La parola e il silenzio

L’uomo di questa fine del secondo millennio è un uomo che è diventato, come scrive Picard, “un’appendice del rumore”. L’uomo è diventato cioè un mero spazio del rumore. Non è stato cosi in passato, sebbene anche nella Roma di Cicerone ci si lamentasse dell’eccessiva rumorosità e Schopenhauer, nel secolo scorso, se la prendesse con gli schiocchi della frusta dei vetturini che gli impedivano di pensare. Il rumore è stato presente anche nelle civiltà passate, ma oggi ha raggiunto un livello tale da diventare anche fonte di malattie fisiche.
L’uomo vive, quindi, in questo mondo che non conosce il silenzio, vive in una galleria del vento di pettegolezzi e di chiacchiere. Dalla mattina quando si alza, alla sera quando va a letto, il rumore, o il parlare, o se volete il parlare come rumore, è “diventato una schiavitù” – scrive la Sontag – “come l’alcool o il fumo”.
Quali sono le conseguenze più rilevanti di questo stato di cose?
In primo luogo, si può notare che parallelamente alla morte del silenzio si verifica anche la morte della parola. E qui vorrei aprire, una brevissima parentesi. C’è una distinzione, che troviamo nelle opere di Merleau-Ponty e che è interessante per il nostro discorso. Merleau-Ponty sostiene che esistono due tipi di parole parlanti, cioè le parole festive, aurorali, sorgive, primordiali e le parole parlate, cioè le parole opacizzate, feriali, desemantizzate, disoccupate.
Il silenzio di per sé non è un nemico della parola parlante, anzi, silenzio e parola piena procedono felicemente mano nella mano. Il silenzio è però ferocemente nemico della parola parlata, della parola che è diventata un mero gargarismo linguistico; e purtroppo la parola che oggi compare sulla bocca di tutti (dai politici ai sacerdoti, dagli insegnanti ai sindacalisti) è spesso la parola-chiacchiera. Uno scrittore francese, M. Blanchot, che nel bel libro, “La scrittura del disastro”, è molto eloquente riguardo alla situazione desolante in cui si trovano le parole, scrive che “la chiacchiera è il disonore, la vergogna della parola”.
In genere, la parola di tutti è la parola chiacchiera, una marmellata linguistica che ci cola addosso e che ci sporca, un insieme di parole bavose che fuoriescono dalla bocca di molti parlanti e che provocano la noia o la fuga. Quante volte il parlare diventa un fast food linguistico, un parlare per frasi fatte, un andare sul precotto, un parlare servendo piatti linguistici freddi; le parole diventano così sgorbi linguistici desemantizzati, parole rugose, parole zombi che vivono in animazione sospesa. Molte volte, dunque, il parlare è un fatto puramente palatale, è un fatto che riguarda più le corde vocali che le sinapsi cerebrali, è un parlare robotico, meccanico, rutiniero, banale e banalizzato.
Ci sono non pochi motivi storici per cui il parlare di molti italiani è un parlare di questo tipo. Molti italiani parlano l’italiano come fosse una lingua straniera. Noi abbiamo una strana storia linguistica: quando nel 1861 fu fatta l’unità politica d’Italia, in Italia solo il 2,5% degli abitanti erano italofoni. Oggi, centrotrenta anni dall’unità politica ancora non abbiamo portato a termine l’unità linguistica dell’Italia, perché tutt’oggi solo l’85% degli italiani parla italiano almeno una volta al giorno.
E se noi guardiamo come gli italiani hanno appreso a parlare l’italiano ci rendiamo conto che l’hanno appreso attraverso modalità selvagge, perché agli inizi degli anni Cinquanta, solo 18 italiani su 100 parlavano abitualmente italiano e in questi ultimi quarant’anni un altro 65% ha imparato a parlare italiano, e l’ha appreso più dalla televisione e dalla radio che dalla scuola, più da Pippo Baudo e dalla Carrà che da insegnanti di lingua italiana regolarmente retribuiti dal Ministero della pubblica istruzione. Gli italiani hanno appreso l’italiano con il gracile lessico di Mike Bongiorno, con la sintassi sregolata della Carrà, con la grammatica esangue di Funari; quindi essi si muovono nell’italiano a velocità pedonale, rischiano continuamente di commettere errori: per questo ricorrono frequentemente alla frase fatta.
Ci sono quindi delle motivazioni storiche, ma c’è anche un’altra motivazione più profonda, ed è questa: nella società della comunicazione, nella società cioè in cui i messaggi si accavallano, in cui le parole si rincorrono alla velocità della luce, le parole si usurano con grande facilità. Come le monete passando di mano in mano si consumano e perdono il valore che era loro impresso, così le parole, passando rapidamente da un messaggio ad un altro, anche quelle che hanno una splendida tradizione, finiscono col banalizzarsi, con lo sfuocarsi semanticamente, col perdere gran parte della loro forza sorgiva, col trivializzarsi.
Come capita alle parole delle canzonette la cui frequente ripetizione provoca ben presto noia e disgusto. Così anche le parole del linguaggio ordinario se vengono ripetute frequentemente, ossessivamente, finiscono col perdere tutto l’impatto, la forza, la vitalità che avevano; non sono più parole festive e luminose, ma diventano parole logore, invecchiate, o per dirla con Celan: “parole piene di rughe”.
Che il linguaggio stesse facendo bancarotta, in una società del rumore, per primi se ne erano accorti i poeti, cioè le creature più articolate, quelle che hanno avuto un dono, la capacità di intrattenere un commercio festivo con le parole. I poeti, infatti, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, per primi hanno sentito la fascinazione del silenzio, hanno subito la magia del silenzio. Quelli che sembravano dotati più di altri del dono della parola, di un rapporto creativo, ludico con la parola, ebbene queste persone hanno finito col mostrare disgusto per le parole e col subire la tentazione del silenzio. Tentazione fortissima, per esempio in Rimbaud che, diciottenne, scrive e poi si dà al traffico di armi nel Nord Africa, non scrivendo più un verso. Oppure pensate a Hölderlin che trentatreenne sceglie il silenzio della follia o a Celan che cinquantenne sceglie il silenzio del suicidio. Il poeta finisce così col subire la tentazione del silenzio, tentazione che diviene più forte dell’amore per la parola. E ciò perché le parole appunto si son fatte rugose, sono diventate avvilite, stanche, disoccupate, le parole oggi assomigliano ormai agli edifici di Beirut, sforacchiati dalla mitraglia, anneriti dagli incendi. Le parole non sono più un materiale con il quale è possibile costruire versi.
La poetica della pagina bianca, il tema dell’incomunicabilità o la ricerca deliberata di una oscurità la più ermetica possibile fanno sì che la parola si avvicini sempre più al silenzio.
Del resto ci sono una serie di riflessioni da parte di numerosi poeti che ci dicono molto sulla forza della loro passione segreta per il silenzio. C’è ad esempio Mallarmé per il quale “Il poeta deve ripulire le parole, creare silenzio intorno alle cose”, oppure Rimbaud che definisce il poeta “un maître du silence” oppure, De Vigny che parla della poesia come di un “art silencieux” e, ancora, Claudel, per il quale il poeta è un “seminatore di silenzi”.
Anche in filosofia, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, si è cominciato a scoprire il tema del silenzio come un tema estremamente importante. Non mi soffermo qui su Wittgenstein e sull’ultima proposizione del Tractatus (Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere), perché vorrei dedicare un’attenzione particolare a Bergson. Fu lui il primo che alla fine dell’Ottocento, teorizzò la necessità di spezzare i cardini del linguaggio. Il linguaggio, egli scriveva, è diventato una schermo tra l’uomo e il mondo, un vetro opaco, per cui occorre spezzare le parole per arrivare alla realtà. Le parole erano viste come un impedimento alla comunicazione con l’altro, come un impedimento nel commercio col mondo.
Sono state alcune correnti filosofiche contemporanee, dall’esistenzialismo alla fenomenologia, che hanno privilegiato in modo speciale il tema del silenzio, pensate a Merlau-Ponty, che ha una seria di riflessioni profondamente acute su questa problematica.
Nella filosofia contemporanea ci troviamo casi di fronte a personaggi che hanno avventure umane e intellettuali più diverse (da Heidegger a Lavelle, da Maritain a Jaspers, da Sartre a Nietzsche), ma che si trovano però d’accordo su un punto, cioè sul fatto che il linguaggio ha fallito e che il silenzio possiede un fascino insolito.
Il linguaggio di tutti i giorni, quello che noi parliamo, con il quale noi parliamo con gli altri, è diventato a poco a poco, come scrive la Bachmann il – gergo della canaglia -, quel linguaggio in cui non si trova mai la parola giusta, un linguaggio che dà la nausea, che è vomitativo, un linguaggio che finisce col superficializzare i rapporti umani, coll’appiattire il commercio con la realtà. E il linguaggio è di questo tipo, perché l’uomo ha perduto il rapporto stretto con la dimensione del silenzio. E’ la parola piena, quella che appunto Celan chiama “una parola sorvolata di stelle, inondata di mare”, quella di cui ha bisogno il poeta, ma queste parole che procedono mano nella mano col silenzio sonno venute meno per il dilagare del rumore. L’uomo contemporaneo, con la morte del silenzio, ha subito anche la morte della parola. Ecco che se vogliamo tornare ad un parlare autentico, dobbiamo inevitabilmente recuperare spazi al silenzio.
Ovviamente nel celebrare le lodi del silenzio, dobbiamo aver ben presente il fatto che esistono silenzi positivi e silenzi negativi: tutto ciò che si può dire della parola, lo si può dire anche del silenzio. Come esistono parole piene e parole vuote, parole festive e parole feriali, così esistono anche silenzi pieni e silenzi vuoti, silenzi festivi e silenzi feriali; silenzi che hanno le stigmate del divino e silenzi demoniaci, silenzi della negatività totale.
L’uomo contemporaneo è infastidito dal rumore, è infastidito dalla società dell’urlo ed ha nel contempo nostalgia e timore del silenzio. Ne ha nostalgia perché vivere in una società del rumore è vivere una vita invivibile, perché il rumore provoca angoscia, non dà tregua, ci assalta comunque e dovunque. Ma l’uomo contemporaneo, accanto a questa nostalgia del silenzio, palesa anche una forte paura del silenzio, e ciò perché il silenzio lo sgomenta, lo disorienta, lo tortura. Conosce solo silenzi da noia o da angoscia, silenzi per difetto.
Il silenzio è qualcosa di dannatamente complesso, è qualcosa di difficile da conseguire. Il silenzio delle labbra, infatti, è il primo passo e neppure il più importante verso la direzione del silenzio. Si può tacere ed essere rumorosi. San Gregorio Magno parlava dello “strepitus silentii”, il rumore del silenzio, o se volete, il silenzio rumoroso (espressione questa che è un ossimoro, cioè l’unione di due parole che hanno significato contrario).
Per rendere la natura di questo silenzio insolito di cui ci parla San Gregorio Magno porterò un esempio. Pensate di stare accanto ad una persona che è silenziosa, ma dentro cova del rancore, dell’odio, dell’invidia, del risentimento: esternamente tace, dentro parla continuamente. Vivere accanto a chi è portatore di questo silenzio rumoroso è vivere una vita d’inferno: anche la parola più triviale, più banale, sarebbe una liberazione. Questo è un silenzio che ha la dimensione della negatività.
Non tutti possono entrare nella dimensione del silenzio e tra coloro che entrano in questa dimensione non tutti possono raggiungere i vari gradi che il silenzio possiede, fino a quel completo silenzio interiore, che è l’ultimo e il più difficile da conseguire. Un padre del deserto ha scritto che “ci vogliono tre anni per imparare a parlare, e settanta per imparare a tacere”.
Il silenzio, dicevamo, ha dei gradi: non si può decidere dalla mattina alla sera di entrare nella dimensione del silenzio. Come per scalare una montagna alta ottomila e più metri ci vuole un esercizio di mesi, così, per entrare nella dimensione del silenzio, si richiede un esercizio continuo, che magari non tutti possono reggere, esercizio che però consenta a chi persevera di raggiungere l’ultimo grado del silenzio, quello che Maria Amata di Gesù indica come il decimo grado.
Legata a quella del silenzio e della parola, c’è un’altra tematica che mi sta molto a cuore, ed è quella dell’ascolto. Noi ci troviamo in una società in cui muore il silenzio, in cui viene meno la parola, e nella quale anche la capacità di ascolto si sta atrofizzando, e questo perché per ascoltare, in primo luogo, c’è bisogno di silenzio. In una società dell’urlo, ascoltare diventa difficile, talora impossibile.
Uno dei pubblicitari francesi più celebri del momento, quello che ha curato anche le ultime due campagna di Mitterand, ha teorizzato la “pubblicità dell’urlo”. A una società in cui tutti parlano il pubblicitario, per farsi ascoltare, deve urlare.
Ormai è una sensazione diffusa che l’ascoltare sia un’attività fuori moda, e lo è per molti motivi. In primo luogo perché viene meno il silenzio, quindi la pre-condizione dell’ascolto, se non c’è silenzio ascoltare diventa un tormento, si riescono ad ascoltano soltanto brani di conversazione. La nostra è una società in cui tutti parlano e nessuno ascolta, all’altro capo del telefono non c’è mai nessuno. Una società che ha bisogno del “Telefono Amico”, è una società fortemente invivibile. La nostra è una società che ha risolto i bisogni materiali, ma non ha risolto i bisogni post-materiali ad esempio il bisogno d’ascolto che ognuno di noi ha. Nella nostra società ascoltare ed essere ascoltati, è un fatto insolito, rarissimo.
Perché si è inascoltanti? Il primo motivo, come abbiamo già detto, perché è venuto meno il silenzio, in secondo luogo perché siamo soggetti ad una pioggia diluviale di messaggi. La nostra è la società della comunicazione, dalla mattina quando ci si alza, alla sera quando si va a letto, si è bersagliati da migliaia di messaggi. E noi ci difendiamo da questa pioggia di messaggi in un modo primitivo, barbaro, rozzo ma efficace: spegniamo l’audio. Non ascoltiamo così i messaggi importanti e vitali, ma neppure tutta quella pioggia di messaggi in spazzaturese che ci raggiungerebbe se tenessimo l’audio acceso.
Infine, siamo inascoltanti poiché non siamo stati educati ad un ascolto pieno: tanto gli insegnanti quanto i genitori si preoccupano in genere che il figlio o l’allievo diventi un maestro del logos. Il genitore si sforza di parlare un buon italiano in casa, perché il figlio impari a sua volta a parlare un buon italiano, ma non gli dà mai buoni esempi d’ascolto. Due anni fa ho scritto un libro per l’Editrice La Scuola intitolato appunto “Educare all’ascolto”. Ebbene, l’ho presentato in mille occasioni e sedi diverse, e mi è capitato di sentire spesso dai genitori reazioni di questo tipo. “Ma io con mio figlio parlo!” Al che io replicavo che tutto quello era troppo poco, perché parlare è facile, è ascoltare che é difficile. Il genitore, in primo luogo più che parlare dovrebbe essere in grado di saper ascoltare. Anch’io con mia moglie parlo, è ascoltarla che è difficile; anch’io con mio figlio parlo, é ascoltarlo che è difficile, è ascoltare le sue ragioni come ragioni che è difficile, cioè mettermi nei suoi panni, perché parlare è la cosa più facile del mondo, mentre ascoltare è un’attività tremendamente complessa. Ho incontrato nel mondo universitario, molte persone che sono maestre nel logos, ma ne ho incontrate pochissime maestre nell’ascolto.
Quando si incontra una persona capace di ascolto non la si dimentica per tutto il resto della vita; ci sono professioni per le quali essere maestri nell’ascolto è estremamente importante: un politico, un sacerdote, un insegnante, un genitore, se non sono bravi ascoltatori, saranno un pessimo padre, un pessimo politico, un pessimo sacerdote, un pessimo insegnante.
La nostra è una società che premia chi fa qualcosa: questa sera sembra che chi stia facendo qualcosa sia il sottoscritto, perché io parlo, gesticolo; voi invece apparentemente sembra che non facciate niente, poiché state educatamente silenziosi ed ascoltate. In realtà solo se siete sintonizzati su altri canali vi riposate tranquillamente, ma se ascoltate davvero ciò che sto dicendo, siete qui che state facendo il lavoro maggiore. Io posso parlare a lungo, ho una bottiglia d’acqua, buone corde vocali, posso andare avanti anche per tre ore, ma qui non potete ascoltarmi per tre ore, perché ascoltare stanca dannatamente. Chi ascolta infatti fa molte azioni contemporaneamente: deve tirar fuori (se c’è) la struttura logica del discorso di colui che parla, deve fare le sue osservazioni, le sue glosse, i suoi rilievi, deve consultare continuamente il proprio dizionario mentale, la propria enciclopedia mentale per vedere se nel proprio bagaglio culturale ci sono quei termini e quelle nozioni di cui fa uso l’oratore e se non ci sono deve ristrutturare le proprie conoscenze. Si tratta di un lavoro faticoso, stancante.
Il vero ascoltatore deve possedere quelle qualità che raramente si sposano felicemente in una persona: deve possedere una piena maturità intellettuale ed emotiva. Ci sono cose che non vogliamo neppure sentire, perché emotivamente le rifiutiamo o perché intellettualmente non le accettiamo, per cui le caselle nere dell’inascolto si infittiscono laddove si sommano questi elementi di immaturità. Trovare una persona, che possegga una siffatta maturità non è cosa da tutti i giorni. Quante volte abbiamo la sensazione di aver parlato, e di non essere stati ascoltati.
Certo, colui che non ascolta vive tranquillo, ma intorno ha l’inferno: vivere accanto ad un inascoltante è una tortura incredibile. In genere, le parole che non si ascoltano sono le parole dei bambini, che (si pensa) non hanno mai niente di importante da dire, o le parole degli anziani, la cui esperienza si ritiene inutile. Da qui deriva la loro marginalizzazione: quanti anziani sarebbero felici, se solo avessero accanto una persona capace di ascoltarli. A me capita di fare conferenze in giro per l’Italia e di arrivare nelle stazioni nelle ore più disparate della notte, quante persone mi chiedono mille lire e vorrebbero un orecchio per dieci minuti, essere solo ascoltati, perché questa sarebbe per loro la felicità più grande.
Oltre a quelli che ho appena elencato ci sono altri due elementi per cui si è oggi inascoltanti: la nostra è una società che privilegia i Narciso e i Peter Pan. Peter Pan, come tutti sappiamo, è quel bambino che non volle mai diventare adulto. Noi siamo circondati da quarantenni e cinquantenni che sono tanti Peter Pan. La nostra é una società che privilegia l'”io” rispetto al “tu” e al “noi”; la nostra è una società fatto di individui, che come Narciso pensano che il tram della storia sia arrivato con loro al capolinea. Il narcisista è un personaggio che pensa che la storia abbia un punto fermo: la sua persona. Per Narciso non c’è mai un parlare per l’altro, ma scopre un parlare per se stesso. Narciso non ha bisogno di un partner, di un interlocutore. Quando parla è sempre portatore di una parola monologante, mai di una parola dialogante: è murato nel proprio io linguistico, in un fanciullesco solipsismo linguistico, dove l’interlocutore è evaporato di fronte al suo io. Per questo la nostra non è un’epoca di dialoghi ma bensì è un’epoca di monologhi. Come capita all’asilo d’infanzia o in certi salotti “bene”, tutti parlano per loro stessi, mai per gli altri.
La nostra, infine, è una società di visivi più che di uditivi. Tra mia figlia Costanza che ha dieci anni e mia madre che ne ha settanta c’è una profondissima differenza: mia madre è tutt’orecchi, mia figlia è tutt’occhi. I loro sensi cioè sono gerarchizzati diversamente: mia madre è nata in una cultura orale, per lei l’orecchio è il senso principe con cui si entra in rapporto con gli altri e col mondo, per mia madre la parola ha un peso, un valore. Per mia figlia, di contro, è l’immagine che ha il peso e il valore principale, per mia figlia l’abito fa il monaco, mia figlia è una lookista, per lei l’occhio è tutto. Il non guardare la televisione in certe ore della giornata in Quaresima per mia madre è un sollievo, per Costanza è una tortura, perché è figlia di una società elettronica il suo sensorio è diverso dal mio, non è nata in una galassia Gutenberg, appartiene ad un’altra galassia, per cui per farsi ascoltare da lei, occorre fare più fatica.
Quando parlo con mia madre non ho problemi, so che è capace di ascoltarmi; con mia figlia invece devo ripetere più volte il messaggio per essere certo che giunga a destinazione, e ciò perché lei è tutt’occhi. Non ama le carezze uditive, ma quelle visive. In un mondo di visivi la parola perde peso, diviene una signora decaduta, una regina senza regno. E’ finito il tempo in cui la parola dominava; oggi la parola è marginalizzata, non è più “in”, è out”, è fuori moda, si comunica per immagini, l’imput arriva alla velocità della luce e colpisce l’occhio più che l’orecchio.
Tenete presente che l’uomo biblico è un uomo tutt’orecchi. Nell’Antico Testamento, il verbo vedere ricorre molte volte meno del verbo udire. Quale personaggio dell’Antico Testamento può dire di aver visto il totalmente Altro in volto? Nessuno. C’è chi ne ha visto i calzari, chi ne ha visto il lembo della veste. Però quanti ne hanno udito la voce? Moltissimi! Nel Nuovo Testamento si legge che i pastori andarono a Betlemme e quando tornarono “raccontarono ciò che avevano udito e visto”, dove l’udire precede significativamente il vedere, perché per l’uomo biblico è più importante l’udire del vedere. Fossero stati pastori del XX secolo, sarebbero tornati ed avrebbero raccontato semplicemente ciò che avevano visto.
In breve l’ascoltare è un’attività fuori moda, per tutti questi motivi, ma il motivo più forte è quello che vi ho ricordato per primo, cioè è fuori moda perché è venuto a mancare il silenzio, quella che è la pre-condizione fondamentale dell’ascolto. Anche se oggi una persona avesse voglia, desiderio di ascoltare, le sarebbe quasi impossibile perché appunto vive immersa nel frastuono, é immersa in questa marmellata linguistica che i mass media ci offrono, in queste parole sincopate, frammentate, singhiozzate, che ci bomardano quotidianamente provocandoci una narcosi intellettuale.
Di fatto, noi viviamo in una situazione di scarsa creatività linguistica. Van Buren, un filosofo del linguaggio, che è anche teologo e ha pubblicato negli anni Sessanta un libro che suscitò un grande scalpore “Il significato secolare dell’Evangelo”, ha successivamente dato alle stampe un altro suo lavoro che è intitolato “Alle frontiere del linguaggio”. Van Buren, in quest’opera, paragona il linguaggio ad una piattaforma: c’è chi sta al centro della piattaforma linguistica, e siamo noi, i pantofolai della lingua, che ci serviamo delle parole per comprare chili di chiodi ed etti di pane, per chiedere informazioni ferroviarie o parlare del tempo. E poi c’è chi si muove alle frontiere del linguaggio. Il parlare o lo scrivere alle frontiere del linguaggio è come il pattinare dove il ghiaccio si fa sottile, si deve essere dei funamboli della lingua. E’ questa un’attività che presenta molteplici rischi. Quelli di cadere nel silenzio, nel non senso, nel balbettamento, nell’incomprensibilità.
Chi parla alle frontiere del linguaggio compie esperimenti linguistici, è linguisticamente creativo. Come si fanno scoperte in scienze, in fisica, in geografia, così si fanno scoperte linguistiche. Coloro che abitualmente si muovono alle frontiere del linguaggio sono i mistici, i poeti, i bambini, perché mistici, poeti e bambini parlano in modo sregolato, non quotidiano: per loro il parlare non è mai un’attività che, può essere compiuta con la mano sinistra, è sempre un parlare che non è mai routiniero.
E’ vero che tra la creatività del bambino e quella del poeta o del mistico c’è una profonda differenza: il bambino è linguisticamente creativo perché ha molti buchi nel suo dizionario mentale e quindi è costretto, se vuol comunicare, a inventare nuove parole. Il poeta, invece, è colui che linguisticamente ha visto tutto, non ha dimenticato nulla e vede le parole come se fossero al loro primo mattino. Il poeta è colui che ha un commercio quotidiano con il dizionario, che abita nella casa delle parole, che le conosce a fondo nelle più riposte pieghe ed è capace di restituire ad una parola la forza che questa ha perduto. Un buon poeta è capace di compiere lifting semantici: togliere cioè le rughe dal volto delle parole. C’è dunque una creatività che è forte nel bambino e nel poeta, anche se ha valenze diverse. Anche noi eravamo creativi da piccoli, e poi, a poco a poco, abbiamo perduto questa creatività linguistica.
Chi ha vicino un bambino tra i tre e i quattro anni, da adoperare come cavia linguistica, potrà avere molte sorprese: da un punto di vista linguistico, cioè, scoprirà come il bambino si muova in modo tentativo ed insicuro sui sentieri del linguaggio e come sia capace di scarti fantastici e meravigliosi; vedrà che il bambino gioca con le parole, così come gioca con il corpo della madre; gioca con le parole cosi come gioca con la sabbia, con le costruzioni, perché le parole per il bambino sono fastelli di suoni, caramelle, cioccolatini, da tenere tra lingua e palato, da tirarne fuori fiumi di delizie e di sapori; il bambino nei confronti delle parole è capace di una meraviglia linguistica che noi non possediamo più. Mio figlio Matteo quando era più piccolo, invece di dire mi prude diceva mi frigge ed era questo uno splendido caso di creatività semantica. Non aveva inventato una nuova parola, aveva preso una parola che già esisteva nel dizionario e le aveva dato un nuovo contenuto semantico.
La creatività linguistica del bambino del poeta e del mistico, porta il caos nel piatto linguaggio feriale. Tutti questi personaggi sono capaci di avere un rapporto festivo con la lingua, che pochi di noi hanno, per questo la frequentazione del poeta, del mistico e del bambino e il prestare attenzione ai loro esperimenti verbali è estremamente importante.
Quando il poeta scopre nuove metafore, nuovi ossimori, ci arricchisce, perché una nuova metafora è una grande scoperta. Il poeta, ad esempio, mi parla del “divino del pian silenzio verde”: ma quand’è, mi chiede, che il silenzio è verde? Potrei suggerirvi un infallibile per avere l’esperienza del “silenzio verde”. Se andate ad Assisi in un meriggio agostano, e dalla balaustra della cattedrale vi affacciate sulla pianura umbra, voi vedrete il “silenzio verde”.
Il poeta è capace con le sue reti linguistiche di catturare pezzi della realtà che voi non avete mai neppure lontanamente immaginato che potessero esistere, il poeta usa le parole come elfi del pensiero, come sonde linguistiche. E così fa il bambino, che è capace di attirare linguisticamente la vostra attenzione su pezzi di realtà che vi erano sfuggiti, che vi stringe a superare la vostra letargia linguistica, la vostra narcosi linguistica, che vi invita ad essere pellegrini nella lingua, a non accontentarvi mai del già acquisito.
Concludendo, possiamo dire che la nostra è una società in cui sperimentiamo la morte del silenzio se facciamo un breve, esame di coscienza, ci rendiamo conto che viviamo la dimensione del silenzio a livelli minimali, omeopatici. La morte del silenzio ha alcune conseguenze: in primo luogo viene meno la parola, non la parola chiacchiera, perché questa sopravvive indenne, anzi è potenziata dai mass media, ma bensì viene meno la parola parlante, cioè quella parola che arriva al cuore, che non scivola sull’uomo indaffarato, che si configge come un dardo nella sua mente. Kafka scrive in una bellissima lettera ad un amico che noi abbiamo bisogno di libri che ci colpiscano come una disgrazia, che siano una scure d’acciaio, capace di rompere il blocco di ghiaccio che é in ognuno di noi, cioè libri scritti con parole parlanti. Libri di questo tipo sono rari; per lo più i libri che abbiamo tra le mani sono “libri Kleenex”, libri usa-e-getta: libri che costituiscono un vero e proprio furto del nostro tipo di lettura, perché ci vuole più tempo a leggerli di quanto ne ha impiegato l’autore a scriverli. Quindi, come vi dicevo, morte del silenzio, morte della parola e venir meno della nostra capacità di ascolto. Celebrare le lodi dell’ascolto non vuol dire celebrare une samaritiasi linguistica, (“si tace per ascoltare gli altri”): in realtà chi è incapace di ascoltare gli altri, alla fin fine è incapace anche di ascoltare se stesso.
Il silenzio-come-ascolto apre alla trascendenza ma fa si che anche a livello dell’immanenza i rapporti siano diversi, ad esempio impedisce che ognuno di noi possa nell’arco della sua vita giocare sempre con sé stesso con delle carte false.
Kierkegaard ha scritto che giunge per tutti l’ora della mezzanotte, l’ora in cui ognuno non può più mentire a se stesso, l’ora in cui ognuno non può più continuare a giocare con carte false. Quest’ora della mezzanotte è l’ora del silenzio, l’ora in cui il silenzio ci aiuta ad aprirci all’ascolto di noi stessi, dell’altro e della trascendenza, e fa si allora che le parole con cui confezioniamo, i nostri messaggi siano parole parlanti e non degli sgorbi, siano cioè delle parole che non possono essere subite nella disattenzione, ma bensì generano attenzione.

NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 16.3.1990 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.