Aristotele – la personalità e il metodo

Autori: Berti Enrico

Prima di iniziare, penso sia giusto ricordare che Aristotele è forse il filosofo che, insieme con Platone, ha avuto la fortuna più straordinaria nella storia della cultura occidentale. A partire dalla tarda antichità è stato uno degli autori più studiati, più letti. Nel Medioevo ha raggiunto il culmine della sua fama, un Medioevo non solo cristiano, non solo europeo, ma prima ancora arabo e musulmano, perché sono stati gli arabi i primi a scoprire la grandezza di Aristotele e a farlo conoscere poi all’Europa cristiana. Sarebbe interessante vedere se oggi qualche dottrina di Aristotele possa costituire un terreno comune per un dialogo interculturale tra il Cristianesimo e L’Islam. Nel Medioevo ha raggiunto forse il culmine della sua fame di cui l’espressione emblematica è Dante Alighieri che, nella Divina Commedia, lo chiama “maestro di coloro che sanno”

Anche nei secoli successivi, nonostante la nascita della scienza moderna abbia reso obsoleta parte della sua filosofia, il pensiero di Aristotele ha continuato a stare alla base dell’insegnamento della filosofia e di molte altre discipline in tutte le principali università europee almeno fino al settecento, almeno fino al tempo di Kant. E poi ancora nell’ottocento, richiama Aristotele uno dei più importanti filosofi del suo tempo, Hegel, che vedeva in Aristotele il più grande filosofo mai esistito e nel tentativo di emularlo considerava sé stesso una specie di Aristotele moderno.

L’aspetto più interessante è la rinascita di interesse per Aristotele che si è avuta nel novecento. Dalla fine degli anni sessanta in poi si è avuta, prima in Europa, poi in America, una riscoperta soprattutto della filosofia pratica di Aristotele, cioè dell’etica e della politica. Esse sono state viste come modelli di sapere, di razionalità capace, da un lato, di conoscere e, dall’altro, anche di valutare, formulare giudizi, e quindi orientare la prassi. La così detta riabilitazione della filosofia pratica, che ha caratterizzato la cultura filosofica dagli anni settanta in poi, è un fenomeno che ci ripropone all’attenzione il pensiero di Aristotele.

Oltre che nella cultura, nella scienza e nella filosofia, c’è una presenza di Aristotele più diffusa e direi forse ancora più interessante. Sarebbe bello fare una ricerca per mostrare come la maggior parte delle dottrine, delle distinzioni, dei concetti formulati da Aristotele sono diventati persino la base del nostro comune modo di pensare e di parlare. Bisogna riconoscere che la cultura europea, così come si è costruita dall’antica Grecia con l’apporto del cristianesimo e poi della scienza moderna, ha mantenuto alla sua base un insieme di concetti, un apparato concettuale, che è di origine aristotelica e si manifesta perfino nel linguaggio comune.

Ogni volta che parliamo di potenza e atto e li distinguiamo, noi usiamo una distinzione introdotta da Aristotele: e così anche quando parliamo di forma e di materia. Aristotele scopre il concetto di materia (già sviluppato da Platone) e dimostra come qualsiasi processo, un qualsiasi mutamento presupponga un sostrato, un soggetto, qualche cosa che muta e che senza un sostrato non è possibile mutamento alcuno. Questa idea ha visto il consenso entusiasta di filosofi anche lontanissimi da Aristotele. Penso a metà dell’ottocento, ai più grandi critici di Hegel, cioè Feuerbach, Marx, Kierkegaard, che criticano la filosofia hegeliana accusandola di aver dimenticato che non ci può essere nessun processo senza che ci sia qualcosa che si trasformi. Questo è un concetto profondamente aristotelico che è alla base del pensare comune e che è il modo giusto di vedere la realtà.

Sarebbero innumerevoli gli esempi che potremmo portare a riguardo. Tutta l’organizzazione delle scienze, che è ancora in uso nelle università, è in grandissima parte di origine aristotelica. L’idea che ci sia, per esempio, una logica distinta da una fisica, una fisica distinta da un’etica, da una politica, da una poetica, da una metafisica è nata da Aristotele.

In queste lezioni non si chiede però di esporre la dottrina dei filosofi trattati, ma di soffermarsi sulla personalità e sul metodo. Per conoscere la personalità di qualcuno, il modo migliore è rifarsi alla sua vita. Vissuto nel IV secolo a.C., Aristotele era di famiglia greca e non macedone come fanno credere alcuni recenti romanzi. Nasce a Stagira, nella penisola Calcidica, ma nella sua infanzia vive alla corte macedone con suo padre, che è medico. Aristotele deve avere ricevuto una qualche influenza dalla mentalità paterna; lui stesso fa continui riferimenti alla medicina dicendo che essa è un po’ il modello, l’arte di recuperare la salute, così come l’etica è l’arte di portare l’anima alla virtù e quindi alla felicità.

Da questa origine trasse anche lo straordinario interesse per il mondo della vita, per gli esseri viventi, piante, animali e uomini. Egli ha una visione biomorfica della realtà, tende ad interpretare la realtà come se essa fosse un organismo vivente o come se essa fosse formata da innumerevoli organismi viventi. Suo padre non era un medico qualsiasi, era il medico del re di Macedonia, quindi probabilmente viveva alla corte di Macedonia, quello stato che avrebbe poi sottomesso la maggior parte delle città della Grecia nel giro di pochi decenni con Filippo II e che con Alessandro Magno avrebbe raggiunto la Persia.

Aristotele vive in questo momento a contatto con questo ambiente estremamente interessante. Il fatto decisivo della sua formazione è la decisione, che non si sa da chi provenne dato che il padre perse la vita quando Aristotele era ancora giovane, di andare ad Atene ed entrare nell’Accademia di Platone. Questa era la scuola di formazione per i futuri governanti, per i politici. Per Platone infatti sono i filosofi che devono governare. All’età di diciassette anni Aristotele va ad Atene e vi rimane per vent’anni, fino all’età di trentasette anni, e la abbandona solo quando Platone muore.

Non dovette rimanere sempre un allievo. Pare che egli assunse anche la funzione di collaboratore di Platone e anche di docente. La scuola era liberale, con filosofi e scienziati e non tutti erano d’accordo con Platone. Speusippo, nipote di Platone, non credeva nella più importante dottrina di Platone, quella delle idee: e questo è prova della grande libertà di pensiero che c’era in questa scuola. È probabile che Aristotele abbia anche rivolto delle critiche al pensiero del suo maestro, che abbia acquisito una sua autonomia di pensiero, una sua originalità, durante questo periodo.

Per ricostruire le vicende biografiche di Aristotele c’è rimasto un documento prezioso: il suo testamento. È stato confermato da un grande biografo dei filosofi antichi, Diogene Laerzio, e secondo gli storici non c’è motivo di pensare che questo testamento non sia autentico. Dal testamento si desumono alcune notizie importanti sulla vita di Aristotele, non si capisce però molto su quello che accadde durante il periodo accademico. Alcuni biografi antichi dicono che Platone avrebbe chiamato Aristotele con l’appellativo di “Nous”, che vuol dire “Intelligenza” in greco. E sarebbe un elogio per un allievo essere chiamato dal maestro “Intelligenza”, “Mente”.

Secondo altri biografi sarebbe stato invece chiamato il “Lettore”. A quel tempo c’era solitamente una copia di un’opera e per leggerla ci si riuniva tutti insieme, uno solo leggeva a voce alta e gli altri ascoltavano; sembra che questo compito fosse attribuito nell’Accademia di Platone ad Aristotele. Queste però sono notizie non del tutto attendibili.

Quello che è certo è che Aristotele, con la morte di Platone, lasciò l’Accademia ed iniziò una serie di soggiorni in varie altre città della Grecia e dell’Asia minore, tra cui Mitilene nell’isola di Lesbo. Fu durante il soggiorno a Mitilene che Aristotele fece alcune importanti osservazioni su animali, specialmente su pesci, molluschi che si trovano soltanto su quell’isola e di cui poi egli parla nelle sue opere. Rivelò in questo modo il suo spirito di naturalista. A Mitilene ebbe come collaboratore Teofrasto.

Dopo aver trascorso alcuni anni nella città di Asso, nell’Asia minore poi a Mitilene, nel 342 venne chiamato dal re Filippo di Macedonia nella capitale del regno per fare da precettore al giovane principe Alessandro. Egli fu dunque il precettore del più grande condottiero dell’antichità. Quando nel 1978 si celebrò in Grecia un centenario della nascita di Aristotele, il governo greco fece stampare dei francobolli e delle medaglie in cui metteva uno accanto all’altro il profilo di Alessandro Magno e quello di Aristotele scrivendo sotto: “Il più grande dei filosofi ed il più grande dei condottieri”. L’idea che fossero stati insieme era per i greci motivo di orgoglio.

Probabilmente Aristotele si occupò dell’educazione di Alessandro e infatti scrisse un dialogo proprio chiamato “Alessandro”, che parlava della colonizzazione. Sappiamo che scrisse un altro dialogo “Sul regno” che probabilmente era rivolto a colui che era destinato a diventare re. Dico “probabilmente” perché questi dialoghi non sono stati conservati. Pare che fossero scritti in un modo molto elegante, infatti Cicerone, che se ne intendeva di stile e che li aveva letti (dal momento che al tempo di Cicerone ancora esistevano), parlando dello stile di Aristotele usa l’espressione “Flumen aureum orationis”.

Il precettorato con Alessandro durò poco perché, dopo alcuni anni, il re Filippo volle associare il figlio al trono. Nominò re Alessandro accanto a lui. Aristotele abbandonò la corte di Alessandro, tornò alla sua città, Stagira, e quando Alessandro organizzò la spedizione contro la Persia, si trasferì ad Atene dove aveva percorso gli anni della sua formazione.

Fondò la sua scuola, situandola in un giardino dedicato ad Apollo Liceo, e fu chiamata Liceo. Vi era probabilmente un viale per passeggiare che si chiamava “Peripato”, e perciò la scuola venne anche chiamata “Peripatetica”. Qualcuno racconta che Aristotele passeggiava circondato dai suoi allievi tenendo lezione mentre camminava, spesso Aristotele diceva nelle sue opere che passeggiare faceva bene alla salute. In questa scuola egli organizza quella che molti studiosi hanno considerato il primo esempio di università, inteso come un istituto superiore di ricerca e di insegnamento.

A differenza dell’Accademia di Platone non pone più come fine della scuola quello di formare uomini politici, dal momento che per Aristotele non sussiste più la corrispondenza tra filosofo e politico. Per lui, il filosofo è colui che cerca la verità e che cerca di conoscere tutti gli aspetti della realtà. Infatti nel suo Liceo, non solo tiene lezioni su tutte le discipline dello scibile, dalla logica alla fisica, alla psicologia, alla metafisica, alla retorica, alla zoologia, all’etica e alla poetica, ma organizza anche una serie di ricerche insieme ai suoi collaboratori.

Fa raccogliere le costituzioni di ben 131 città. Anche queste purtroppo sono andate perdute, ne è rimasta soltanto una, la costituzione degli ateniesi. Era stata certamente un’impresa grandiosa. Raccoglievano tavole anatomiche, tavole geografiche, raccolte di proverbi, elenchi dei vincitori di giochi olimpici, ogni sorta di notizia e di informazione erano raccolte al Liceo di Aristotele e venivano organizzate in funzione dei suoi corsi.

Egli rimane ad Atene fino al 323 quando giunge la notizia della morte di Alessandro. Era certamente un evento imprevedibile che scosse tutto il mondo greco vista la giovane età di Alessandro. Molte città greche che mal sopportavano l’egemonia macedone insorsero. Aristotele si sentì in pericolo, se all’età di 61 anni decise di andarsene. Dovevano esserci delle ragioni gravi. Probabilmente era legato all’ambiente della corte macedone, sicuramente era amico del reggete che Alessandro aveva lasciato ad Atene, Antipatro, quindi egli sarebbe passato per l’amico dei macedoni. Si ritirò a Calcide, dove era nata sua madre. Morì dopo un anno, all’età di 62 anni. È straordinario pensare quanto ha scritto e quanto ha fatto Aristotele in 62 anni.

Una volta chiariti questi episodi, si può iniziare a tratteggiare qualche aspetto della personalità di Aristotele. Egli passa per un filosofo arido, astratto, razionale. Le opere che ci sono pervenute sono degli appunti in cui non si fa alcuna concessione all’eleganza dello stile. Eppure egli non era insensibili agli affetti. Conosceva infatti il sentimento dell’amicizia che lo legava, per esempio, a Platone. È diventata proverbiale la frase “Amico è Platone, ma ancora più amica deve essere la verità”. Egli si trova obbligato a criticare Platone in alcuni passi della sua etica e gli spiace, perché è un amico. In un’elegia chiama Platone “L’uomo che i malvagi non sono nemmeno degni di nominare”. Egli però ebbe altri amici, Ernia, di cui sposò la figlia. Fu amico di Teofrasto. Inoltre fu uno dei pochi filosofi con famiglia; ebbe due figli, Pizia e Nicomaco, che dedicò l’Etica Nicomachea. Ebbe, come tutti all’epoca, degli schiavi di cui dispone la liberazione nel suo testamento. Ebbe sentimenti religiosi: ordina nel testamento che siano erette delle divinità in segno di riconoscenza nel caso in cui suo nipote torni incolume dalla guerra contro i persiani.

Il tratto però più significativo è la sua passione per la ricerca. La sua era una curiosità insaziabile. Trovava in tutto qualche cosa di interessante. Quando alla fine dell’Etica Nicomachea si chiede in cosa consista la felicità, egli si risponde dicendo che essa sta nella vita teoretica. È spesso tradotta con “vita contemplativa”, anche se io non sono totalmente d’accordo. Egli intendeva la vita dello scienziato, dello studioso, di colui che si dedica ogni volta che può all’investigazione sulla cultura, sulla società, sugli uomini, sulla natura, sulla poetica.

Da un passo del De partibus animalium si legge: “Delle realtà che sussistono per natura, alcune ingenerate e incorruttibili, esistono per la totalità del tempo”, sono gli astri. “Altre invece partecipano della generazione e della corruzione”, queste invece sono le realtà terrestri. “Il cielo è la ragione dell’eternità, la terra della nascita e della morte. Circa le prime realtà che sono nobili e divine, ci tocca di avere minore conoscenze, giacché pochissimi sono i fatti osservati dall’osservazione sensibile a partire dai quali si possa condurre l’indagine su tali realtà, cioè su quanto aneliamo di sapere”.

Dunque, Aristotele anela al sapere, a conoscere come sono fatte le realtà eterne, gli astri. Egli non ha il cannocchiale. “Quanto invece alle cose corruttibili, piante e animali, la nostra conoscenza di esse è più agevole grazie alla comunanza di ambiente. Molte conoscenze relative a ciascun genere può infatti ottenere chi voglia adoperarvisi adeguatamente. Ma entrambi i campi di ricerca hanno la loro bellezza, sia il cielo, sia la terra. Per quanto poco noi vi possiamo attingere delle realtà incorruttibili, tuttavia grazie alla nobiltà di questa conoscenza, ce ne viene più gioia che da tutto ciò che è intorno a noi, così come una visione pur fuggitiva e parziale della persona amata ci è più dolce della esatta conoscenza di molte altre cose per quanto importanti esse siano”. È anche poetico paragonare la conoscenza che abbiamo del cielo alla visione di una persona amata che se anche è fuggevole, ci riempie di gioia, più di molte altre cose. “Le altre realtà però grazie alla possibilità di conoscerle in modo più profondo e più esteso, danno luogo ad una scienza più vasta. Inoltre, giacché sono più vicine a noi e familiari alla nostra natura, stabiliscono in qualche modo l’equilibrio con la filosofia vertente sulle cose divine”.

Quindi le cose divine le conosciamo poco, mentre quelle di quaggiù sono meno nobili però possiamo conoscerle molto meglio. “E perfino circa quegli esseri che non presentano attrattive sensibili, tuttavia a livello dell’osservazione sensibile, la natura che li ha forgiati offre grandissime gioie a chi sappia comprenderne le cause, cioè sia autenticamente filosofo”. Anche la realtà più povera è interessante per il naturalista. Poi conclude dicendo: “Non si deve dunque nutrire un infantile disgusto verso lo studio dei viventi più umili. In tutte le realtà naturali v’è qualcosa di meraviglioso”.

È proprio questo il suo ideale di vita, quello di chi vuole conoscere. Conoscere non riconducendo tutto ad un’unità, non omogeneizzando, non confondendo, ma preservando le differenze, rispettando la varietà. L’Essere non ha uno solo ma molteplici significati, lo si afferma in molti sensi. La sua tendenza è quella di apprezzare la diversità, la varietà che caratterizza il mondo dell’esperienza.

Non si può però dimenticare, sia che si sia credenti, sia che non lo si sia, che Aristotele è stato il primo filosofo che con mezzi puramente umani, è riuscito a dimostrare che ci deve essere un principio da cui, lui dice, “dipendono il cielo e tutta la natura”. Non ha trovato di meglio che paragonarlo al pensiero. Un essere intelligente è anche vivente e vive eternamente, e chi viveva eternamente per i greci erano gli dei, allora anche chi vive è un dio. È molto importante, perché non glielo ha suggerito nessuna fede religiosa; egli ci arrivò con i soli mezzi umani. Egli si occupa di questo concetto trascendentale in una sola opera, la Metafisica.

La maggior parte delle sue opere sono dedicate alla descrizione della realtà molteplice. Aristotele è anche l’inventore del metodo. È il primo che teorizza in modo chiaro ed esplicito i diversi metodi di ricerca. Non esiste un unico metodo. Ogni scienza ha il suo, che può essere più o meno rigoroso, più o meno esatta. La matematica è sicuramente la scienza più rigorosa e ha come metodo la dimostrazione. Esiste la geometria deduttiva che ha un metodo diverso rispetto alla fisica che studia la natura. Questo perché la scienza che studia gli oggetti naturali non ha lo stesso rigore degli oggetti della matematica. Gli enti naturali mutano, ammettono distinzioni, non sono eternamente tali. La fisica è quindi più malleabile.

Anche l’etica non può avere la stessa esattezza della matematica: non può però nemmeno scivolare al piano della sola retorica. Essa è una razionalità pratica, che deve adeguarsi alle situazioni, deve riconoscere il particolare, perché l’azione si svolge nelle situazioni particolari. L’etica non deve quindi imitare la matematica, ma si deve dare un suo metodo diverso da quello della matematica, poiché ha a che fare con le azioni umane, cioè con quanto di più variabile ed imprevedibile. Una bravo retore non solo deve eccitare le passioni, ma deve anche argomentarle razionalmente. Il fine è la persuasione, ma c’è anche una forma di argomentazione, una forma di razionalità. Perfino la poesia è una forma di conoscenza perché tratta con concetti universali; è superiore alla storia che invece tratta di argomenti particolari. Essa è più filosofica della storia.

Il metodo di Aristotele consiste in una molteplicità di metodi che hanno tutti una caratteristica: partire da ciò che è a noi più noto ed andare verso ciò che è più chiaro in sé. Quindi partire dall’esperienza e andare alla ricerca dei principi. Aristotele è il filosofo che rivendica il valore dell’esperienza. E non si parla solo di esperienza sensibile, ma anche dell’essere esperto, di aver acquisito una certa attitudine, una familiarità con l’oggetto. Egli dice di essere esperto di una cosa solo quando ha di essa molti ricordi. Di questa esperienza ha bisogno non solo la fisica o la metafisica, ma anche l’etica e la politica. Per questo etica e politica non sono le scienze più adatte ai giovani che, al contrario, riescono bene in matematica, poiché per essa basta l’intelligenza e non serve esperienza. Esperienza di vita e di uomini è ciò che serve.

Ci sarebbero tante altre cose da dire su questa straordinaria figura, spero di averne fornito almeno i tratti essenziali.

NOTA: testo, rivisto dell’Autore, della conferenza tenuta il 8.2.2001 a Brescia su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.