio, privare della verginità una fanciulla; ma se la verginità di per sé non è che un fatto fisico, profanare quella fanciulla non ha nessun interesse; fa parte del piacere bestemmiare, dice Sade, ma, se Dio non esiste, io bestemmio il nulla; oppure può far parte del piacere compiere atti irripetibili – pensate a tutte le perversioni immaginabili – ma se non c’è differenza tra il nobile e l’ignobile, il pulito e lo sporco, l’onesto e l’osceno, non esiste più perversione. Ecco che a poco a poco tutte queste differenze si vanificano e subentra un’universale entropia o un’universale apatia che riduce enormemente la voluttà.

La libertà quindi si capovolge in sudditanza alle passioni e l’eccitazione derivante dalla trasgressione si spegne nell’entropia. Il mondo a poco a poco diventa privo di senso, e difatti il libertino deve ricorrere per far risorgere il piacere ad eccitazioni sempre più prodigiose, più macchinose e più improbabili.

Alcune conseguenze di carattere sociale

Vediamo qualche proiezione sociale di questo atteggiamento del soggetto assoluto. Una prima conseguenza sarà il programma di tipo anarchico, secondo il quale al soggetto verranno tolti tutti i doveri e non sussisteranno che i suoi diritti; ma, che cosa succede quando si parte dall’idea che tutti hanno solo dei diritti? Diventa impossibile imporre ad altri dei doveri.

Che cosa vuol dire un diritto? Diritto significa che io posso esigere qualche cosa da qualcuno; quindi di fronte ad un diritto c’è sempre un obbligo o un dovere per qualcun altro.

Teorizzare una società di “sempre più diritti per tutti” è urla contraddizione di termini: se avranno più diritti i malati negli ospedali significa che avranno più doveri i sanitari e gli infermieri; se hanno più diritti i viaggiatori hanno più doveri i ferrovieri, e così via; non è dunque possibile aumentare i diritti per tutti. Ecco quindi una prima insuperabile contraddizione logica: una società in cui si rivendicano sempre più diritti per tutti, è, per così dire, un cerchio che si vuole rendere sempre più quadrato: o diventa quadrato, ed allora non è più un cerchio, o resta cerchio, ma non diventa quadrato. L’obbligazione viene mutata nella sua essenza: c’è obbligo soltanto verso il più forte, obbligo che è la soggezione di chi è suddito, simile a quella per cui una pietra viene rigata o spaccata da una pietra più dura o più pesante, o a quella per cui il pesciolino più piccolo, diceva Spinoza, viene mangiato dal pesce più grosso. Obblighi non esistono, cade la regola aurea “fa’ all’altro quello che vorresti fosse fatto a te” o “non fare quello che non vorresti fosse fatto a te”.

La società diventa a poco a poco invivibile; pensate ad una società in cui io non so mai se posso fidarmi dell’altro. Le cose che egli mi dice o fa non hanno mai il significato apparente ma possono avere i significati più strani; per esempio, il guidatore del treno potrebbe accettare di guidare il treno per poi buttarsi giù quando il treno parte e produrre un meraviglioso scontro per il suo piacere. Tutti i delitti sono consentiti: viene teorizzato sistematicamente l’aborto, l’infanticidio, il parricidio, la tortura. I figli devono essere messi al mondo solo per approfittarne sessualmente. Insomma i diritti si ampliano all’infinito, ma sono diritti apparenti, di fronte ai quali non vi sono né doveri né obblighi.

Un altro assioma di questo tipo di società è: “tutto è permesso”. Che cosa vuol dire che una cosa è permessa? Che è vietato impedirla. Per esempio, se mi e permesso andare a spasso la sera vuol dire che è vietato ad altri impedirmi di andare a spasso la sera; se uno mi dice: “a me non va, non devi andare a spasso la sera perché mi sei antipatico”, io gli rispondo: “guarda, siccome è permesso, se non ti spiace chiamo la polizia che ti impedirà di impedirmi di andare a spasso”. Se invece è permesso proprio tutto, come mi è permesso di andare a spasso, è anche permesso di impedirmi di farlo, altrimenti reintroduciamo la repressione. Un assioma della filosofia giuridica dice che non esiste un diritto se di fronte non vi è un obbligo o un dovere; parallelamente un altro assioma afferma che non esiste un permesso se non vi è anche un vietato; è vietato impedire ciò che è permesso.

Quindi teorizzare una società in cui tutto è permesso significa anche teorizzare una società in cui nulla è garantito. Ciò significa che vi è una inflazione apparente dei diritti i quali tuttavia non aggiungono nulla alla portata della forza dei singoli soggetti. Viene così svuotata qualunque fattispecie giuridica astratta. In una società di questo tipo le uniche figure giuridiche che sopravvivono sono il più debole ed il più forte.

Rimangono quindi due soli tipi che si spostano continuamente. Per esempio, nei libri di Sade ci sono una serie di passi che riconoscono “l’assurdità dei poteri riconosciuti ai genitori di fronte ai diritti dei figli”, perché in quel momento il soggetto che dice “Io” è un figlio, e in parallelo si trovano una quantità di passi che dicono: “i genitori hanno diritto assoluto di vita, di morte, di sfruttamento, di approfittamento sessuale sui loro figli” perché in quel momento il soggetto che dice “Io” è una madre o un padre. Quindi l’unico soggetto giuridico che sopravvive è un “Io mobile”, il “momentaneamente Io” che ora è un figlio, ora un genitore, ora un padrone di casa, ora un inquilino, ora un omicida, ora un giudice, indifferentemente. Quindi, anche sotto questo aspetto, ci si rende conto che i diritti non sussistono più perché non si sa nemmeno a chi attribuirli: non ci sono più i diritti del proprietario, c’è la forza del più forte.

Possiamo quindi provvisoriamente concludere che in una società di questo tipo, nella forma logica del libertinismo assoluto, non c’è più soggetto perché esso è suddito delle passioni con le quali deterministicamente è manovrato dalla natura. Non ci sono più i diritti del soggetto, perché di fronte ai diritti non vi sono dei doveri e perché le cose che sono permesse a questo soggetto non sono in nessun modo garantite e possono essere impedite da chiunque. Siamo in un mondo senza diritti e senza diritto.

Bisogna dunque distinguere molto rigorosamente libertario, o libertino, da liberale; l’antropologia liberale infatti è una antropologia del limite; l’antropologia libertaria, al contrario, è una antropologia della mancanza di limite, del soggetto illimitato. Questo soggetto illimitato, tuttavia, quando entra in contatto con gli altri, non è più in realtà nemmeno un soggetto. A questo punto l’assassinio, la sodomia, qualunque genere di comportamento sono permessi; Sade vuole conseguentemente abolire il diritto penale.

 Il nucleo di verità del radicalismo

Si può salvare qualcosa di questa assolutizzazione del soggetto individuale? Qual è il nucleo di verità del radicalismo?

Una prima cosa da salvare è la critica ai totalitarismi, anche se è priva di fondamento e istintiva. E’ una critica del tutto infondata, perché se più forte è il soggetto collettivo, in mancanza di criteri di valore, non si vede perché non dovrebbe prevalere.

Sul piano istintivo, comunque, non c’è dubbio che un radicale può fare meno paura di un collettivista in quanto, dal momento che egli si fa i fatti suoi, in teoria dovrebbe lasciarmi fare i miei.

Proviamo a descrivere tre tipi di società dal punto di vista della libertà: Gulag, Babele e Pleroma.

Gulag, lo sapete tutti, è il campo di concentramento. Una verità ufficiale, la stessa per tutti, viene emanata dagli altoparlanti e sotto la luce dei riflettori, l’ideologia illumina tutto, fruga tutto e tutti devono ripetere le parole d’ordine che vengono dagli altoparlanti.

In Babele tutti i discorsi possono essere fatti, ma nessuno li capisce, in quanto sono discorsi che uno fa addosso a se stesso: ci sarà il cenacolino radicale, ci saranno i cattolici da una parte, ci saranno i marxisti dall’altra, ci saranno i freudiani, gli ecologi, quelli che faranno la messa con sacrifici infantili. Ognuno fa completamente i fatti suoi. Babele è già meglio di Gulag, perché, per esempio, mentre alcuni fanno le messe nere io posso organizzarmi la mia messa tradizionale. Ma questa libertà “babelica” non è la libertà a cui ispirarsi, verso cui andare.

Chiamerei la terza struttura Pleroma. Pleroma è una espressione di San Paolo che vuol dire “pienezza”. San Paolo parla di ciò che rende completo ed è portato alla sua misura piena nella Epistola ai Colossesi e nell’Epistola agli Efesini. Nel Pleroma tutti i discorsi vengono fatti e tutti i discorsi vengono capiti e approfonditi, entrano in comunicazione, tendendo alla pienezza della verità.

I radicali introducono un principio di critica al Gulag; vediamo se ci dicono qualcosa anche nella concezione della libertà. Credo che si possa così schematizzare la filosofia della libertà: la libertà classica, quella greca e poi cristiana ed anche buddista, erano una libertà dagli istinti; la libertà moderna, radicale, è invece la libertà degli istinti. Ora, anche se a mio giudizio resta vero che la libertà autentica è la libertà dagli istinti, è anche vero che la libertà giunta alla sua pienezza ridiventa in qualche modo anche libertà degli istinti.

L’uomo emancipato è liberato da ogni condizionamento, da ogni confessione religiosa, da ogni morale positiva, da ogni tabù sociale, dal diritto, dalle inibizioni psicologiche: è liberato totalmente dalla legge in ogni sua forma. Quest’uomo presenta, in negativo, alcuni di quelli che potrebbero essere, in positivo, i connotati di un saggio pervenuto al di là dell’opposizione del bene e del male, o cristianamente, di un redento dalla schiavitù della legge, di un vivente secondo lo Spirito. Anche nel nuovo Testamento, per esempio nell’Epistola ai Romani o ai Galati, troviamo l’idea che la legge uccide, che la legge rivela il male dell’uomo e non gli dà la forza di superarlo, mentre ben diverso è vivere secondo lo Spirito di Gesù Cristo, che è venuto a portare la libertà dei figli di Dio, la confidenza totale nel rapporto con Dio, che è un rapporto filiale e non più tra schiavo e padrone.

La libertà che sta al di là è quella, per esempio, del grande sciatore che scende come danzando, e, pur rispettando integralmente tutte le norme di come si scia, in realtà non ne rispetta nessuna, perché a questo punto non pensa alle norme, ma semplicemente fa la sua discesa. Così nella grande esecuzione musicale non c’è una sola indicazione dello spartito che sia trascurata, ma si sente ormai che l’esecutore si muove con perfetta libertà.

Allo stesso modo il punto d’arrivo nel campo del sesso non è certamente la fobia devota del sesso, ma è qualcosa come una santa disinvoltura, l’omnia munda mundis.

In qualche modo questa santa disinvoltura è prefigurata dalla libertà del libertino, e possiamo dire che questa libertà a volte impudente, questa abolizione dei tabù ci l’anno sentire nella nostra inibizione qualche cosa di non superato, qualche cosa di eteronomo. La vera libertà è al di là e non al di qua delle fedeltà familiari, delle rinunce di un cuore indiviso, della disponibilità uguale verso gli attraenti ed i non attraenti, e perfino delle goffe, ma necessarie cautele ed inibizioni di chi non si illude su di sé.

Chi è perfettamente libero sta al di là della legge e della croce proprio perché è arrivato alla libertà passando attraverso la legge e la croce; questo vale anche per le grandi culture orientali secondo cui la libertà del monaco è qualcosa che sta al di là della vita del padre di famiglia, non al di qua.

Un’altra caratteristica della società radicale è il tendere al superamento di tutte le forme di esclusione sociale e di discriminazione: lo schizofrenico vale esattamente come il sano, il diverso vale come il normale, il capace vale come l’incapace, l’invertito vale come l’eterosessuale, perché non c’è più nessuna normalità normativa.

Questo tipo di non discriminazione ci può insegnare qualche cosa anche se c’è un prezzo da pagare; se infatti tutti i mondi soggettivi, tutte le saggezze si identificano e tutte le follie si equivalgono, abbiamo qualcosa di simile ad una società onirica.

Ma nei sogni non ci si incontra: abolita in nome dell’assurdo universale la distinzione vero-falso o buono-cattivo, si rientra nel surrealismo, sull’onirico e sul surreale non si edifica il mondo in comune, la comunicazione, il mondo sociale. Quindi, se da un lato raccoglierei l’invito a non discriminare, cercherei di fondarlo in modo diverso, cioè sulla carità e non sull’equivalenza di tutte le esperienze (per cui l’esperienza omosessuale è perfettamente equivalente all’esperienza coniugale, l’esperienza schizofrenica è perfettamente equivalente a quella dello scienziato ufficiale ecc.).

Raccoglierei anche il suggerimento ad una certa insubordinazione creativa di fronte a tutti gli apparati che tendono ad incapsularci; per esempio, l’invito a non cadere in quel “processo di cretinizzazione” (dicevano i surrealisti) a cui il marxismo è esposto, nella misura in cui vuole ridurre la trasformazione dell’uomo al riflesso di una rivoluzione intesa puramente nel senso economico-politico. In definitiva questo insistere sulla libertà ci ricorda una verità molto profonda, una delle idee che ho sempre trovato tra le più belle nella filosofia scolastica: noi siamo radicalmente liberi perché siamo fatti per Dio.

Siamo liberi perché non troviamo mai in questo mondo un oggetto proporzionato all’intera ampiezza, all’intera estensione e profondità dei nostro desiderio: se non fossimo fatti per Dio, coincideremo con la nostra natura animale che è fatta per mangiare, bere, accoppiarsi, riposare, avere una certa temperatura, un certo tipo di luce, e, una volta riunite queste condizioni, noi saremmo tranquilli. Siamo liberi perché siamo inquieti e siamo inquieti perché inquietum est cor nostrum…: siamo fatti per Dio. Quindi la libertà del radicale non è la libertà “radicale”. La nostra libertà radicale non è fondata nel non senso, ma è fondata nel nostro essere fatti per un senso totale e assoluto.

Un’ultima osservazione. La vera libertà non nasce dal vuoto, ma nasce dal pieno, anche sul piano culturale. C’è una libertà puramente negativa: “io non so nulla, non sono informato di nulla e mi comporto come capita”. E’ la libertà dell’ignorante, che semplicemente non ha preconcetti perché non ha concetti, non ha pregiudizi perché non ha giudizi. Al contrario, ci può essere una libertà di secondo grado che deriva da un massimo di informazione e che, su dei principi di conoscenza sempre più diversificati, al tempo stesso necessari ed apparentemente incompatibili, mi colloca come in un “luogo del non magnetico”.

Si costituisce così un luogo di equilibrio, in cui capisco la profonda legittimità del cristianesimo, ma capisco anche l’anima di verità del buddismo, della scienza moderna, della metafisica greca, fra i quali può darsi che per molto tempo non sappia fare una sintesi.

In questo stato di pienezza di informazione è possibile che il mondo si presenti come estremamente problematico e sia costretto a fare una sintesi nuova, una sintesi mia che non trovo preconfezionata da nessuna parte. In una situazione di questo genere sono necessitato ad essere libero. Ecco di nuovo una libertà di secondo grado che è, nel campo intellettuale, quello che la libertà al di là degli istinti era in campo morale.

Direi che, tendenzialmente dobbiamo orientarci verso questa libertà, perché sappiamo tutti che il cristianesimo è “già” la verità, ma “non ancora” tutta la verità, per cui ha bisogno di integrazione creativa, che si può avere solo nella pienezza della verità, nel Pleroma, e non soltanto in un conformismo confessionale.

NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 26.1.1981 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.