La giustizia internazionale condizione di pace

Ho accettato l’invito a venire nella vostra città, per parlare di libertà, di pace e di giustizia[2]. Mi sembra fondamentale unire indissolubilmente quei tre valori perché senza di essi la vita non è degna di essere vissuta. In queste settimane sono successi degli avvenimenti che mi hanno dolorosamente riportato indietro nel tempo, facendomi ricordare le vecchie sofferenze. Anche ora vi è stata una selezione proprio come ai tempi dell’impero delle SS: come allora, infatti, sulla nave “Achille Lauro” sono stati individuati e isolati gli ebrei esattamente come succedeva quarant’anni fa.
Allora ci si domanda se milioni e milioni di esseri umani siano morti per niente e se sia stato tratto alcun insegnamento da una sofferenza così abissale. E’ molto importante sottolineare che io non faccio di un governo, di una nazione, di un popolo tutto un fascio. Per me queste tre entità sono distinte, non identiche. Quindi la decisione presa dal governo italiano riguardo al capo stesso del commando, su cui cade la responsabilità dell’azione criminale compiuta sull'”Achille Lauro”, non toglie nulla alla simpatia che ho per gli italiani.
In una intervista pubblicata sul “Corriere della Sera” mi è stato chiesto cosa possiamo fare oggi per combattere il terrorismo. E’ molto difficile vivere con il terrorismo. Molti infatti vedono il terrorismo come una malattia, una specie di influenza, che non è mortale e che permette quindi di sopravvivere. Io, invece, vedo il terrorismo come un tumore, una malattia che porta alla morte. Se è così, il terrorismo va anche trattato come un tumore: individuato per tempo, infatti, può anche essere curato, perché quando un pericolo è conosciuto ne risulta dimezzato. Ci sono tanti istituti che fanno ricerche sui tumori e che spendono per questo milioni e milioni. Ma io mi chiedo se non sia il caso di create degli istituti anche per il cancro del terrorismo. Questo, secondo me, è un problema troppo importante per lasciarlo interamente in mano alle decisioni dei politici: ritengo dunque fondamentale l’intervento di studiosi, di sociologi e politologi per capire la natura e le cause del male che avvelena la società contemporanea e per individuarne la terapia più efficace.
Oggi non esiste solo il terrorismo arabo, ma esiste anche quello di altri paesi come l’Italia, la Germania, la Spagna, l’Irlanda, la Francia ecc. Molte persone muoiono a causa di questa grossa piaga; ma, non sempre, né esclusivamente il terrorismo è di matrice araba, anche se spesso esistono forti legami tra le varie forme del terrorismo.
Le guerre modificano le carte geografiche. Se si dovesse restituire ciò che si è riusciti a guadagnare con il proprio sangue, tutte le carte geografiche dell’Europa e del mondo intero dovrebbero essere modificate.
Oggi si chiede ad Israele di restituire questo piccolo territorio con la convinzione che, una volta restituito, nel mondo, non ci sarebbero più problemi. Ma l’Unione Sovietica ha forse restituito le proprie terre e ha forse ridato libertà ai paesi baltici? E l’Italia ha restituito l’Alto Adige all’Austria? No. Le frontiere conquistate con il sangue sono frontiere considerate sacre. L’unica eccezione dovrebbe essere quella degli ebrei: gli ebrei, come al solito, dovrebbero pagare per tutti.
Io non sono nemico degli arabi, non sono nemico di particolari nazioni e anzi, subito dopo la guerra, sono sempre stato contrario ad addossare il concetto di colpa collettiva al popolo tedesco. La Bibbia ci dà più di un esempio al riguardo e ci insegna a non criminalizzare un’intera nazione. Abramo chiede a Dio di non distruggere una intera città colpevole perché in questa città ci potrebbero essere cinquanta, venti o anche meno persone rette che non meritano punizioni e la Bibbia, ricordiamolo, ci offre un insegnamento che deve valere per sempre. Quando io, nei miei viaggi, vado in Israele o quando parlo a studenti arabi in America, dico sempre che ebrei e arabi sono costretti, condannati a vivere insieme; quindi bisogna che parlino tra loro per affrontare il futuro insieme e non gli uni contro gli altri. E’ assurdo, è insensato continuare a spararsi a vicenda. Facciamo un esempio dell’Italia: vent’anni fa in Alto Adige ci sono stati attacchi terroristici, ma il popolo italiano non si è lasciato sopraffare, il problema è stato risolto, offrendo alla minoranza tedesca ogni effettiva garanzia a salvaguardia della sua autonomia, e l’Alto Adige è oggi parte integrata all’Italia. Questo è ormai un angolo d’Italia e d’Europa dove regna la pace, anche se forse c’è ancora qualche pazzo che sogna massacri al plastico. Ma non ha importanza, perché il problema globale è stato risolto. E’ indispensabile dunque porre fine al terrore e trovare degli interlocutori fra i palestinesi affinché si scopra insieme un modus vivendi.
Miei cari amici, permettete che io svolga la relazione che mi avete affidato e che vi mostri come sono giunto a maturate le mie convinzioni, parlando della mia vita. Ho trascorso quattro anni e mezzo in dodici diversi campi di concentramento. Alcuni mesi dopo la guerra, quando ritrovai mia moglie, la prima sera che fummo insieme, ci mettemmo a fare un elenco delle persone care ancora in vita e ci accorgemmo che solo nelle nostre due famiglie ben ottantanove persone erano morte. Il giorno più brutto dopo la guerra fu quando mia figlia, che allora aveva dieci anni, venne a casa poco prima di Natale e mi chiese: “Noi che gente siamo? (Era l’unica bambina ebrea in quella scuola). Perché tutti i miei compagni hanno nonni, nonne, zii e cugini da andare a trovare a Natale e noi non abbiamo nessuno?”.
Questa è stata l’unica volta che ho pianto: non avevo infatti il coraggio di spiegare ad una bambina di dieci anni perché non aveva più nessuno e così telefonai a un amico di Vienna pregandolo di chiamare il giorno dopo, spacciandosi per un suo cugino. E con questo imbroglio andammo avanti quattro anni: tra i miei amici inventai parenti distribuiti in tutto il mondo. Solo a quattordici anni, quando mia figlia fu in grado di capire, ebbi il coraggio di raccontarle tutta la verità; questo perché volevo evitare che mia figlia vedesse il mondo popolato da assassini.
Quando fui liberato dal campo di concentramento ero uno dei tanti scheletri viventi; io sono alto 1,80 e pesavo 44 chili. Venni fotografato dagli americani che mi avevano liberato e mi chiesero chi ero, da dove venivo, che cosa facevo. Risposi che ero architetto; allora mi venne detto che sarei stato portato in un sanatorio e dopo sarei tornato in Polonia a costruire case. Mi guardai attorno e, vedendo tanti altri scheletri viventi, mi venne spontanea una domanda: “Si può dopo Auschwitz continuare la vita dal punto in cui è stata interrotta con violenza e con forza?” Naturalmente no. Per caso venni a sapere che la commissione che si occupava dei crimini di guerra era proprio in quel campo di concentramento. Sperai così di poter realizzare il sogno che avevo nutrito quando ero nel campo di concentramento. Contattai gli americani, spiegando loro che non sarei potuto tornare in Polonia perché tutto, in quel paese martirizzato, ogni località, ogni sasso, ogni albero, mi avrebbe ricordato ciò che ora non esisteva più. Quando si è perso tutto, si perde anche la fiducia nell’amicizia, nel progresso e nella giustizia e ci si rende conto che per vivere non basta avere qualche cosa da indossare, da mangiare o un tetto sotto cui riparare. Per vivere è necessario aiutare a costruire la giustizia, perché senza giustizia non può esserci libertà e senza libertà non può esserci pace. Forse allora ero un po’ naïf. Ero, infatti, convinto che sarebbero bastati tre o quattro anni per creare una nuova società, per punire i colpevoli e pensavo poi di tornare a svolgere il mio lavoro di architetto. Io amo il mio lavoro di architetto e lavoravo con passione perché per me costruire una casa significa adeguarla alle persone che poi l’abiteranno. Purtroppo quello che avevo costruito era stato distrutto dalla guerra.
Non avrei mai immaginato che la mia sete di giustizia e l’attività che essa comportava mi avrebbero preso totalmente la vita. In questi quarant’anni i miei amici ed io abbiamo consegnato alla giustizia circa millecento criminali. Ma il mio lavoro non è stato soltanto questo: io, infatti, ho dedicato due anni a cercare assassini che abbiano ammazzato italiani, (ad esempio i soldati uccisi nell’isola di Cefalonia), slavi, russi, zingari, ecc. perché tutte le vittime del nazismo meritano rispetto ed esigono la punizione dei loro assassini. Oggi purtroppo la giustizia internazionale è gravemente intralciata e in taluni casi sabotata. Com’è noto, ogni nazione ha una competenza giuridica all’interno delle proprie frontiere. Può infatti perseguitare criminali comuni, gli assassini, i falsari, ecc. mentre a livello internazionale esiste l’Interpol, con sede a Parigi. Ora fanno parte dell’Interpol numerose nazioni occidentali insieme a paesi arabi e africani. Per prendere una decisione nell’Interpol è necessario che tutte le nazioni siano d’accordo e noi, purtroppo, non siamo riusciti a convincere gli Stati dell’America Latina e gli Stati Arabi a perseguire i criminali nazisti.
Se io guardo ai miei quarant’anni di attività, vedo che siamo riusciti a consegnare alla giustizia numerosi criminali, ma il loro numero è incomparabilmente piccolo rispetto a quello degli operatori di iniquità che meritano di essere presi e posti dinanzi alle loro tremende responsabilità. Gli alleati dell’Est e dell’Ovest hanno cercato i criminali nazisti solo i primi tre anni dopo la guerra: poi è intervenuta la guerra fredda, che è durata dodici anni. In quel tempo i nazisti trovarono riparo e furono persino utilizzati in ognuno degli opposti schieramenti. Così i nazisti dal 1948 al 1960 hanno potuto uscire dalle prigioni e dai nascondigli rifugiandosi nell’America del Sud.
All’inizio della guerra fredda io mi trovavo a Norimberga e non riuscivo a capire che cosa stesse succedendo e per quale motivo non veniva più celebrato alcun processo nei confronti dei criminali nazisti. Così mi rivolsi a un generale americano, il quale mi rispose testualmente: “Ma lei vive nel mondo della luna? Non capisce che noi americani in Europa abbiamo solo delle piccole unità? Se non facciamo attenzione, lo ‘zio Jo’ (così veniva chiamato Stalin) allunga le sue mani sull’Europa e ci ritroviamo tutti in Siberia”. Ciò significava che senza la Germania non era possibile difendere l’Europa e quindi senza i generali tedeschi non si poteva formare un esercito. Questo fu il motivo per cui non si poté continuare la ricerca dei criminali nazisti. Solo al termine della guerra fredda, cioè verso il 1960, l’Europa si rese conto del grave peccato di omissione commesso e la Germania per prima comprese che era necessario recuperare il tempo perduto. Nel frattempo, in questi dodici anni, i nazisti si erano messi al sicuro in tutto il mondo. Con la fine della guerra fredda ha inizio un’altra fase più favorevole alla giustizia internazionale. Tuttavia sono sorte delle difficoltà anche sul concetto stesso di criminali di guerra. Il termine “criminale di guerra” è, infatti, da un certo punto di vista errato o impreciso, perché in realtà i crimini i nazisti li iniziarono sei anni prima della guerra, soprattutto nei campi di concentramento e di annientamento. Questi campi di concentramento esistevano per i cosiddetti, nemici interni, coloro che rifiutavano la dittatura nazista o che erano discriminati per motivi razziali. La guerra estese all’Europa il regno del terrore, la scienza della barbarie sino all’accecamento totale. Si giunse al punto che nel ’42 e nel ’43 molto spesso i trasporti verso Auschwitz avevano la precedenza sui trasporti militari che spostavano munizioni e rifornimenti militari, tanto i nazisti erano convinti che occorreva portare alle estreme conseguenze il loro programma di annientamento totale.
Un’altra difficoltà è sorta nell’interpretazione del codice penale: quando questo è stato formato, nel secolo scorso, il concetto di “sterminio di massa” ancora non esisteva. Per “omicidio di massa” infatti si intendeva quell’omicidio commesso da uno psicopatico, da un pazzo, che uccide a caso una decina di persone o il raptus del marito che uccide moglie, suoceri e figli. L'”omicidio di massa” vecchio stile implica ancora che vi sia un rapporto umano fra l’assassino e la vittima, perché anche l’odio in fondo è un rapporto umano; mentre questa nuova forma di assassinio compiuta dai nazisti era un assassinio deciso a distanza, a tavolino, e comandato per telefono o con un dispaccio. Era sufficiente, infatti, una firma, una telefonata, (come è successo per i 9.000 martiri di Cefalonia) o un telegramma e, a centinaia o migliaia di chilometri, potevano venire uccisi dieci, venti, centomila persone le quali non sapevano assolutamente chi aveva stabilito che loro dovessero morire. Non vi era, dunque, alcun rapporto tra la vittima e l’assassino.
Quando vado in tribunale come testimone o semplicemente per ascoltare un processo, vedo talvolta, specialmente nei vecchi tribunali, il simbolo della giustizia che è costituito da una bilancia sui cui due piatti stanno ben equilibrati il crimine da una parte e la giustizia dall’altra. Io dico sempre al giudice di togliere questa bilancia, ma il giudice normalmente rimane allibito perché non capisce che in questi casi non è possibile emettere un giudizio equo. Come si fa ad emettere un giudizio equo quando l’accusato ha ucciso diecimila esseri umani? Per esempio, l’agente di Eichmann, Novak, ha trasportato ad Auschwitz 1.700.000 persone ed ha scontato solo sei anni di prigione. Un insegnante di matematica mi ha raccontato un giorno che i suoi genitori furono trasportati ad Auschwitz da Novak ed ha calcolato (per questo non serve il computer) che per i suoi genitori Novak ha scontato solo mezzo minuto di prigione. Per questa ragione affermo che non può esistere una pena equa per i criminali nazisti.
Spesso mi viene chiesto il motivo per cui io continuo nella mia ricerca. Io rispondo sempre che non si può non continuare perché significherebbe dar ragione agli assassini che sono ancora in vita in America Latina, in Australia, in Germania, in Austria, un po’ dappertutto sotto falso nome. E’ importante, dunque, che la nostra ricerca continui e procuri incubi e notti insonni agli assassini. Questo fa parte della pena: devono sapere che c’è sempre il rischio d’essere ritrovati e questo può anche essere un monito per gli assassini di domani, che oggi operano in Europa e in altre parti del mondo. Per esempio, noi dopo quarant’anni siamo riusciti a catturare degli assassini a 12.000 km. di distanza, è necessario perciò continuare la ricerca, perché altrimenti milioni di esseri umani sarebbero morti per niente. Dobbiamo inoltre proteggere i giovani d’oggi perché capiscano di non aderire ad ideologie che accettano la dittatura: la dittatura comporta sempre, prima o poi, il crimine, la morte e quindi l’annientamento della giustizia.
Desidero concludere recandovi ancora una testimonianza personale, che ha cambiato la mia vita. Nel 1947 mi dissero che in Carinzia c’era un castello che aveva una biblioteca piena di libri ebraici; sapevo che in molti castelli i nazisti avevano nascosto questi libri perché avevano intenzione, una volta estirpata la razza ebraica, fra cinquanta o cento anni, di farne un museo. Oltre ai libri avevano conservato moltissime fotografie e scheletri che avrebbero costituito questo museo ebraico. Il fatto che sto raccontandovi è avvenuto in una fredda giornata di marzo del ’47, quando io e tre rabbini ci siamo recati al castello e ci siamo accorti che era effettivamente stracolmo di libri ebraici, dalla cantina al solaio. Ci saranno stati più di diecimila libri. Ad un certo punto ho sentito un tonfo: mi sono girato e mi sono accorto che uno dei tre rabbini era svenuto. Una volta ripresosi, mi mostra un libro: era il libro sacro della sua famiglia con una dedica di sua sorella che portava questa scritta: “Chi trova questo libro deve consegnarlo a mio fratello. Gli assassini sono già qui intorno alla nostra casa, ma è importante che mio fratello non si dimentichi degli assassini”. Il messaggio scritto da una sorella per suo fratello io lo sento come un messaggio che ci viene da tutti i morti. Esso è come un testamento universale recante un preciso monito: “Non dimenticateci e non dimenticate i nostri assassini!”. Quel giorno decisi che, finché avrò la forza fisica per farlo, andrò avanti per eseguire il testamento che ci è affidato da milioni di vittime innocenti.

Note:

  1. L ‘illustre ospite aveva iniziato la sua conversazione con queste significative espressioni di saluto: “Sono veramente molto felice di vedere che ci sono così numerosi giovani in questa sala per incontrare un vecchio come me, ormai alla conclusione del suo lungo viaggio. E’ veramente un vivo piacere poter rivolgermi a persone che potrebbero essere miei nipoti. Io conosco Brescia, non solo geograficamente o storicamente, ma dai tempi della mia sofferenza; infatti nei campi di concentramento ho avuto occasione di incontrare anche dei bresciani e di quei tempi loro ed io abbiamo un ricordo comune, incancellabile. Nell’immenso calvario dei lager c’erano tanti uomini e donne, gente di ogni ceto sociale e numerosi erano i preti cattolici. I morti sono stati milioni e i sopravvissuti sono stati segnati per sempre da quella tragica esperienza. Voi siete accorsi in tanti oggi in questo stupendo, vasto Salone Vanvitelliano, insieme al vostro Sindaco, senatore Padula, accogliendo l’invito dell’Assessore ai Servizi Sociali, dott. Luigi Morgano, e di una libera, coraggiosa associazione culturale, nel ricordo di quelle sofferenze e dei martiri che hanno testimoniato con la vita quanto vale la libertà. E io so che questo sentimento è sempre molto vivo a Brescia”.

2. testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura il 16.10.1985.