La Resistenza come rivolta morale

Dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, in quei venti mesi, si rimise in moto la storia d’Italia. Con la Resistenza l’Italia visse, a livello di popolo, la sua prima grande «rivolta morale»; riscoprì un nuovo e più alto senso di patria, in antitesi al bellicismo fascista e in diretta connessione con gli ideali risorgimentali; vide la sua gente progressivamente impegnarsi in una scelta politica che faceva sue le ragioni dell’antifascismo e della democrazia; si ricongiunse, finalmente, con lo spirito mazziniano della «rivoluzione democratica», all’«Europa dei popoli» soggetti alla dominazione nazista e insorgenti.
La Resistenza italiana si inserisce, infatti, sia pure con caratteri suoi propri, nel più vasto quadro della Resistenza europea, che ha inizio ben prima dell’8 settembre in Norvegia, Francia, Olanda, Belgio, Danimarca, Polonia, Grecia, Jugoslavia, Cecoslovacchia, Russia, Romania, Ungheria, Bulgaria, Austria, Albania.
Dall’8 settembre gli italiani sperimentarono direttamente, sulla propria pelle, il regime di schiavismo e di terrore imposto dalle SS e nella gerarchia dell’oppressione vennero al terzo posto, dopo ebrei e russi. Affratellati agli altri popoli europei nell’obbrobrio e nel martirio, gli italiani presero coscienza della misura europea della crisi prodotta dal conflitto. E come ex prigionieri o giovani di ogni parte d’Europa, inseriti nelle formazioni germaniche, affluirono nelle nostre bande partigiane, così tanti nostri soldati si affiancarono ai ribelli greci, jugoslavi, francesi in fraternità di armi e di intenti.
Sull’Europa era allora «notte e nebbia». Non si possono intendere le nostre vicende del 1943-’45 senza richiamare alla memoria l’abisso di orrore in cui l’Europa era stata gettata. Nei territori occupati dai nazisti erano sorti governi satelliti poggianti sullo strapotere delle SS di Himmler. Le popolazioni venivano sottoposte a deportazioni in massa. Dovunque era applicato il principio della responsabilità collettiva, concretantesi nell’uccisione di un gran numero di ostaggi. I principi razzisti venivano applicati con scrupolosa, raffinata barbarie. Ad Auschwitz si potevano uccidere col gas 2.000 persone in mezz’ora. A Varsavia i 400 mila abitanti del ghetto vennero completamente sterminati. Deportati nei campi di annientamento di Dachau, di Buchenwald, di Mauthausen e negli altri 900 campi minori, o sterminati nei ghetti, più di sei milioni di ebrei vennero trucidati. Il nazifascismo con la tirannide, il genocidio e la guerra, aveva distrutto ogni senso di ordine umano e divino, «aveva offeso giustizia, legge, umanità, gratitudine, decenza e moralità» (Wiechert).
Parlare di Resistenza significa parlare di un movimento e di un fatto che investe l’intera Europa, stretta nella morsa della barbarie nazista. Resistere significò rifiutare moralmente e politicamente il nazifascismo e, di conseguenza, scendere in lotta contro gli occupanti nazisti e contro i governi e le forze che con loro collaborarono.
L’anima cristiana dell’Europa, spesso ignara dei suoi obblighi e delle sorgenti della sua vita spirituale, violentemente offesa, prese coscienza di sé. Le confessioni religiose compresero che l’era razziale, se fosse stata vittoriosa, avrebbe cancellato l’era cristiana, come aveva ripetutamente ammonito sin dal 1930 un eroe della lotta al nazismo, il gesuita tedesco Friedrich Muckermann, e poi solennemente proclamato da Pio XI nel 1937 nell’Enciclica Mit brennender Sorge contro il «neo-paganesimo razzista». L’impero delle SS rese visibile a occhio nudo, a tutti, quanto fosse nel vero Huizinga quando nel 1935 aveva scritto che «forse per la prima volta l’umanità si trova di fronte a un decadimento dello spirito, tale da menar diritto, senza neppure sfiorare la sfera dell’animalismo ingenuo, a un satanismo innalzante il male a norma e a segnale luminoso». Fu questa componente etica ed etico-religiosa di opposizione al disumanesimo e all’anticristianesimo nazista a caratterizzare la lotta resistenziale come rifiuto congiunto del razzismo, del nazionalismo esclusivistico e del totalitarismo, condizionando in senso fortemente positivo e sovrastando l’ulteriore, indispensabile dibattito politico.
Ma chi, forse meglio di ogni altro, nell’infuriare della lotta, dette voce a questo limpido e intenso modo di vivere la Resistenza fu Teresio Olivelli, presenza ancor viva nella memoria e nella coscienza di tanti bresciani. Ne scrisse sul secondo numero del Ribelle, datato 26 marzo 1944, a firma Cursor, dandoci una delle pagine più belle della Resistenza italiana in genere e cattolica in specie: «Ribelli: così ci chiamano, così siamo, così ci vogliamo. Il disprezzo dei fascisti è la nostra esaltazione, il loro servaggio allo straniero fermenta l’aspro sapore della nostra libertà. Siamo dei ribelli: la nostra è anzitutto una rivolta morale». Rivolta, ma contro che cosa? «Contro il putridume in cui è immersa l’Italia svirilizzata, asservita, governata, depredata, prostituita nei suoi valori e nei suoi uomini, contro lo stato che assorbe e ingoia scoronando la persona di ogni libertà di pensiero e di iniziativa, prostrando l’etica a etichetta… Contro la massa pecorile pronta a tutto servire… Contro gli ideali d’accatto, il banderuolismo astuto, l’inerzia infingarda, l’affarismo approfittatore , la verità d’altoparlante, la coreografia dei fatti meschini… Contro l’oppressore che del nostro Paese fa terra bruciata, che ci spoglia di tutto e ci irrora del suo «superiore» disprezzo: l’oppressore che caccia per strade e campagne ed in vagoni bestiame ammassa uomini e donne, animali da lavoro per le fucine tedesche, la guerra tedesca, l’affamamento tedesco. Da quando Cristo levò la sua parola redentrice mai si vide più organizzata barbarie. È la tratta dei bianchi, la cattività babilonica in più scientifica schiavitù. Ma chi non rispetta in sé e negli altri l’uomo, ha egli stesso anima da schiavo». In un momento in cui pare che non ci sia più nulla da salvare, bisogna gettare se stessi nell’inferno della vita, «con rischiosa ed intensa moralità», liberi non solo da ogni contaminazione, ma anche dalla «tentazione degli affetti», con l’anima protesa alla «nuova città».
«A questa nuova città noi aneliamo – concludeva Olivelli – con tutte le nostre forze: più libera, più giusta, più solidale, più cristiana. Per essa lottiamo: lottiamo giorno per giorno perché sappiamo che la libertà non può essere elargita dagli altri. Non vi sono «liberatori». Solo, uomini che si liberano… Lottiamo anche perché sentiamo di essere l’esercito reale della nazione e dell’umanità».
Quella di Olivelli non è che una delle tante testimonianze, nel quadro europeo e italiano, anche se particolarmente idonea a restituire una dimensione più umana alla storia di ieri e insieme al senso della vita e della convivenza sociale dell’oggi. Fu cosa di grande momento nel cuore della Resistenza europea ed italiana, ci fu anche, e ne fu l’espressione più alta, una «ribellione per amore».

Bresciaoggi, 25 aprile 1975.