La paideia cristiana di Agostino

LA PAIDEIA CRISTIANA DI AGOSTINO[1]

 I. Le «Confessioni»

A quarantatré anni, dodici dopo la conversione, Agostino scrisse le Confessioni per lodare Dio e per aprirsi al genere umano al cospetto di Dio. Intorno ai settantaquattro anni, quando si volgerà a giudicare le sue opere in quella specie di ‘contributo alla critica di se stesso’ che sono le Ritrattazioni, dirà delle Confessioni: «esse mi commuovono ancora quando le leggo, così come mi commuovevano quando le scrivevo» (Retr. 11, 32). Le Confessioni sono, più del De civitate Dei e del De Trinitate, l’opera sua di maggior risonanza. Esse costituiscono un unicum, un’opera di così intensa originalità che «invano si tenterebbe di incasellare in un genere letterario»[2]. Ed infatti «nessun libro più delle Confessioni scalza con tanta abilità artistica quelle che sono le premesse di una biografia convenzionale»[3]. Si comprende allora la ragione per cui i numerosi e dotti tentativi di contrarre quel libro in uno schema rigido ed estrinseco non potevano dare risultati attendibili e non giovano molto alla sua lettura. Manifesto della vita interiore, capolavoro di autobiografia intellettuale, le Confessioni sono altresì uno dei più alti documenti di pedagogia in azione (X, 3, 3 e 5, 7) e una fonte di straordinaria ricchezza per chi vuol cogliere l’uomo nella concretezza esistenziale del suo divenire e nelle profondità abissali del suo spirito. Mai prima un uomo si era trovato di fronte alla sua anima come in questo libro, in cui le esperienze originarie sono rese evidenti. «Agostino trova, infatti, frasi di mirabile semplicità per dire in poche parole ciò di cui gli uomini fino ad allora non avevano avuto coscienza. Egli pensa nella forma di un processo che avanza interrogando, di un interrogare che apre il campo, di un interrogare, cui non si possono dare risposte semplicistiche»[4]. Colui che ha potuto scrivere: «Sono entrato in ciò che ho di più mio» (intravi in intima mea, Conf. VII, 10, 16) non è solo il primo psicologo moderno, ma il più grande metafisico dell’esperienza interiore: egli penetra i fenomeni psichici reali che descrive, illumina le strutture e i dinamismi dell’uomo, fa della presenza dell’anima a se stessa il punto di partenza del nostro autentico conoscere e agire, il centro di focalizzazione dell’umano esperire, la via insostituibile per mettere in valore la dignità di ogni persona. Qui, come mai prima nella storia del pensiero, l’uomo, divenuto per se stesso motivo di sorpresa e di stupore (factus ipse mihi magna quaestio, Conf. IV, 4, 9), si interroga sul mistero della propria condizione.

  1. L’infanzia e la fanciullezza

Con animo trepido Agostino indaga i doni che una nuova esistenza reca con sé ed insieme le prime manifestazioni difettose («Ho visto e considerato a lungo il piccino in preda alla gelosia: non parlava ancora e già guardava pallido il fratello di latte», I, 7, 11), che bisogna tollerare con indulgenza, non perché siano inconsistenti, ma perché destinate a scomparire col crescere degli anni. L’apprendimento del linguaggio avviene in maniera «naturale», mentre le vie dell’apprendimento a scuola sono «penose», moltiplicando inutilmente la fatica e la sofferenza dei figli degli uomini, senza che neppure i genitori se ne rendano conto. Agostino denuncia le barbare usanze disciplinari che imperversavano nelle scuole (I, 9, 14-15) e altrove precisa che «lo stesso imparare, a cui i fanciulli sono costretti con castighi, è castigo così grave che talvolta essi preferiscono sopportare il castigo stesso anziché imparare» (De civ. Dei XXI, 14). Arriva persino a scrivere: «Se uno dovesse scegliere tra la morte e il ripercorrere l’infanzia, chi non preferirebbe morire?» (ibid.). Della scuola del suo tempo si condannano non solo i castighi corporali, ma anche la costrizione nel metodo d’insegnamento.

Nella contestazione alla scuola del suo tempo, Agostino avverte – ed è fatto singolare – la privazione del gioco come misconoscimento di un diritto del bambino e del fanciullo. L’esigenza di una riforma dell’insegnamento è chiaramente invocata in nome di principi indotti dall’osservazione di fatti evidenti, irrefutabili. «Nessuno fa bene ciò che fa malvolentieri» (I, 12, 19) – osserva Agostino – e «per imparare vale più la libera curiosità che la pedante costrizione» (I, 14, 23). Un insegnamento formativo fa leva non sulla paura, ma sull’interesse effettivo di colui che apprende, sulla sua libera curiositas. L’amore per il gioco e per le vittorie esaltanti nelle gare, il gusto delle favole e delle narrazioni poetiche («piangevo la morte di Didone che avveniva per amore di Enea», I, 13, 21), una vivissima curiosità, la disobbedienza quasi esclusivamente per amore del gioco: sono tratti di una fanciullezza che non è solo quella di Agostino.

Nel preadolescente la passione per gli spettacoli, la smania di imitare gli attori, il desiderio di riuscire a primeggiare nella recitazione come nello sport si accompagnano ad una più acuta sensibilità per l’uso della parola («le parole, questi vasi eletti e preziosi», I, 16, 26). È l’età degli studi medi, della grammatica e della letteratura, nella vicina Madaura, a trenta chilometri da Tagaste. Gli insegnanti di Agostino erano indifferenti ai problemi umani dei testi presi in esame ed estranei alle attese dei ragazzi. Particolarmente ostico, alle medie, fu per Agostino l’apprendimento del greco (I, 14, 23), così come, nella scuola elementare, un insegnamento nozionistico e meccanico gli aveva fatto aborrire persino «la verità bellissima dei rapporti tra i numeri». Occorre, invece, far leva il più possibile sul naturale aprirsi della mente del discente, senza per questo elevare i suoi impulsi e interessi a criterio esclusivo del lavoro formativo. L’educazione, infatti, è sintesi feconda di spontaneità e obbligo, di libera curiosità e disciplina, di immediatezza e integrazione equilibratrice (I, 14, 23). Pensando al perché da fanciullo amasse il latino, Agostino ne indica il motivo nel fatto di averlo imparato naturalmente, attraverso il quotidiano commercio con le altre persone, «con un poco di attenzione, senza bisogno di intimidazioni e torture, anzi fra carezze di nutrici, festevolezze di sorrisi e allegria di giochi, perché il mio cuore stesso mi sollecitava a dare alla luce i suoi pensieri» (cum me urgeret cor meum ad parienda concepta sua, I, 14, 23).

 2.La crisi dei sedici anni e il risveglio della coscienza

La crisi della pubertà, tardiva e violenta, scoppia nel sedicesimo anno e si trasforma in vera e propria crisi morale, favorita anche dall’ozio forzato cui Agostino, che attendeva di proseguire gli sudi a Cartagine, è costretto dalla povertà di mezzi. Nell’adolescenza il bisogno di amare si manifesta in modo intenso ed insieme vago, incerto. «Che altro mi dilettava allora se non amare ed essere amato?» (II, 2, 2). È un sentimento diffuso e senza oggetto; «Non amavo ancora, e amavo già di amare. Amando di amare, cercavo qualcosa da amare”(III, 1, 1). Rousseau gli farà eco nell’Emilio (1. IV): «Una lunga inquietudine precede i primi desideri, si desidera senza saper che cosa». La sensualità disordinata rende la sua esistenza dispersa. È il momento del superbo rifiuto (superba deiectio) di ogni legge morale; a cui, nell’intimo, si accompagna un’inquieta stanchezza (inquieta lassitudo). Contrassegno costante dello smarrimento totale è l’incapacità di distinguere l’azzurro dell’affetto dalla foschia della libidine (II, 2, 2).

È questa l’età in cui la società dei coetanei è un reale bisogno, che però può essere parassitato e deviato dalla suggestione del gruppo. Si ride al pensiero di ingannare quanti non si aspettano da noi un certo comportamento e si gode a non agire da soli «forse perché non è facile ridere da soli» (II, 9, 17). «Vi è dunque un’amicizia inimicissima, una seduzione inesplicabile dello spirito, un’avidità di nuocere nata dai giochi e dallo scherzo. Uno dice: – ‘Andiamo, facciamo’ – e si ha pudore a non essere spudorati» (sed cum dicitur: `Eamus, faciamus’ et pudet se non esse impudentem, 11,9,17). Un gran signore di Tagaste integra i sudati risparmi di Patrizio e Monica, e Agostino può frequentare a Cartagine, che era pur sempre la vera capitale dell’Africa, la scuola di retorica. Amorazzi e gusto per gli spettacoli fanno da intervallo all’intensa applicazione allo studio. Ma solo per qualche tempo. Due fatti nuovi si verificano durante il soggiorno a Cartagine e modificano considerevolmente la sua vita. Il primo è che s’innamora sui diciotto anni di una giovinetta e l’amore, afferrando il suo animo nel profondo, ne scaccia gli amorazzi. Quella donna, innominata nelle Confessioni, gli darà un figlio, Adeodato, e Agostino, pur non essendo cristiano, a lei serbò assoluta fedeltà per quattordici anni. Il secondo avvenimento è la lettura di uno scritto di Cicerone, l’Ortensío: «Quel libro, devo ammetterlo, mutò il mio modo di sentire (ille vero liber mutavit affectum meum), suscitò in me nuove aspirazioni e nuovi desideri» (III, 4, 7).

Era la prima conversione di Agostino: dal mondo esteriore, dalla corsa al successo e ai piaceri all’interiorità della coscienza, alla passione più alta di tutte, quella della verità e della ricerca del significato. Nel giovane retore nasceva allora il filosofo.

  1. L’ideale umanistico: la sintesi di forma e contenuto

Ai suoi occhi sperimentare con intima gioia l’immanente eticità della cultura, la sua straordinaria capacità catartica era già «un cominciare ad alzarsi per andare verso Dio»; ma la via che conduce all’incontro con Dio attraverso Cristo sarebbe stata assai più lunga e difficile. Insegnante di retorica, ancor giovanissimo, nella natia Tagaste e ben presto nella metropoli dell’Africa romana, a Cartagine, Agostino diverrà titolare di quella cattedra a Milano, allora capitale dell’impero. E sarà a Milano che incontrerà Ambrogio e, attraverso i circoli culturali d’ispirazione cattolica, la filosofia di Plotino. Anche prima della conversione, Agostino non si limitò affatto a «vendere chiacchiere atte a vincere cause»: egli insegnava tanto ad acuere linguam, quanto la ricerca della vera sapientia. Egli avvertì sempre il valore positivo del suo far scuola poiché portava nell’insegnamento la sua «buona fede» (IV, 2, 2); non era tutto fumo, c’era pure qualche sprazzo di luce nel suo lavoro di professore (ibid.).

Tra i molteplici motivi di grande rilevanza pedagogica che le Confessioni offrono occorre ricordare la felice concezione che Agostino ebbe del rapporto tra retorica e filosofia. Infatti nell’antichità la cultura oratoria e letteraria non era in contrasto, come oggi, con quella scientifica, ma con la filosofia, che poneva al di sopra della eloquenza la serietà e l’impegno del pensiero. Agostino, ex-professore di retorica e vescovo cattolico, vive assai intensamente la tensione drammatica e la convergenza di retorica e filosofia. Malgrado il ricorso ad espressioni drastiche – sempre originate dalla vibrata protesta per la vacuità morale che si accompagna all’estetismo e a quella specie di ignoranza fastosa che è l’erudizione fine a se stessa – Agostino era troppo colto e di animo elevato per ignorare il valore delle lettere, i diritti della poesia, la funzione umanizzante della cultura. Egli confessava: «dai versi, dalla poesia posso anche trarre un reale alimento» (versus et carmen etiam ad vera pulmenta transfero, III, 6, 11). In realtà la soluzione che Agostino dà del problema rifugge costantemente sia dal sincretismo compromissorio, sia dagli esclusivismi settari: occorre invece riscoprire e far proprio l’universalmente umano che brillò anche in epoche pagane, abbandonare al passato il male e valorizzare sempre tutto ciò che è buono. «Un argomento esposto non deve sembrar vero perché esposto eloquentemente, né falso perché le parole escono confusamente dalla bocca: ma neppure vero perché espresso rozzamente, né falso perché è forbito il discorso. La sapienza e la stoltezza sono come dei cibi utili e nocivi: possono essere somministrati con parole ornate o disadorne, così come su piatti signorili o rustici» (V, 6, 10). L’ideale a cui tendere rimane quello di fondere in sintesi armonica forma e contenuto, retorica e filosofia, coscienza estetica e coscienza etico-religiosa. I più grandi umanisti – da Petrarca a Pico della Mirandola, da Marsilio Ficino a Erasmo da Rotterdam – non avranno altro programma e nutriranno le stesse aspirazioni. In ogni caso nelle Confessioni quella sintesi è stata realizzata a un livello altissimo, poiché in essa la massima artisticità serve a dar voce alla più autentica e profonda interiorità [5].

  1. Un’intuizione decisiva: il rapporto tra scienza e fede

In polemica con i manichei – la cui gnosi presumeva di spiegare con assoluta razionalità le realtà divine e i fenomeni fisici – Agostino denuncia «l’audacia sfrontatissima» di quei credenti che osano incorporare al dato rivelato una teoria o un’ipotesi scientifica, piegando la Scrittura ad un compito che le è del tutto estraneo. Nuoce e molto ai cristiani confondere la scienza, vera o presunta che sia, con l’insegnamento religioso e affermare con ostinazione quanto si ignora. Non esiste una rivelazione religiosa dei fenomeni naturali ed è pertanto assurdo attribuire alla Scrittura una rivelazione cosmologica invece che morale e religiosa. «Quando sento parlare questo o quel fratello cristiano che è inesperto nelle scienze e in esse ha idee sbagliate, io – incalza Agostino nelle Confessioni – considero le sue opinioni con pazienza; né vedo come gli nuoccia l’ignorare accidentalmente la posizione e la condotta di enti corporei, creati da te, allorché su di te, Signore, creatore di tutto, non abbia opinioni sconvenienti. Gli nuoce, invece, il pensare che la scienza faccia parte proprio dell’insegnamento religioso e l’affermare con sfrontata ostinazione quanto ignora» (V, 5, 9). È questa una lucida, radicata convinzione di Agostino che egli ripropone in testi diversi. «Attribuire alla Scrittura dati scientifici è delirare, è far ridere» giunge a scrívere nel De Genesi ad litteram (I, 19). E nel Contra Felicem: «Non si legge nel Vangelo che il Signore abbia detto: – ‘Vi mando il Paraclito perché vi insegni come camminano il sole e la luna’. Egli voleva fare dei cristiani, non degli astronomi» (I, 10).

Agostino scriveva queste cose undici secoli prima di Galilei e lo scienziato pisano trarrà proprio da Agostino citazioni quanto mai calzanti a sostegno della sua tesi sull’autonomia delle conoscenze scientifiche e sull’intendimento specificamente religioso della Bibbia, la quale non ha lo scopo di determinare «le costituzioni e movimenti de’ cieli e delle stelle». Nella Lettera a madama Cristina di Lorena, del 1615, Galilei riprende il principio agostiniano della rigorosa distinzione di ambito, di finalità e di metodo tra scienza e fede, facendo sue le parole che dice di aver inteso dal cardinal Baronio, secondo cui «l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al cielo e non come vadia il cielo». Galilei concordava perfettamente con il santo dottore quando nella Lettera a monsignor Piero Dini, del marzo 1615, affermava che bisogna andare con molta circospezione «intorno a quelle conclusioni naturali che non sono de fide, alle quali possono arrivare l’esperienza e le dimostrazioni necessarie». La Scrittura, insomma, non deve venir impegnata da fallibili interpreti su questioni risolvíbili dalla ragione umana e delle quali si possano una volta o l’altra «aver dimostrazione in contrario». Se i giudici di Galilei avessero avuto la consapevolezza profonda che Agostino aveva della Scrittura, messaggio di salvezza che non prefissa i risultati alla ricerca umana, non si sarebbero certo arrogati un’autorità in un campo in cui non erano competenti a giudicare[6].

II. «Curiositas», ragione strumentale e sapienza

  1. Il conoscere fra ricerca del vero e curiosità

Qualcuno ha insinuato che «con il progredire dell’età la posizione di Agostino sul valore e sulla funzione della cultura classica si è fatto intollerante ed esclusivista». Il documento-base su cui fondare una tale asserzione sarebbe la Lettera 118 indirizzata a Diòscuro, un letterato greco che risiedeva in Africa e che Agostino aveva conosciuto a Milano quando insegnava retorica. Un attento esame della Lettera 118, scritta nel 410, quando Agostino aveva cinquantasei anni, porta invece a conclusioni perfettamente coerenti ai giudizi espressi una decina di anni prima nelle Confessioni. Agostino rimprovera a Diòscuro non l’amore per il sapere, ma al contrario la superficialità e la sconvenienza di cui ha dato prova pensando che quesiti intricati, troppo numerosi, talora insulsi e peregrini, possano essere esaminati e sciolti in gran fretta, su due piedi, da un uomo torchiato da «pressanti occupazioni» e in quel momento malato. L’intento dichiarato di Diòscuro è di «non voler passare per ignorante e stupido» agli occhi di alcuni amici; la qual cosa appare ad Agostino francamente puerile, ridicola, inutile, frivola. La dignità della cultura non può confondersi con la vanità letteraria ed esige ben altre motivazioni. «Non t’accorgi – incalza Agostino – che si fa beffa di te proprio il tuo Persio, scagliandoti quel suo verso: Scire tuum nihil est, nisi te scire hoc sciat alter? (Il tuo sapere è forse nulla, se altri non sa che tu sai?)». Nella risposta di Agostino l’excursus filosofico è ampio e penetrante perché riguarda problemi fondamentali e non oziose questioncelle; tuttavia il santo vescovo rifiuta di entrare in dettagli eruditi o di azzardare ipotesi interpretative, in primo luogo perché non ha tempo e poi perché, alla sua età, preferisce «trattare e risolvere un problema considerandolo in se stesso» (5, 34). Interessanti infine ci sembrano la constatazione secondo cui «ormai nessun errore osa più alzare il capo per trascinarsi dietro folle di ignoranti senza coprirsi del nome cristiano» (5, 32) e l’invito a combattere con tutte le forze della ragione in difesa di quella verità a cui la fede ci ha innalzato, una volta che i deboli ed i vacillanti siano stati messi al riparo.

Il tema etico-pedagogico che emerge dalla Lettera 118 ricorre nelle Confessioni, come in altre opere del Nostro ed in particolare nel De Trinitate, ed è quello della curiositas. La curiosità tende a presentarsi come se fosse una sola cosa con il desiderio di conoscenza e con l’atto stesso del conoscere (curiositas affectare videtur studium scientiae, Conf. II, 6, 13), la caratteristica che meglio attesta la singolare specificità dell’uomo nel mondo. La capacità dell’uomo di stupirsi e di interrogarsi è cosa molto bella e grande e, come tutto ciò che è propriamente umano, comporta una costitutiva ambivalenza, la possibilità di un uso positivo e di uno sviluppo perfettivo o del loro contrario. Quando si verifica in concreto la possibilità del negativo, l’originario, schietto desiderio di conoscenza non è più espressione di libera curiositas, tramutandosi in vizio morale dell’intelligenza e della ragione, in vana sed peritura curiositas. Sono modalità di quest’ultima il puro sperimentare che abolisce per principio ogni distinzione tra bene e male, la disordinata bramosia di provare e di conoscere qualsiasi cosa (experiendi noscendique libido, Conf. IX, 35, 55), l’attrazione verso il patologico e lo stravagante, il ricorso alla superstizione e alla pseudo-scienza (ad esempio, l’astrologia).

  1. Le conoscenze relative ai bisogni dell’uomo e l’orizzonte della «ratio superior»

Al contrario, le manifestazioni del bisogno dell’uomo di conoscere cose e situazioni e di orientarsi tra esse non sono di per sé riconducibili alla curiosità; lo diventano, quando certe forme di conoscenza tendono a chiudersi in un’autosufficienza ingannevole, in un assurdo processo di esclusione di ciò che è altro e di assolutizzazione del proprio ambito di ricerca. Nell’esercizio della sua razionalità l’uomo si applica innanzitutto a conseguire conoscenze particolari, su oggetti determinati e per fini pratici. È, questa l’attività propria della ragione strumentale o ratio inferior, la quale, come l’intelligence bergsoniana, esplica il suo officium, la sua funzione, in temporalibus rebus (De Trin. XII, 2, 2 e 3, 3). E tra le cose temporali in cui la ragione strumentale può mostrare le sue grandi potenzialità rientrano le istituzioni umane. Le istituzioni umane, meravigliose e mutevoli da popolo a popolo e in ognuno dei popoli, sono molteplici, abbracciando campi assai diversi, dalla struttura di una lingua alla produzione artistica, dagli ordinamenti economici e sociali alle tradizioni popolari, dal tipo di legislazione all’uso dell’una o dell’altra tecnica (Agostino era entusiasta dell’invenzione della stenografia). Sarebbe assurdo un qualsiasi atteggiamento di chiusura o di disinteresse verso questo mondo umano. «Il cristiano non ha alcuna ragione per sfuggire le istituzioni umane che giovano all’esercizio stesso del vivere. Egli deve, al contrario, nella misura dei bisogni dell’uomo, farne oggetto del suo pensiero e impossessarsi delle conoscenze relative» (De doctrina christiana II, 25, 40).

Le funzioni della ratio inferior possono essere di diversissima natura e qualità; e tuttavia anche delle conquiste utili, affascinanti e preziose – se cercate soltanto per il dominio pratico delle cose – si deve ricordare l’ambivalenza sempre in agguato. Chi delle sue stesse conquiste non conosce il limite intrinseco, rischia di non farne l’uso migliore. Mancando una più alta e umana integrazione, esse rischiano di mutilare l’uomo, diventando il tutto della sua esperienza, il suo stesso orizzonte. Fermarsi alle conoscenze particolari o alle leggi dei fenomeni, tendendo anche a una doverosa sicurezza metodica, e non risalire alla natura e alle condizioni originarie di esercizio dell’intelligenza (non enim quaerunt, unde habeant ingenium, quo ista quaerunt, Conf. V, 3, 4), significa smarrire quel senso della primalità del soggetto conoscente sul dato da esperire, senza di cui non si dà processo di unificazione interiore. E poiché il vivere influisce sul cogitare, lasciandosi assorbire da quegli oggetti che pensa e ai quali si attacca con tanta sollecitudine, lo spirito si aliena e si rappresenta come oggetto tra gli oggetti, dimentico della sua destinazione essenziale, del suo legame costitutivo con se stesso e con Dio. Certamente può l’uomo multa vera de creatura dicere (Conf. V, 3, 5); ma egli non cerca nemmeno più, e quindi non trova, né se stesso, né la Verità autrice della creazione e illuminatrice della mente, se non pone in esercizio l’altra dimensione del suo spirito, la più profonda: la ragione schiettamente noetica, la ratio superior, che «ci unisce e sottomette alla verità intelligibile e immutabile», l’intelletto che ci fa intuire le verità più alte, i valori più universali. Il retto uso della ratio inferior costruisce la scienza quello della ratio superior la sapienza. «Le scienze servono a evitare la superstizione, ci fanno conoscere aspetti oggettivi della realtà creata e quanto è stato acquisito nel corso dei tempi dall’ininterrotta ricerca degli uomini» (De doctrina christiana II, 27, 41). Tuttavia la scienza senza la sapienza non basta e può diventare pericolosa, fuorviante; essa è, invece, a suo modo benefica, se dominata dall’amore che edifica (De Trin. XII, 14, 21). Senza dubbio «una parte della nostra attenzione razionale, cioè dello stesso spirito, deve essere diretta verso l’uso delle cose mutevoli e corporee, senza di che non si può vivere questa vita» (De Trin. XII, 13, 22) e non ci si può orientare in essa. L’errore sta nel trasformare uno strumento in un orizzonte esclusivo, una parte nel tutto, nel porre il nostro unico fine in beni finiti e strumentali «deviando su di essi il nostro bisogno di felicità» (in ea detorquendo beatitudinis appetitum, De Trin. XII, 13, 21). «In Dio la scienza è identica alla sapienza, nella mirabile semplicità della sua natura» (De Trin. XV, 13, 22); per noi non è la stessa cosa essere, conoscere ed essere sapienti. L’armonia, meglio ancora la simbiosi di scienza e sapienza è un compito, un dover essere, un traguardo per ogni epoca storica e per ogni uomo. Agostino insiste con particolare forza nel richiamare sia la distinzione che l’auspicato «matrimonio» tra la ragione volta al dominio dei fenomeni e la ragione noetica (De Trin. XII, 12, 19), affinché il misconoscimento dell’una o dell’altra funzione non comprometta l’unità della persona. L’uomo è l’unico animale che deve continuamente diventare ciò che è, conquistare sempre di nuovo la sua unità interiore e il suo giusto ruolo nel mondo. L’ideale educativo non esige l’esclusione o il conflitto dei valori, ma la loro logica, vigorosa integrazione perché uno è lo spirito umano nella distinta molteplicità dei suoi atti e delle sue attività, l’armonia è la legge suprema della vita spirituale e vi è una naturale gerarchia di livelli e di gradi degli esseri e delle stesse attività dello spirito. L’unità a cui tendere non è mai irrelata, senza articolazioni e tensioni dialettiche in un pensatore come Agostino, così attento alla complessità della vita umana.

Dissipati gli equivoci di cui si alimenta l’interpretazione della paideia agostiniana come «monocentrismo culturale»[7] caratterizzante un’epoca di decadenza, è bene ricordare che nella critica della curiositas Agostino ebbe illustri predecessori. Basti qui ricordare la brillante critica eraclitea della polimazia. Tuttavia in Agostino questo aspetto della sua concezione ha un eccezionale rilievo, perché serve ad esprimere l’aperta rottura con le illusioni e gli errori che parassitavano la cultura classica. L’acquisizione rigorosa di ciò che andava condannato e superato nella tradizione culturale greco-romana facilitava nello stesso tempo il riconoscimento grato, ampio e generoso della eredità positiva che la coscienza cristiana accoglieva dal passato, per rifonderla e darle nuova vita. Accadeva così che nella cultura cristiana e nella stessa educazione, nell’età della patristica, si realizzava – secondo l’immagine suggerita dal Marrou – una situazione analoga alla pseudo-morfosi di certi minerali che mutano la loro stessa composizione chimica, pur conservando la primitiva forma cristallina; sì che reale è con il cristianesimo l’irruzione del nuovo e reale è la continuità storica, la persistenza delle strutture della cultura classica. Di più: Agostino, denunciando errori ed illusioni della cultura antica, individuava le tentazioni ricorrenti di ogni cultura: l’estetismo, il culto dell’arte per l’arte, il dilettantismo, l’erudizione fine a se stessa e staccata da ogni palpito di vita, la tendenza a trasformare la cultura in una specie di ‘religione della cultura’, l’idoleggiamento del passato. Agostino, se lo si legge attentamente, esprime con chiarezza l’equilibrio dinamico del cristiano tra scienza e sapienza, tra ragione attiva e ragione contemplativa (De Trin. XII, 12, 19), tra la conoscenza e il dominio pratico delle cose di questo mondo e i valori che costituiscono la meta stessa dello spirito umano, che li fa suoi nell’atto di amarli e di realizzarli, senza tuttavia poterne mai esaurire l’infinita essenza. «Quanto facciamo razionalmente nell’uso dei beni temporali, lo facciamo senza cessare di contemplare i beni eterni da conseguire, passando attraverso quelli, unendoci a questi» (De Trin. XII, 13, 21).

III. La prima istruzione cristiana

Un diacono di Cartagine, Deogratias, scrive ad Agostino per fargli conoscere le difficoltà che incontra nell’iniziare i nuovi convertiti alla conoscenza del messaggio cristiano. La risposta di Agostino fu un prezioso opuscolo, il De catechizandis rudibus, in cui sviluppa una teoria della catechesi per coloro che sono principianti (rudis significa appunto principiante, inesperto, novizio) con finissime osservazioni psicologiche e metodologiche. Nella prima parte Agostino confida alcune sue esperienze e illustra, unitamente al contenuto della catechesi, scandito nella narratio e nella exhortatio, il metodo che giudica migliore; nella seconda propone due schemi di catechesi, un modello lungo e uno breve. Nell’Indiculus di Possidio, compilato con tutta probabilità sulla scorta di un indiculus originario della biblioteca personale di Agostino, il De catechizandis rudibus è elencato al primo posto dopo le Confessioni; la composizione risale, in effetti, intorno all’anno 400 e fu portata a termine in un tempo breve.

  1. Adeguarsi agli interlocutori e non scoraggiarsi

Il primo problema è chi sono i principianti, per adeguare alle loro esigenze il tipo di iniziazione cristiana. Se numerosi, occorre rivolgere loro una specie di discorso; se pochi, è preferibile una semplice conversazione. E qual è il loro grado di istruzione? Se si tratta di gente «il cui spirito è aperto ai grandi problemi» (15, 23), è bene parlare brevemente, fuggendo ogni apparenza di ricercatezza, evidenziando la sublime semplicità della Scrittura. A quelli di media cultura, talvolta tentati di essere pretenziosi, si farà gustare la solidità del messaggio biblico e l’utilità di andar oltre la lettera per afferrare lo spirito di esso. Bisogna accostarsi alla parola di Dio da spiriti vigilanti e non da sonnambuli o da esteti (5, 9 e 6, 10). «Sappiano che debbono preferire i discorsi più veri a quelli più eloquenti, così come è meglio avere amici saggi piuttosto che belli e che per Dio non vi è altra voce che il sentimento del cuore (noverint etiam non esse vocem ad aures Dei nisi animi affectum, 9,13)». Il catechista fa bene a preoccuparsi se non riesce a rendere attivamente partecipe l’uditorio, ma sbaglia di grosso se cede allo scoraggiamento.

Tre sono i motivi che spiegano un tale stato d’animo. Il primo è la differenza tra ciò che intuiamo e ciò che riusciamo a dire. Ciò che la mente capta d’un balzo, non esce dalla bocca se non con perifrasi lente e sinuose (2, 3) e se «piace istruire in modo originale, dispiace invece discorrere banalmente» (2, 4). Intuizione ed espressione si implicano a vicenda, ma non sono coincidenti. È opera di un amore umile il rivestire i propri pensieri della forma adatta a farli comprendere dagli altri. È questo il metodo stesso dell’incarnazione. Fu l’amore che indusse il figlio di Dio ad assumere la carne umana; sarà l’amore che permetterà al maestro di discendere in basso senza umiliarsi, rendendo anzi nello stesso tempo sempre più solida la conoscenza di ciò che è nel profondo: quanto officiosus descendit in infima, tanto robustius recurrit in intima. Una seconda ragione proviene dal fatto che sappiamo da tempo ciò che dobbiamo dire. La risposta di Agostino all’obiezione è che «ai fanciulli bisogna adattarsi con amore di fratello, di padre, di madre, perché quando ci saremo stretti al loro cuore, le cose che prima ci sembravano vecchie e noiose sembreranno nuove anche a noi» (12, 17). Delle grandi verità non si sa mai abbastanza e si possono cercare sempre più adeguate motivazioni. Non ci accade forse di trovare la nostra città più bella e quasi rinnovata quando la rivisitiamo insieme a un amico (12, 17)? lnsegnare una verità è per il catechista riscoprirla a un più profondo livello. L’apatia dell’ascoltatore costituisce la terza causa di scoraggiamento. Spesso il tedio dell’uditore dipende dallo scarso entusiasmo di chi gli parla: qui non ardescit non incendit.

Ci si deve chiedere: che sappiamo noi di preciso di quello che avviene nell’intimo di colui che esteriormente può pure apparirci distratto? È comunque possibile ravvivare l’interesse, e nei modi più diversi. Prima di tutto si deve tener conto della stanchezza fisica di chi ascolta in piedi. Perché non invitarli a sedere, come si fa nelle chiese d’oltremare? Come i principianti debbono convincersi che la fede è una scelta di vita e non una convenzione puramente umana, così il catechista non deve lasciarsi assorbire da altre preoccupazioni al punto da non dare l’importanza che ha l’annuncio delle verità che bisogna credere per esser cristiani. Non si deve esser così sciocchi da credere che un pezzo di pane sia una carità più preziosa della parola di Dio. « È necessario fugare con discrezione e delicatezza l’eccessivo timore che impedisce al principiante di esprimere il suo giudizio, facendogli capire che si trova in una società fraterna, aiutandolo a rendersi conto della sua intelligenza, sollecitandolo con opportune domande. Occorre dargli la sicurezza che può parlare liberamente, se gli pare che qualche punto debba esser discusso» (13, 18). Se la bocca dell’ascoltatore si apre non per lodare, ma per sbadigliare, vuol dire che ha bisogno di esser rianimato con battute «condite di onesto buon umore attinenti all’argomento trattato», o raccontando qualche cosa che parli al suo cuore e «soprattutto che riguardi lui personalmente, in modo che, toccato nei propri sentimenti, si faccia più attento» (13, 19). Perché la noia non sopraggiunga, «il discorso sia breve, soprattutto quando è una digressione» (ibid.).

  1. Umiltà, simpatia e spirito di letizia

Tre virtù debbono caratterizzare in modo eminente l’azione del catechista: l’umiltà, la simpatia che nasce dalla benevolenza, la letizia (hilaritas). Chi è umile è nella verità e, sapendo che le sue parole non sono mai all’altezza dell’eterna luce del Verbo, non cessa mai di muovere alla ricerca della più grande fedeltà ad essa, non si chiude mai in una pretesa autosufficienza. L’umiltà scaccia la «lurida iattanza», la tentazione di «farsi temere e amare dagli uomini senz’altro motivo, se non di trarne un qualche compiacimento» (Conf. X, 36, 59). Chi siede in cattedra può anche commettere uno sbaglio, ma conserva la sua autorità se sa serenamente correggersi; «precipitarci alla difesa del nostro errore significa, al contrario, commetterne uno più grande» (De cat. rud. 11, 16). Spesso, tornando sopra un nostro discorso, vi troviamo cose che noi stessi ripudiamo e non ci rendiamo conto del come, quando le dicevamo, abbiano potuto essere da noi accettate. Come siamo disposti a rimproverare noi stessi in silenzio, così dobbiamo, quando è necessario, riconoscere i nostri errori in pubblico. Chi può dire di non aver mai pronunciato una parola che avrebbe preferito non aver detto? «Una lode del genere sarebbe da rivolgere piuttosto a un perfetto somaro che non ad un uomo veramente saggio, che sa di poter sbagliare e che si sforza di appartenere al numero di coloro che progrediscono perché si pentono di quel che hanno detto di non buono, o sconsiderato o inopportuno» (Ep. 143, 2-3). Chi non reca di continuo un contributo alla critica di se stesso non va molto avanti[8].

Il secondo connotato dell’educatore è la benevolenza magnanima verso coloro che sono affidati al suo amore. La potenza della simpatia che si radica nella volontà di bene è così grande che suscita una vera comunione di intenti, di sentimenti, di volontà tra docenti e discenti. «Ci compenetriamo gli uni negli altri: e di conseguenza essi pronunciano, per così dire, per bocca nostra, le cose che ascoltano e noi apprendiamo da essi, in certo modo, le cose che insegnamo» (De cat. rud. 12, 17). In virtù di una disposizione d’animo abitualmente desiderosa di rendere il servizio più alto a chi è affidato a noi, occorre saper trovare le vie più idonee per dare a ciascuno ciò di cui ha bisogno e nei modi più adeguati. «Se è vero che a tutti dobbiamo uguale carità, non con tutti dobbiamo adoperare la stessa medicina. La carità infatti agli uni dà vigore, con gli altri si fa debole; cura di edificare gli uni, bada a non offendere gli altri; si piega verso gli uni, si drizza contro gli altri; per gli uni è carezzevole, per gli altri severa; a nessuno è nemica, a tutti madre» (15, 23). Il bisogno di essere amati è troppo grande nel cuore degli uomini: «un cuore intorpidito si risveglia quando sente di essere amato e uno che ardeva si accende ancora di più quando sente di essere riamato» (4, 7). «Nessun invito ad amare è maggiore che farsi avanti amando; è troppo duro il cuore che, non volendo accingersi ad amare, non voglia neppure ricambiare l’amore» (IV, 7). L’affetto dei discepoli è ricompensa grande per i docenti e tuttavia «di molto più grande amore si infiamma l’inferiore quando si accorge di essere amato dal superiore: là infatti è più gradito l’amore, ove non sgorga dall’arsura della necessità, ma trabocca per benefica abbondanza» (4, 7). Il miracolo dell’amore infinito di Dio esige un rapporto assoluto con l’Assoluto, un amore di Dio e del prossimo senza misura, che impegni tutto l’uomo. L’amore cristiano non è un sedativo e non sfuma nel sentimentalismo. È cibo ed è fuoco. «La carità deve avere a fondamento la stessa divina severità» (5, 9), precisa Agostino e questo pensiero sarà ripreso e svolto ampiamente da Kierkegaard. Meritatamente celebri sono i passi in cui Agostino esalta il valore della hilaritas nel rapporto educativo e come clima che rende efficace l’azione didattica. La letizia nasce dalla stessa gioia dell’elargire disinteressatamente. «Veramente siamo ascoltati più volentieri quando anche noi godiamo della nostra opera di insegnamento. Vibrando della nostra medesima gioia, allora anche il nostro eloquio riesce più facile e persuasivo» (2, 4). Se «Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor 9, 7) le ricchezze materiali, a maggior ragione ama il donatore gioioso di ricchezze spirituali. Agostino aveva scritto stupendamente nelle Confessioni: «nutre veramente l’anima solo ciò che la rallegra» (quippe animus pascitur unde laetatur, XIII, 27, 42).

  1. Che cosa insegnare e con quale ordine

Alla domanda «che cosa bisogna insegnare e con quale ordine», Agostino risponde collegando il contenuto della catechesi alle partizioni proprie della scuola di retorica, la narratio e la exhortatio. Coloro che cercano la Verità cristiana debbono essere tenuti lontani dalle complicazioni, dalle astrattezze, dalle pretese di una prematura sistematicità: la dottrina cristiana deve essere esposta non in forma teorica, ma in concomitanza con i fatti, esemplificata sugli avvenimenti, verificata in essi. Bisogna dare l’idea di insieme del messaggio cristiano sotto forma di una narrazione che sviluppi il tema centrale dell’amore di Dio attraverso i mirabiliora, cioè i punti culminanti e le svolte decisive che costituiscono l’ossatura della storia della salvezza. «Bisogna abbracciare l’insieme per sommi capi e in genere scegliere le cose più mirabili, che si ascoltano con più diletto e che costituiscono la stessa articolazione del racconto. Così i punti a cui vogliamo dare maggior rilievo risaltano meglio per la omissione delle altre parti» (ita et illa quae maxime commendari volumus aliorum submissione magis eminent, 3, 5). I momenti di maggior valore devono essere messi in luce, ripresi, sviluppati, offerti all’osservazione e all’ammirazione degli ascoltatori, come si fa con un rotolo di pergamena non mostrato in fretta e non rinchiuso subito nella sua custodia (3, 5). Il filo conduttore nel quale sono infilate le perle preziose della storia della salvezza è sempre e solo l’annuncio che «Dio è amore». Sta al catechista far sì che l’epopea dell’amore di Dio risplenda e desti l’amore nel cuore degli ascoltatori. L’exhortatio è più direttamente rivolta a suscitare il mutamento di mentalità e di atteggiamento pratico. Nel momento in cui ci si rapporta a Cristo, nasce per ognuno l’impegno all’imitazione, a seguire Cristo, a divenire suoi discepoli. I pre-catecumeni devono esser sollecitati ad approfondire le verità finali (giudizio e resurrezione), a vivere la speranza cristiana, a superare positivamente la possibilità dello scandalo[9]. Gli scandali possono venire da chiunque, ma soprattutto dai cattivi cristiani. Il convertito deve esser preparato a non porre nessun uomo al posto di Dio, a imitare gli uomini buoni, a sopportare i cattivi, come fa Dio stesso, ad amare tutti. «Tu non sai che cosa sarà domani colui che è cattivo oggi. Non amare certo la sua ingiustizia, ma amalo perché egli apprenda la giustizia» (27, 55). L’autore propone infine due esempi di istruzione-tipo per uomini di media cultura. Il primo, abbastanza dettagliato, va dalla creazione alla descrizione dello stato attuale della chiesa. Agostino mette in rilievo il valore della libertà, i doveri civici che impegnano la coscienza cristiana (21, 37), il senso di appartenenza alla chiesa. La catechesi di tipo breve è incentrata sul tema dell’immortalità, sul rapporto tra il primo e il secondo Adamo così come tra l’Antico e il Nuovo Testamento, sulla connessione tra preannuncio e compimento, profezia ed evento.

IV. Comprendere la Parola e annunciarla

Nella Retractationes (II, 4, 1) Agostino ci informa di aver sospeso la revisione delle altre opere per completare il De doctrina christiana interrotto a due terzi (al Libro III, 25, 35), aggiungendovi un quarto libro. La prima parte dell’opera risale all’inizio del suo episcopato, nello stesso tempo delle Confessioni tra il 397 e il 400; la seconda parte fu composta una trentina d’anni dopo, nel 426-427. Nelle Confessioni Agostino ricordava d’aver messo da parte il libro sacro perché non aveva saputo comprenderlo (III, 5, 9) e di essersi così trovato inerme di fronte alle critiche razionalistiche dei manichei. Ora, divenuto vescovo, vuole evitare che la stessa cosa accada ad altri e col suo scritto intende venire in aiuto ai volenterosi e capaci di apprendere (volentibus et valentibus discere, De doctr. chr., Prologus, 1).

  1. Due principi: il «per homines hominibus» (storicità ‑ socialità) e la liberazione delle verità prigioniere

Nel De doctrina christiana Agostino ci dà contemporaneamente una sinossi della visione cristiana della vita, «i principi dell’ermeneutica teologica» (W. Dilthey), un programma di studi profani introduttivi alla conoscenza diretta della Bibbia e, nell’ultimo libro, una vera e propria pedagogia della predicazione. Va tuttavia rilevato che l’intera opera agostiniana è permeata da una viva sensibilità educativa anche quando l’attinenza alla pedagogia degli argomenti trattati sembra essere indiretta. Il termine doctrina è infatti la traduzione letterale del greco paideia, che sta a significare educazione, formazione, cultura. In Cicerone e Quintiliano doctrina denota il processo educatívo che sviluppa e umanizza la natura; Agostino aggiunge che quel processo educativo, nella prospettiva cristiana, aiuta a risanare e a santificare.

Questo libro è «uno dei più originali che Agostino abbia mai scritto»[10]. In esso il santo dottore esprime per la prima volta la coscienza della translatio imperii dalla civiltà classica a quella cristiana[11], non nella rottura rivoluzionaria, ma nella continuità della cultura. Nel prologo Agostino si difende da possibili fraintendimenti. Egli era tanto lontano dal «fondamentalismo» del partito pagano che divinizzava la cultura tradizionale, quanto da quei cristiani che, per reazione, tendevano a demonizzarla. L’illusione dei carismatici di saltare l’istruzione o di aggirarla, come se fosse di per sé impedimento alla fede, Agostino la considera del tutto ridicola (De doctr, chr., Prologus, 5). L’interpretazione illuminata della Scrittura è sempre dono di Dio, ma nessuno può arrogarsi per principio la pretesa di avere per sé questo dono libero e misterioso senza doversi confrontare e discutere con gli altri[12]. La conditio humana trova la sua fondamentale struttura nel principio: per homines hominibus. Dio si dà «agli uomini mediante gli uomini». L’uomo non può esistere se non tra e con gli uomini. Così nascono il linguaggio, l’esperienza, la comunicazione della fede, la cultura, l’insegnare, l’apprendere. L’ordine della salvezza non abroga tale struttura; anzi «la condizione umana sarebbe avvilita se Dio si rifiutasse di indirizzare la sua parola agli uomini mediante il ministero degli uomini» (abjecta esset humana conditio si per homines hominibus Deus verbum suum ministrare nolle videretur, Prologus, 6). Senza il principio per homines hominibus verrebbe meno evidentemente il comandamento supremo della carità e non si spiegherebbe nemmeno la realtà della chiesa, in cui Dio attraverso gli uomini distribuisce il sacramento e la parola. La confutazione delle obiezioni dei carismatici e dei fideisti pone in evidenza anche la necessità di una cultura cristiana nei «tempi cristiani». «Infatti altro è sapere appena quello che un uomo deve credere per conseguire la vita beata, altro è saperlo in tal modo da mettere le ragioni della propria fede a profitto dei buoni e da difenderle contro i cattivi» (De Trin. XIV, I, 3).

La paideia cristiana è nuova rispetto a quella antica, ma si avvale dei metodi di quella ed è desiderosa di impiegarne le ricchezze a suo vantaggio. La tradizione antica svolge una preziosa funzione preparatoria con le sue tecniche e i suoi grandi apporti nell’ambito scientifico, estetico e filosofico. L’esperienza personale di Agostino ha anche qui un valore persuasivo: da Socrate, Platone, Plotino, Cicerone, Seneca gli sono venuti non pochi stimoli a cercare Dio e una vita più degna; il De oratore di Cicerone offre ottimi suggerimenti anche a chi annuncia la parola di Dio. Quali che siano gli errori, le manchevolezze e persino le perversità della cultura antica, in essa non tutto è pagano e molti elementi sono addirittura precristiani: le verità che essa intravede, dando voce a esigenze universali altissime della coscienza umana, vengono a trovarsi in spontanea sintonia con l’annuncio evangelico. I cristiani debbono liberarle dalla schiavitù dei sistemi di cui sono prigioniere e dalla loro mescolanza a errori e indegnità. In ciò Agostino è l’erede di una mentalità e di una prassi che risalgono già al primo filosofo cristiano, Giustino[13], alla scuola di Alessandria, alla patristica greca, al contemporaneo Gerolamo. «Se per caso i filosofi, ed in special modo i platonici, hanno espresso idee vere, e conformi alla nostra fede, occorre non solamente non averle in sospetto, ma reclamarle per il nostro uso» (II, 40, 60). Nel prologo al Vangelo di Giovanni è detto che il Verbo è «la luce che illumina ogni uomo e che viene a questo mondo» (I, 9) e dunque il rapporto costitutivo dell’anima al Verbo divino che rende possibile alla ragione naturale in quanto tale,  anche prima e fuori dei «tempi cristiani», la conquista di non poche verità. «Ogni cristiano deve comprendere che la verità, ovunque si trovi, appartiene al Signore» (II, 18, 28). Perché è il Verbo di Dio il solo vero maestro che illumina ogni uomo che viene in questo mondo[14]. Pertanto il cristiano, ovunque la scopre, ha il diritto-dovere di appropriarsene e di ricondurla alla divina sorgente originaria, facendola giustamente servire all’annuncío del Vangelo. É la pratica corrente della chiesa, è quanto hanno sempre fatto multi boni fideles nostri, i maestri venerati Cipriano, Vittorino, Lattanzio, Ilario tra i latini e tanti altri, tra i greci (II, 40, 61). E non ha fatto la stessa cosa proprio lui, Agostino, nei confronti del neoplatonismo (Conf. VIII, 9, 15)? Nei «tempi cristiani» in cui si vive, il recupero di ciò che di vero e giusto seppe conquistare la ragione naturale deve congiungersi allo sforzo di esplicitare e sviluppare le potenzialità culturali e formative della visione cristiana della vita. Su questa linea il De doctrina christiana prolunga il De ordine, sebbene con una più chiara consapevolezza e con un’intelligenza metodologica più scaltrita.

  1. L’intelligenza della fede non ha mai fine

Il vescovo di Ippona ha conseguito in progresso di tempo una più profonda penetrazione della Bibbia e vuole il classico cristiano per eccellenza a fondamento della vita spirituale e della formazione culturale[15]. «Tutto ciò che si può apprendere fuori della Bibbia, se dannoso vi è condannato, se utile vi è incluso, insieme a ciò che non si trova in alcun altro luogo» (II, 42-63). La vita intellettuale e morale è cristiana solo se consacrata ad alimentare in noi l’amore di Dio, sorgente di ogni essere, luce di verità, bene sommo e l’amore del prossimo che gli è inseparabilmente congiunto. La cultura, in quanto ricerca della verità e formazione di quei poteri che fanno di un essere una persona, non ostacola lo slancio dell’anima verso Dio, ma s’inserisce in esso, ne è espressione e sostegno. Una cultura intrinsecamente finalizzata all’amore di Dio e del prossimo è una cultura che unifica e non disperde, è una sintesi sempre da attuare di verità e carità, di ricerca e di servizio in una tensione dinamica che si alimenta con le sue stesse conquiste. «Se tu dici che non c’è altro da sapere, sei perduto» (In Joh. 14, 5). Il mondo della creazione non è senza voce (nihil vacat, omnia innuunt, sed intellectorem requirunt, In Joh. 24, 6), le profondità dell’anima umana non cesseremo mai di esplorarle e la realtà di Dio, pur essendo la più intima a ciascuno di noi, è superiore a tutto ciò che di più alto ogni uomo possa pensare (interior intimo meo, superior summo meo, Conf. III, 6, 11). In Agostino l’orientamento dello spirito umano all’Unico Necessario non limita mai, ma slarga gli orizzonti della ricerca. Per l’africano la ricerca non ha mai fine: il credente è felicemente obbligato a inseguire senza posa «Colui che è» e non può mai essere posseduto pienamente. Si cerca per trovare e si trova per cercare ancora con più ardore (sic ergo quaeramus tamquam inventuri et sic inveniamus tamquam quaesituri, De Trin. IX, 1, 1; quaeritur ut inveniatur dulcius, et invenitur ut quaeratur avidius, De Trin. XV, 2, 2)[16].

Quali che siano i limiti della cultura personale di Agostino[17], questione che rischia di diventare oziosa e fuorviante se non si premette il semplice rilievo che non occorre farsi della cultura un concetto innocentemente enciclopedico e che si può essere un grande genio e non saper tutto. Certamente nessuno può accusare Agostino di essere superficiale e di aver preparato con la sua immensa opera e con la sua stupefacente genialità, l’impoverimento culturale e il declino dello spirito speculativo nei secoli dominati dai barbari[18]. Come si è visto, non può essere interpretato fattore di decadenza e di rinuncia alla cultura la critica agostiniana della curiositas, svolta coerentemente dalle prime opere (De ord, I, 11, 31; II, 5, 17; II, 15, 42; II, 12, 37; De ver. rel. 39, 52 ecc.) alle ultime. C’è, però, persino chi giunge a ravvisare un motivo di accusa nel fatto che Agostino abbia pensato di dotare l’Occidente di manuali scientifici, indispensabili ad una formazione di base dei cristiani bisognosi di cultura. Il De musica fu l’unico dei manuali progettati portato a termine e non è certo opera da poco. In ogni caso non si capisce perché i manuali non possano essere in sé uno strumento di progresso in campo didattico; essi, infatti, diventano pericolosi solo il giorno in cui, invece di essere un punto d’appoggio o una tappa nella iniziazione della cultura, diventano tutta la cultura. Non era certamente pessimista sul destino della cultura, malgrado la durezza dei tempi, quell’uomo che, prossimo a morire, secondo Possidio, ecclesiae bibliothecam omnesque codices diligenter posteris custodiendos semper iubebat (Vita, 31,6).

 3. Il duplice amore, criterio d’interpretazione e fine della Scrittura

In funzione della paideia cristiana Agostino formula dei criteri metodologici per leggere correttamente e capire la Bibbia, dandoci così il primo manuale di esegesi apparso nell’antichità cristiana e, in subordine, una teoria del linguaggio che sembra adempiere il proposito espresso nella chiusa del De magistro (14, 46). Molti studiosi hanno posto in risalto gli aspetti originali e le anticipazioni di Agostino teorico dell’interpretazione e filosofo del linguaggio. Dal punto di vista dell’educazione cristiana vanno segnalati come punti particolarmente significativi la teoria del rapporto tra l’Antico e il Nuovo Testamento, quella della pluralità dei sensi scritturistici e l’insistenza sulla preparazione linguistica (greco, latino, ebraico) per una conoscenza diretta del testo sacro. Il principio generale di esegesi è enunciato con estrema chiarezza: «l’idea fondamentale è di comprendere che la pienezza e il fine della Legge, come di tutte le divine Scritture, è l’amore, l’amore dell’Essere, di cui noi dobbiamo godere, e degli esseri che di lui possono godere con noi» (I, 35, 39). Non comprende la Scrittura e neppure una sua singola parte chi non sa trarre da essa un insegnamento di carità nei riguardi di Dio e del prossimo (I, 36, 40). Il grande comandamento dell’amore è l’unica chiave interpretativa per leggere un testo nato per orientare la vita degli uomini nell’atto stesso di narrare una storia, colma di grandezze e di miserie, e di mostrarci «la sembianza di Dio» (Sermo 22, 7). La parola di Dio è per homines nobis indicata e questa dimensione storica (De doctr. chr. II, 2, 3 e 5, 6), unitamente alla ineffabilità di Dio, ci obbliga a prender coscienza della forza e della inadeguatezza del linguaggio. Anche nella Bibbia il significato letterale resta fondamentale; quello allegorico nasce dalla potenzialità di riferimento del sensibile al non sensibile, potenzialità insita nelle parole e, ancor più, nei fatti stessi inseriti nella storia della salvezza (Contra Faust. VI, 4; De doctr. chr. II, 40, 61, 62 ecc.). Anche nell’Antico Testamento vi sono uomini di Dio spirituali e liberi, come i patriarchi e i profeti; ma il letteralismo è di per sé disorientante e comporta esiti antropomorfici, come Agostino aveva sperimentato quando aveva tentato di superare la crisi manichea (Conf. V, 14, 1; VI, 4, 2). Cristo non vanifica l’Antico Testamento, ma il suo rivestimento (velamen), di modo che attraverso Cristo si comprende e quasi si scopre ciò che senza di lui resterebbe oscuro e coperto (De ut. cred. III, 9). Non solo il paganesimo, ma anche la religione ebraica sono, sia pure in modi diversi, sotto la schiavitù del segno; la christiana libertas distrugge i signa inutilia dei pagani, annullando l’idolatria, e aiuta gli ebrei a scoprire ciò che semplifica, unificandola, l’intera rivelazione (De doct. chr. III, 6, 10 e 7,11). Pascal sintetizzerà assai bene il pensiero di Agostino nel celebre frammento: «Gesù Cristo, a cui i due Testamenti mirano, l’Antico come alla sua aspettativa, il Nuovo come al suo modello, tutti e due come al loro centro» (Fr. 740 ed. Brunschvicg).

Costante in Agostino è l’affermazione del pluralismo ermeneutico, fondato sulla inesaustività della parola biblica: potest autem et aliter intelligi (De Gen. ad lib. imper. IV, 17). La possibilità dei sensa plura è intesa come ricorso a modi diversi di spiegare testi diversi e come possibilità feconda di trarre dalle medesime parole della Scrittura non uno, ma due o più significati purché si armonizzino con altri passi del testo sacro (De doct. chr. III, 27, 38). «Dio adattò la Sacra Scrittura all’intelligenza dei molti che vi avrebbero trovato significati molteplici e veri» (Conf. XII, 31, 1). La polivalenza legittima di un medesimo testo ci dispone a cogliere apporti molteplici e convergenti e ci aiuta a comprendere meglio anche i passi oscuri della Bibbia. La facilità stanca, un eccesso di chiarezza ci rende indifferenti (De doct. chr. II, 6, 7). La comparazione, invece, suscita interesse. Sono conosciute con più piacere le cose che sono state cercate con una certa difficoltà (II, 6, 8) e trovate da noi stessi (II, 7, 9).

Il De doctrina christiana, l’opera che s’indirizza a giovani laici dotati intellettualmente, delinea un abbozzo di programma di studi profani introduttivi alla conoscenza diretta della Bibbia. Se a tutti i fedeli si domanda un’adesione intelligente e generosa a Cristo, a chi percorre la via degli studi, quale che sia la professione che poi eserciterà, si chiedono uno sforzo leale e un grado di approfondimento supplementari, tali da metterlo in grado di illustrare e difendere la visione cristiana della vita. Per raggiungere questo scopo c’è bisogno del soccorso di numerose scienze profane. Il programma di cultura comprende la conoscenza delle leggi del linguaggio umano e, in particolare, il possesso delle lingue in cui la Bibbia è stata scritta o è più conosciuta: il greco, l’ebraico, il latino. Giovano la storia civile, in cui si inserisce quella degli eventi della salvezza, la storia naturale e una certa conoscenza delle arti meccaniche. Si dà un certo rilievo anche alle matematiche – comprendenti aritmetica, geometria, musica e astronomia – ma senza percepire appieno la portata scientifica di quello che pure era il settore più valido nella tradizione. Il persistente sovrapporsi dell’astrologia, che pretende fondare sui movimenti celesti le pratiche di divinazione, all’astronomia, in quanto scienza dei movimenti degli astri, preoccupa fortemente Agostino. Un altro gruppo di scienze è costituito dalla retorica, dalla conoscenza dei pensatori classici, spesso così vicini alla fede cristiana, e dalla dialettica, o disputationis disciplina, considerata come logica, cioè come scienza delle leggi formali del ragionamento.

  1. Parlare di Dio al popolo

Che cosa occorre per parlare di Dio al popolo? Devono forse i cristiani elaborare un nuovo trattato di retorica? A ben servirsene, bastano le regole della retorica classica. Certamente esse sono utili e anzi particolarmente indicate nella discussione, e tuttavia non appaiono indispensabili a chi si fa annunciatore del messaggio di Cristo. É bene apprenderle quando si è giovani, ma il loro studio non avrebbe senso per un uomo maturo. Ad Agostino ripugnava la pedissequa osservanza delle regole e dei procedimenti di eloquenza. Egli insisteva sull’efficacia formativa dell’ascolto diretto e sull’assimilazione personale dello stile dei grandi in cui più ci riconosciamo. «Uno spirito acuto e ardente assimila più facilmente l’eloquenza, leggendo o ascoltando gli oratori che studiando i loro precetti. Costoro applicano i precetti, di fatto, perché sono eloquenti, ma non li impiegano per essere eloquenti. Chi parla bene, per parlar bene non pensa alle regole dell’eloquenza e non vi pensava nemmeno quando componeva il suo discorso» (IV, 3, 4). Ciò che conta è congiungere all’amorosa contemplazione della parola di Dio la pratica assidua dei grandi scrittori e oratori cristiani. «Del resto i fanciulli stessi non avrebbero bisogno della grammatica, in cui si impara il linguaggio corretto, se si desse loro la possibilità di crescere e di vivere tra uomini che parlano correttamente» (IV, 3, 5). E si sa che le preferenze di Agostino andavano a Cipriano e ad Ambrogio[19].

Ci vuole arte e desiderio di comunicare un’esperienza di vita per dire cose da molto tempo conosciute e toccare i cuori. La città è più esigente in fatto di stile che non la provincia. Comunque è meglio dare sempre qualcosa di solido, veramente buono, che non cercare di commuovere teatralmente o con parole vuote (IV, 4, 6; 5, 7). La Scrittura è già di per sé eloquente; la sua elevatezza incomparabile di stile e d’espressione deriva in primo luogo dal suo contenuto. L’eloquenza è inseparabile dalla vera sapienza. In molti passi Agostino manifesta ammirazione per il latino biblico, considerato lingua vivente, e lo trova più esplicito, più penetrante che non il latino classico, lingua pura ma morta (II, 14, 21; Ep. 132, 1; De cat. rud. 8, 12, 3). Erano considerazioni queste nettamente anticonformiste. Colui che si assume l’ufficio di interpretare e insegnare le Scritture – osserva Agostíno – ha il dovere di essere chiaro il più possibile. Se non sa rendere il senso di un passo farebbe bene a tacere. È preferibile usare, se è necessario, parole della lingua familiare e farsi capire, anche se ne dovesse soffrire la purezza della lingua (De doct. chr. IV, 10, 24). Il linguaggio è immerso nel divenire ed è il prodotto di abitudini sociali; non possono quindi darsi modelli assoluti di perfetto e immutabile purismo (II, 4, 5 e 13, 19; Conf. I, 12, 19 – 13, 21). L’imperativo della più assoluta chiarezza è tanto più obbligante perché in chiesa chi ascolta non fa domande. Meglio riservare a discussioni private o tra studiosi l’esegesi di passi oscuri della Scrittura. La chiarezza è efficace se congiunta alla suavitas e se non scade mai nella superficialità, nell’ovvio, nelle abituali stereotipie che tolgono all’uomo ogni ragione di stupore, velando pesantemente con le facili evidenze le profondità dell’anima, di Dio, della Scrittura.

L’ex-professore di retorica sa che vi sono tre generi di oratoria: il semplice, l’ornato e il patetico, secondo che si voglia dimostrare, affascinare, persuadere; o, in termini cristiani, spiegare, edificare, convertire (IV, 12, 27 e 26, 56). Ai tre generi di eloquenza corrispondono altrettanti tipi di stile: il semplice, il moderato e il sublime. In queste distinzioni Agostino si rifà esplicitamente a Cicerone, ma l’annotazione personale si avverte subito. A considerare la materia, un discorso in chiesa è sempre di genere sublime; ma non tutto va trattato granditer. Uno stile troppo elevato rischia di diventare rapidamente tedioso (IV, 18, 35); va bene, ma solo al momento giusto, quando la commozione erompe e fa scorrere le lacrime (IV, 23,52 – 26, 56). La miglior cosa è mettere insieme i tre stili, perché ciascuno ha i suoi pregi e i suoi inconvenienti. L’esordio comunque dev’essere sempre di stile moderato. Paolo non si preoccupava dell’armonia degli elementi di una frase; Agostino confessa invece di tenerne conto, facendo sgorgare le clausole ritmiche dalle stesse idee, per render più facile l’assenso interiore. La parola di Dio non può essere comunicata efficacemente se non è il cibo, la gioia, la norma di vita di colui che l’annuncia. E se qualcuno veramente non può parlare, l’essenziale è che la sua vita tenga il posto della eloquenza (sit eius quasi copia dicendi, forma vivendi, IV, 27, 59 – 28, 61 e 1 Cor. 1, 17).

V. Osservazioni conclusive

Qualcuno ha scritto che «il programma culturale di Agostino, se segnava le linee della paideia medievale, rappresentava anche il declino della cultura classica»[20]. A nostro avviso tale giudizio, che sintetizza un luogo comune assai diffuso, tende a collegare alla paideia agostiniana un processo estremamente complesso, che si svolge in un ampio arco di tempo e che era tutt’altro che fatale: la decadenza romana e l’eclisse, mai totale del resto, della cultura greco-romana. L’operazione non è legittima e per più di una ragione.

É vero che i materiali della cultura di Agostino sono in gran parte antichi, mentre lo spirito che l’anima non lo è più; ma ciò non autorizza a svalutare la nuova Weltanschauung, che è quella del Vangelo, né a concludere che il santo dottore, non essendo più un uomo dell’antichità, è senz’altro un uomo del medioevo. Questo schematismo, quanto mai discutibile, non ha alcuna giustificazione poiché poggia interamente su di un falso dilemma. Il fatto irrefutabile è che quando nei secoli della dominazione barbarica scomparvero Cicerone e Virgilio, scomparve anche Agostino; il quale tornò nella cultura europea, ma in compagnia di quei due grandi di cui il suo spirito si era nutrito.

In realtà nella patristica greca e latina l’elaborazione teologica e la paideia cristiana presero corpo in stretta simbiosi con la cultura classica, rispetto alla quale la nuova cultura si distingue per una nuova intensità, un recupero di valori universalmente umani e una straordinaria capacità di rifusione. L’umano si cristianizza non per una qualche verniciatura esterna, ma attraverso una impregnazione che scende fino alle sorgenti dell’essere. Tale cultura non implica perciò alcuna mutilazione dell’umanità nel suo sviluppo, né alcuna regressione.

Si direbbe, al contrario, che è stato superato come per miracolo un invecchiamento e che, contemporaneamente, è avvenuto un passaggio all’età adulta, alla quale l’umanità antica non era pervenuta. L’umanesimo del Golgota e della Resurrezione non soltanto ha coronato l’umanesimo dell’Acropoli, ma lo ha rigenerato. L’umanesimo classico sapeva sviluppare splendidamente le forze spirituali dell’uomo, ma nello stesso tempo le lasciava incompiute, prive di direzione e di sbocco proprio in rapporto ai problemi decisivi dell’esistenza. Per Agostino la luce del Vangelo era provvidenziale anche per la cultura classica: essa costituiva, infatti, un criterio per salvaguardarne i valori autentici e farli così entrare nel futuro dell’umanità, un principio di integrazione perfettiva, il punto di partenza di una rinascita. É pertanto lecito pensare che se l’evoluzione della civiltà e della cultura dell’età di Agostino non fosse stata tragicamente interrotta dall’alluvione barbarica – il santo vescovo si spegne poche settimane prima che i vandali espugnassero Ippona, che assediavano da tre mesi – avremmo potuto avere una cultura cristiana profondamente permeata dal valore religioso, come fu quella del medioevo latino, ma senza rompere o allentare il legame che l’univa alla cultura classica.

Nell’immensa opera di Agostino sono molteplici e preziosi i contributi intenzionalmente diretti a elaborare sul piano dei principi teoretici e delle indicazioni metodologiche, come pure su quello della psicologia del rapporto educativo e dei mezzi didattici. C’è, però, un’altra direzione in cui deve muoversi la ricerca: esiste, infatti, «una pedagogia implicita», secondo la felice espressione di Aldo Agazzi[21], che circola in tutti gli scritti di Agostino e che occorre recuperare più pienamente di quanto finora si sia fatto. E al primo posto tra le opere da esplorare con questo intento sono quelle della comunicazione diretta con il popolo cristiano, il suo Commento ai Salmi, i Discorsi e le Lettere. La lettura dei Discorsi (Sermones), ad esempio, sebbene il testo a noi pervenuto non riproduca che alla lontana il discorso pronunciato realmente, ci fa toccare con mano come proprio nel parlare al popolo Agostino eserciti il più alto magistero[22]. Egli domina il sacro testo a memoria, da un capo all’altro, si adatta a quanto gli dettavano le circostanze e il proprio cuore, suscita negli uditori il dinamismo della vita interiore e li eleva ad un’alta, spesso sublime, visione dell’esistenza, puntando diritto sulle questioni più decisive e sui traguardi fondamentali. In cattedra Agostino si sente non solo al servizio del suo popolo, ma uguale a lui davanti a Dio. Non dice mai «voi», ma «noi». «A che servono i miei sermoni, a che serve la mia vita? L’unico scopo è che noi arriviamo finalmente a vivere insieme la vita di Cristo! Per questo mi affatico, questo è il mio onore, la mia gioia, la mia gloria, la mia eredità. Non voglio salvarmi senza di voi» (Sermo 17, 2). E, se abbiamo la fortuna di disporre di oltre un migliaio di discorsi di Agostino, lo dobbiamo a un manipolo di ascoltatori che compresero la grandezza umana e cristiana del loro vescovo e provvidero, a proprie spese, a stenografare le sue prediche. Furono, infatti, scritti prima di essere pronunciati solo i ventiquattro Discorsi sul Vangelo di Giovanni e pochi altri; Agostino non poté nemmeno rivedere completamente i discorsi raccolti e redatti dai tachigrafi, come riconosce nelle Ritrattazioni (II, 93, 2). Questa parte dell’opera agostiniana – con le sue splendide digressioni e annotazioni psicologiche, con la sua appassionata carica educativa – è di un fascino e di una ricchezza inesauribili. Nei suoi Discorsi Agostino parla in nome della chiesa, forma alla fede, offre in sintesi decisive la risposta ai problemi più ardui con espressioni limpide e geniali. Nell’atto di farsi educatore, Agostino sacerdote e vescovo spoglia la sua stessa dottrina delle maggiorazioni del controversista. In quanto pedagogia in azione, l’intera paideia cristiana di Agostino attinge il massimo di profondità e di forza persuasiva.

[1] Humanitas n.3/1987.

[2] A. Pincherle, Vita di sant’Agostino, Laterza, Bari 1980, p. 177.

[3] P. Brown, Agostino, Einaudi, Torino 1971, p. 14. L’edizione inglese è del 1967.

[4] K. Jaspers, I grandi filosofi, Longanesi, Milano 1973, p. 416. L’edizione tedesca risale agli anni 1957 e 1964.

[5] E. Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda anticbità latina e nel Medio Evo, Milano 19743, p. 60.

[6] È bene ricordare che l’altro grande genio speculativo del cristianesimo, Tommaso d’Aquino, nel suo avvertito senso critico guardò alla concezione tolemaica del mondo solo come ad una semplice ipotesi, com’è attestato dal suo commento al De coelo et mundo di Aristotele. Se i teologi avessero conosciuto meglio i loro più autentici maestri, avrebbero risparmiato alla chiesa cattolica incomprensioni e accuse che ancora oggi gravano su tante coscienze.

6 G. Faggin, La pedagogia della Patristica: Agostino, in Pedagogia, Vallardi-Soc. Ed. Libraria, Milano 1971, vol. VIII, pp. 279‑280.

[8] Agostino attestò fino all’ultimo quanto fosse radicato nella sua personalità questo atteggiamento di continua rimessa in discussione di se stesso e di incessante approfondimento. È ben lui a scrivere in un’opera degli ultimi anni: «Beato l’uomo che nell’ultimo giorno ha ancora conservato le sue possibilità di progredire. Io sto per finire la vita prima di aver finito di correggermi» (De dono perseverantiae 21, 55).

[9] Il ruolo dello «scandalo» nella formazione della coscienza cristiana è problema non eludibile. Agostino lo ha inquadrato con lucidità nel De catechizandis rudibus (14 e 21). Non si può far finta che determinati comportamenti non ci siano, se ci sono e indubbiamente «l’animo, se è turbato da qualche scandalo, non ci permette di fare un discorso sereno e gradevole». Il cristiano se ne rattrista per coloro che, operando il male, vanno incontro alla loro rovina, e per coloro che, essendo deboli se ne lasciano suggestionare. Scandalo in greco sta, appunto, a significare ‘insidia’, ‘pietra che fa inciampare’, ma la coscienza della fecondità negativa dello scandalo non giustifica paura e tiepidezza nel professare la fede; al contrario, essa deve stimolare e accrescere maggiormente in noi il senso della sua trascendenza e della sua perenne validità. Occorre insegnare a chi si è posto alla sequela di Cristo a congiungere l’adesione piena a quanto il Vangelo comanda e la capacità di guardarsi dall’imitare coloro che sono cristiani solo di nome (qui non ipsa veritate, sed solo nomine christiani sunt). «Colui che desideri diventare cristiano non deve né rifiutare di stare nella chiesa di Dio, ove sono anche quelli, né starvi alla loro stessa maniera. E nel dare ammonimenti di questo genere, il discorso diventa, non so come, più infuocato, perché il dolore presente gli dà esca».

[10] P. Brown, Agostino, ed. cit, p. 263

[11] Cfr. E. Kevane, Translatio imperii. Augustine’s De doctrina christiana and tbe classical paideia, Studia Patristica, XIV, 1976.

[12] La risposta di Agostino alle pretese del solipsismo religioso, che crede di prescindere dalla dimensione stessa scelta da Dio, l’incarnazione, il per homines hominibus, è quanto mai calzante. «Chiunque si gloria di comprendere tutte le oscurità della Scrittura senza il soccorso di regola alcuna, ma solo in virtù di un dono, crede giustamente che questo dono non è un’emanazíone del suo essere, ma è un potere dato da Dio. Ma allora, dal momento che legge e comprende senza spiegazione altrui, perché pretende poi dare lui stesso delle spiegazioni agli altri?» (De doct. chr., Prologus, 8).

[13] «Giustino non è lontano dal dire con Erasmo: Santo Socrate, pregate per noi! Da questo momento decisivo, il cristianesimo accetta dunque la responsabilità di tutta la storia anteriore dell’umanità; ma ne pretende anche il vantaggio. Tutto ciò che di male è stato fatto, è stato fatto contro il Verbo; ma poiché viceversa tutto quanto di bene è stato fatto, è stato fatto dal Verbo, che è il Cristo, ogni verità è cristiana quasi per definizione. Tutto quanto è stato detto di bene è nostro. Ecco formulata sin dal II secolo in termini definitivi la carta eterna dell’umanesimo cristiano» (È. Gilson, Lo spirito della filosofia medievale, trad. it. Morcelliana, Brescia 1983, IV ed., pp. 35-36).

[14] Il tema del Verbo che illumina ogni uomo che viene nel mondo, essendo di ognuno il Maestro interiore, è forse il motivo sinfoniale che percorre e unifica tutti gli scritti e i discorsi di Agostino. «Il suono delle mie parole percuote le vostre orecchie, ma il Maestro interiore è dentro» (In Joh. 26, 7). « Io vi parlo al di fuori, il Verbo vi stimola all’interno» (Sermo 179, 7, 7). «Io che parlo e voi che ascoltate sappiamo di essere condiscepoli di un unico Maestro» (Sermo 23, 2, 2). Già vecchio, quando una giovinetta, Fiorentina, gli chiede di farle da maestro, Agostino risponde: «Qualunque cosa potrai imparare da me, ti sarà maestro solo colui che è il Maestro interiore dell’uomo» (Ep. 266, 4). Sul cosiddetto ‘socratismo cristiano’ ha scritto pagine molto belle Gilson nella sua opera fondamentale, Lo spirito della filosofia medievale (ed. cit., pp. 269-292). Il tema è ripreso con ampia documentazione storica da P. Courcelle in Connais-toi toi-méme de Socrate a saint Bernard (voll. 3, Paris 1974-75).

[15] Lo studio della Bibbia avvalora le più alte aspirazioni umane che, dentro e fuori Israele, preludono al Cristo dei Vangeli, il quale esprime nella sua persona e nel suo messaggio in modo unico ed inarrivabile la realtà di Dio e il nuovo rapporto degli uomini con Dio. La Bibbia fa conoscere inoltre esperienze, dimensioni ed anche bellezze poetiche ignote ai lettori delle sole opere classiche. Tuttavia il programma culturale di Agostino, come ha ben osservato Peter Brown, «era sottilmente plasmato dalla preoccupazione di non ricreare, nello studio della Bibbia e nella predicazione, la paralizzante affettazione dell’educazione tradizíonale» (Agostino, ed. cit., p. 266). Proprio per questo motivo il De doctrina christiana appare un’opera molto moderna. Agostino riserverà un largo posto nell’istruzione agli interessi spontanei, al talento, all’intuizione e si preoccuperà sinceramente che l’intelligenza non fosse spenta dalla pedanteria. Egli tenterà soprattutto di aggirare quello che nell’educazione della bassa romanità era l’elemento più manierato, l’ossessione delle regole dell’eloquenza e delle sottigliezze dialettiche. Per quanto riguarda questo secondo malanno Agostino ammonisce a non confondere la logica con la sofistica (cita anche il qui sophistice loquitur odibilis est, dell’Ecelesiastico 37, 23) e a non cercare la determinazione della verità del pensiero nelle regole della dialettica (aliud est nosse regulas connexionum, aliud sententiarum veritatem, De doct. chr. II, 34, 52), potendosi di fatto tirare conclusioni vere da false premesse e conclusioni false da principi per sé veri (sicut in falsis sententiis veras, sic in veris sententiis falsas conclusiones esse posse, ibid. II, 33, 51).

[16] La prospettiva di Agostino è quella di un moto perenne dell’anima alla ricerca della Sapienza. «La presentazione della verità mediante segni – scrive Agostino in una sua lettera – ha grande potere di alimentare e di stimolare quell’amore ardente, grazie al quale, come ubbidendo ad una qualche legge di gravitazione, noi guizziamo verso l’alto o ci raccogliamo in noi stessi fino a trovar riposo. Le cose presentate in questa maniera animano ed accendono il nostro affetto assai più che se ci fossero esposte in termini di asserzioni disadorne. Perché sia così, è difficile dire… Io credo che le emozioni sono suscitate meno facilmente quando l’anima è assorbita per intero dalle cose materiali; ma quando l’anima è messa dinnanzi ai segni materiali di realtà spirituali e procede da essi alle cose che essi rappresentano, acquista forza proprio dall’atto di passare dagli uni alle altre come la fiamma di una torcia, che brucia tanto più luminosamente quando si muove…» (Ep. 55, 11, 21). Il desiderio di scrutare il mistero divino non deve mai spegnersi in noi perché non finiremo mai di scoprire nelle sue profondità sempre nuovi tesori. Alla fine del De Trinitate si leggono queste espressioni mirabili: «Ho desiderato vedere con la mente quello che ho creduto per fede. Non avvenga mai, o Signore, che, stanco, non voglia più cercarti. Che cerchi invece il tuo volto con ardore, che ti conosca, che ti ami. Aumenta in me tutto questo, fino a tanto che tu non mi riformi interamente» (XV, 28, 51).

[17] Ad Agostino riuscì ostico lo studio del greco e non sopportava il fastidio di imparare aridamente a memoria vocaboli di una lingua straniera che non si parlava più, tanto che nel periodo scolastico non se ne rese padrone (nulla verba illa noveram, Conf. I, 14, 23). Agostino non è nato in un ambiente aristocratico, normale detentore della tradizione culturale, di cui il greco era parte essenziale. Da questi due rilievi in sé giusti si è creduto di trarre la conclusione arbitraria secondo cui Agostino, non essendo altro che un parvenu, non avesse una solida cultura. In realtà Agostino acquistò la cultura più elevata del suo tempo con sacrífici e non senza sforzo. Fu la sua preparazione a garantire a lui, africano non ancora trentenne, la prestigiosa cattedra di retorica nella sede imperiale di Milano. Anche lo studio del greco fu ripreso e portato avanti con esemplare serietà da Agostino «a partire dal 400 o un poco più tardi», quando si avvide che era necessario alle sue ricerche teologiche la conoscenza diretta del greco biblico (P. Courcelle, Les lettres grecques en Occident, Paris 1948, pp. 137‑194). Per quanto riguarda poi la presenza della letteratura classica latina nella sua opera, essa è senza dubbio forte e vasta, come ben vide un giudice di altissima competenza, Erasmo da Rotterdam (Ch. Béné, Erasme et saint Augustine, Ed. Travaux d’humanisme et renaissance, Genève 1969 e H. Hagendahl, Augustine and tbe Latin Classics, Göteborg 1967).

[18] G. Faggin, op. cit., p. 280. A confutazione di questa tesi si leggano le pagine della Retractatio che il Marrou ha pubblicato in appendice alla ristampa del volume Saint Augustin et la fin de la culture antique, De Boccard, Pari 1949 (trad. it. Jaca Book, Milano 1987). Spiace, però, dover rilevare che le coraggiose correzioni della Retractatio non hanno trovato il riscontro che meritavano. A trent’anni di distanza dalla Retractatio H.J. Marrou ha pubblicato sull’epoca che ebbe Agostino come figura centrale uno studio chiarificatore, agile ed essenziale: Decadenza romana o tarda antichità? III-VI secolo (Éditions du Seuil, Paris 1977; trad. it. Jaca Book, Milano 1979). Il volumetto del Marrou parte dalla costatazione che «il passaggio dalla Grecia classica all’Europa moderna non si è realizzato attraverso un filiazione diretta», ma attraverso delle mediazioni. Quelle del rinascimento umanista e, precedentemente, della cristianità medievale, sono note a tutti; quella operata dalla civiltà della tarda antichità (Spätantike) è riconosciuta in tutta la sua enorme importanza solo da una ristretta cerchia di specialisti. Bisogna che l’uomo contemporaneo faccia entrare una buona volta nella sua cultura questa straordinaria epoca, individuandola nel suo ruolo e nella sua importanza. É una delle premesse, per meglio comprendere e situare la personalità e l’opera di Agostino. «La tarda antichità – ribadisce il Marrou – non è soltanto l’ultima fase di uno sviluppo continuo; si tratta di un’altra antichità, di un’altra civiltà, che bisogna imparare a riconoscere nella sua originalità e a giudicare in se stessa, non in base ai canoni delle età precedenti» (pp. 15-16). Ci si può chiedere se la tradizionale svalutazione della tarda antichità non sia stata in fondo ispirata da un aprioristíco disprezzo nei confronti di tutto ciò che è cristiano. La riprova la si ha nella nota formula con cui Edward Gibbon, da fedele discepolo di Voltaire, compendiava la tesi del suo importante lavoro Storia della decadenza e caduta dell’impero romano (1776-1788): «Abbiamo così assistito al trionfo della religione e della barbarie». Per lui i due termini erano sinonimi! Il periodo della tarda antichità è stato troppo spesso liquidato come un’età di disintegrazione, un’età tesa esclusivamente verso l’aldilà, in cui le anime che volevano porsi al sicuro si rifugiavano, ritirandosi dalla società che si sgretolava intorno ad esse, alla ricerca di un’altra città, la Città celeste. Non vi è impressione più lontana dalla verità. «Raramente altri periodi della storia europea – osserva Peter Brown – hanno disseminato il futuro di altrettanto irremovibili istituzioni. I codici del diritto romano, la gerarchia della chiesa cattolica, l’idea di impero cristiano, il monastero: fino al XVIII secolo, in luoghi distanti tra loro come la Scozia e l’Etiopia, Madrid e Mosca, gli uomini continuavano a cercare una guida per l’organizzazione della loro vita terrena in questi imponenti legati dell’edificio istituzionale della tarda antichità» (Religione e società nell’età di sant’Agostino, trad. it. Einaudi, Torino 1975, p. 7).

[19] Per H. Marrrou questa è una notevolissima innovazione del programma agostiniano. Cicerone non consigliava di prescindere dalle regole tecniche della retorica, diceva soltanto che esse non erano sufficienti. Per Agostino esse non sono neppure necessarie. La sua affermazione è in netta opposizione con ciò che nel suo tempo sembrava essenziale nella cultura (Saint Augustin et la fin de la culture antique, ed. cit., pp. 514 ss.). Commentando questi passi, P. Brown sente anch’egli la novità e il fascino della posizione agostiniana, ma osserva che Agostino «si accostò al problema con quarant’anni di relativa sicurezza dietro le spalle» e che «dava per scontata la sopravvivenza dell’educazione classica», mentre purtroppo le cose andarono diversamente. Ci si deve chiedere inoltre se la superba semplicità del suo stile cristiano non fosse che l’altra faccia di una profonda raffinatezza. Anche lo stile di un Possidio era semplice, ma solo perché era piatto e in altri scrittori ecclesiastici è dato riscontrare «non l’assenza di ogni retorica, ma l’ampollosità degli uomini di scarsa cultura» (op. cit., p. 267). Si noti però che Agostino non esclude categoricamente l’insegnamento dell’eloquenza. Egli lo riserva ai giovani (De doct. chr. IV, 3, 4), con il compito di avviare un cammino che poi ognuno dovrà percorrere con le sue intuizioni, con la sua cultura, con il suo stile, con la sua imago vitae e soprattutto con la sua forma vivendi (IV, 29, 61).

[20] Cfr. nota 19.

[21] A. Agazzi, L’attualità della pedagogia di sant’Agostino, in S. Agostino educatore, Padri Agostiníani, Pavia 1971, p. 103. Il volume raccoglie inoltre i pregevoli contributi di G. Garrone, A. Trapé e L. Alfonsi.

[22] Molteplici riflessioni di carattere pedagogico sono disseminate, ad esempio, in quell’opera, fondamentale per capire meglio Agostino, che è S. Agostino pastore d’anime di F. Van der Meer (trad. it. Edizioni Paoline, Roma 1971).