La Resistenza fu l’inizio di una nuova storia

LA RESISTENZA FU L’INIZIO DI UNA NUOVA STORIA[1]

Sono passati quarant’anni dall’aprile 1945. Non sono pochi. Essi rappresentano un arco di tempo sufficiente a permettere un ripensamento sereno e spregiudicato della Resistenza come di un evento che è entrato a far parte della nostra storia e che ha portato in essa un impulso nuovo. Si deve rendere intelligibile il fenomeno resistenziale. Hanno nuociuto alla Resistenza la retorica celebrativa, le mistificazioni, gli accaparramenti monopolistici, il malcostume di chi dilata oltre misura il concetto di fascismo per colpire qualsiasi avversario politico e per immunizzare da ogni riserva critica nuovi miti palingenetici, non meno delle campagne denigratorie degli avversari e dei tentativi di minimizzare la tragica realtà del nazifascismo.

Cronologicamente noi italiani col termine Resistenza indichiamo quel periodo che va dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945. In quei venti mesi si rimise in moto la storia d’Italia: con la Resistenza l’Italia visse, a livello di popolo, la sua grande ‘rivolta morale’; riscoprì un nuovo e più alto senso di patria, in antitesi al bellicismo fascista e in diretta connessione con gli ideali risorgimentali; vide la sua gente progressivamente impegnarsi in una scelta politica che faceva sue le ragioni dell’antifascismo e della democrazia; si ricongiunge finalmente, con lo spirito mazziniano della rivoluzione democratica, all’Europa dei popoli soggetti alla dominazione nazista e insorgenti. La Resistenza italiana si inserisce, infatti, sia pure con caratteri suoi propri, nel più vasto quadro della resistenza europea, che ebbe inizio ben prima dell’8 settembre in Norvegia, Francia, Olanda, Belgio, Danimarca, Polonia, Grecia, Jugoslavia, Cecoslovacchia, Russia, Romania, Ungheria, Bulgaria, Austria, Albania.

Dimensione europea e carattere di ‘rivolta morale’

Dall’8 settembre gli italiani sperimentarono direttamente, sulla propria pelle, il regime di schiavismo e di terrore imposto dagli SS e nella gerarchia dell’oppressione vennero al terzo posto, dopo ebrei e russi. Affratellati agli altri popoli europei nell’obbrobrio e nel martirio, gli italiani presero coscienza della misura europea della crisi prodotta dal conflitto. E come gli ex-prigionieri e i giovani di ogni parte d’Europa, inseriti nelle formazioni germaniche, affluirono nelle nostre bande partigiane, così tanti nostri soldati si affiancarono ai ribelli greci, jugoslavi, francesi in fraternità di armi e di intenti. Sull’Europa era allora ‘notte e nebbia’. Non si possono intendere le nostre vicende del 1943-45 senza richiamare alla memoria l’abisso di orrore in cui l’Europa era stata gettata. Nei territori occupati dai nazisti erano sorti governi satelliti poggianti sul potere poliziesco nazista. Le popolazioni venivano sottoposte a deportazioni in massa. Dovunque era applicato il principio della responsabilità collettiva, concretantesi nell’uccisione di un gran numero di ostaggi. I principi razzisti venivano applicati con scrupolosa, raffinata barbarie. Ad Auschwitz si potevano uccidere col gas due mila persone in mezz’ora. A Varsavia i 400 mila abitanti del ghetto vennero completamente sterminati. Deportati nei campi di annientamento di Dachau, di Buchenwald, di Mauthausen e delle altre centinaia di campi minori, o sterminati nei ghetti, non meno di cinque milioni di ebrei vennero trucidati. Il nazifascismo con la tirannide, il genocidio e la guerra, aveva distrutto ogni senso di ordine umano e divino, «aveva offeso giustizia, legge, umanità, gratitudine, decenza e moralità» (Ernst Wiechert, Discorso alla gioventù tedesca, 1945; trad. it. Roma, 1965, p. 479.

Parlare di Resistenza significa parlare di un movimento e di un fatto che investe l’intera Europa, stretta nella morsa della barbarie nazista. Resistere significò rifiutare moralmente e politicamente il nazifascismo e, di conseguenza, scendere in lotta contro gli occupanti nazisti e contro i governi e le forze che con loro collaborarono.

L’anima cristiana dell’Europa, spesso ignara  dei suoi obblighi e delle sorgenti della sua vita spirituale, violentemente offesa, prese coscienza di sé. Le confessioni religiose compresero che l’era razziale, se fosse stata vittoriosa, avrebbe cancellato l’era cristiana. L’impero delle SS rese visibile a occhio nudo, a tutti, quanto Huizinga fosse nel vero quando, nel 1935, aveva scritto che «forse per la prima volta l’umanità si trova di fronte a un decadimento dello spirito, tale da menar diritto, senza neppur sfiorare la sfera dell’animalismo ingenuo, a un satanismo innalzante il male a norma e a segnale luminoso». Fu questa componente etica ed etico-religiosa di opposizione al disumanesimo nazista a caratterizzare la lotta resistenziale come rifiuto congiunto del razzismo, del nazionalismo esclusivistico e del totalitarismo, condizionando e sovrastando l’ulteriore, indispensabile dibattito politico. Nel cuore della Resistenza europea ed italiana ci fu anche, e ne fu l’espressione più alta, la ribellione per amore, secondo la bella e forte espressione di Teresio Olivelli, la Resistenza come rivolta morale. Chi forse meglio di ogni altro, nell’infuriare della lotta, dette voce a questo limpido e intenso modo di vivere la Resistenza fu proprio Teresio Olivelli. Ne scrisse sul secondo numero del Ribelle, datato 26 marzo 1944, a firma Cursor, dandoci una delle pagine più belle della Resistenza italiana in genere e cattolica in specie: «Ribelli: così ci chiamiamo, così siamo, così ci vogliamo. […] Siamo dei ribelli: la nostra è anzitutto una rivolta morale». Rivolta, ma contro che cosa? «Contro il putridume in cui è immersa l’Italia svirilizzata, asservita, sgovernata, depredata, prostituita nei suoi valori e nei suoi uomini, contro lo stato che assorbe e ingoia scoronando la persona di ogni libertà di pensiero e di iniziativa, prostrando l’etica a etichetta. […] Contro la massa pecorile pronta a tutto servire. […] Contro gli ideali d’accatto, il banderuolismo astuto, l’inerzia infingarda, l’affarismo profittatore, la verità d’altoparlante, la coreografia dei fatti meschini. […] Contro l’oppressore che del nostro paese fa terra bruciata, che ci spoglia di tutto e ci irrora del suo ‘superiore’ disprezzo: l’oppressore che caccia per strade e campagne ed in vagoni bestiame ammassa uomini e donne, animali da lavoro per le fucine tedesche, la guerra tedesca, l’affamamento tedesco. Da quando Cristo levò la sua parola redentrice, mai si vide più organizzata barbarie. […] Ma chi non rispetta in sé e negli altri l’uomo, ha egli stesso anima da schiavo». In un momento in cui pare che non ci sia più nulla da salvare, bisogna gettare se stessi nell’inferno della vita, «con rischiosa ed intensa moralità», liberi non solo da ogni contaminazione, ma anche dalla ‘tentazione degli affetti’, con l’animo proteso alla ‘nuova città’.

«A questa nuova città noi aneliamo – concludeva Olivelli – con tutte le nostre forze: più libera, più giusta, più solidale, più cristiana. Per essa lottiamo: lottiamo giorno per giorno perché sappiamo che la libertà non può essere elargita dagli altri. Non vi sono “liberatori”. Solo, uomini che si liberano… Lottiamo anche perché sentiamo di essere l’esercito reale della nazione e dell’umanità».

Quella di Olivelli non è che una delle tante testimonianze, nel quadro europeo e italiano, anche se particolarmente idonea a restituire una dimensione più umana alla storia di ieri e insieme al senso della vita e della convivenza sociale dell’oggi.

Un nuovo e più alto senso di patria

Nel disfacimento generale degli organi statuali e delle forze armate nell’autunno 1943, il paese trovò in sé la forza per uscire dal caos del “si salvi chi può”, dalla rassegnazione passiva, dall’attendismo inerte e iniziò la lotta armata contro l’oppressore e i suoi complici. «Noi combatteremo la nostra guerra che non è la vostra guerra», dichiarava con fierezza Ferruccio Parri al primo incontro, a Lugano, con gli inviati delle potenze alleate. Certo il nemico era lo stesso e la collaborazione con gli Alleati era ovviamente necessaria e di primaria importanza, ma la parte degli italiani, per risorgere a dignità di popolo indipendente e di stato democratico, non poteva essere delegata ad altri. Nella lotta al nazifascismo gli italiani riscoprirono un nuovo senso dell’onore nazionale.

La nostra Resistenza diede un alto contributo di sacrificio, tutta costellata com’è di catture, torture, stragi, così come delle audacie eccessive che una lotta di quel genere richiedeva, dovendo essa tendere sempre tutte le sue forze allo stremo. Il martirio, che aveva nobilitato tante pagine del nostro risorgimento, dallo Spielberg a Belfiore, diventò regola e non eccezione, rischio consapevolmente assunto, atto di fede in un’umanità migliore, in una patria finalmente libera dal dispotismo. Lo testimoniano le Lettere di condannati a morte della Resistenza, che ad ogni lettura non cessano di stupirci e commuoverci per la semplicità, la carica umana, la fierezza di coloro che le scrissero.

Franco Balbis, torinese, ufficiale in servizio permanente effettivo, scrive: «Con la coscienza d’aver sempre voluto servire il mio Paese con lealtà e con onore, mi presento davanti al plotone d’esecuzione col cuore assolutamente tranquillo e a testa alta. Possa il mio grido “Viva l’Italia libera” sovrastare e smorzare il crepitìo dei moschetti che mi daranno la morte; per il bene e per l’avvenire della nostra patria, per la quale muoio felice!». E Mario Batà, romano, studente in ingegneria, con una sola espressione lapidaria dice ai genitori: «Perdonatemi se ho preposto la patria a voi». Il maestro elementare Giacomo Cappellini, cattolico, bresciano, medaglia d’oro al valor militare: «Muoio cosciente  d’aver compiuto il mio dovere sino all’ultimo e senza alcun rimorso di coscienza circa il mio modo d’agire, tutto dedito ad un ideale: la patria». L’operaio comunista Guido Galimberti, bergamasco, non si esprime in termini diversi: «Care bimbe, ora non potete leggere questo mio ultimo saluto, ma lo leggerete un tempo nel quale potrete comprendere; allora apprenderete in questo foglio la morte di vostro padre e saprete che è morto da soldato e da italiano e che ha combattuto per avere un’Italia libera. Spero che non piangerete quando leggerete questo mio scritto. Spero che quando sarete grandicelle, mamma vi farà imparare ad amare l’Italia. L’amerete con tutto il cuore, addio». Un umile cameriere bresciano, Francesco Franchi, nell’ultima lettera inviata alla sorella pur nell’impaccio dell’espressione e nell’incerta grafia ci dà, con un linguaggio di straordinaria spontaneità, un’alta lezione di vita: «Oggi 2.12.43 ho avuto il processo, e le mie proteste non valsero a scongiurare la pena da loro già prefissa ancora prima di interrogarmi. […] Sono stato condannato, sì, per bandito ma la vera causa è perché sono stato fedele alla mia patria». E quando, siamo al 29 febbraio 1944, gli aguzzini danno a Peppino Pelosi la notizia che la sera stessa verrà giustiziato, quel partigiano, in cui era stata sempre viva la coscienza di essere un ufficiale che continuava sulle montagne il suo servizio militare, scrive nella lettera-testamento queste grandi parole: «Chiudo questa mia vita serenamente. Non ho rimpianti nel lasciarla perché coscientemente l’ho offerta per questa terra che immensamente ho amato, e anche ora offro questo mio ultimo istante per la pace nel mondo, e soprattutto per la mia diletta patria, alla quale auguro figli più degni di me e un avvenire splendente».

Questo nuovo, appassionato senso di patria è ciò che unì uomini appartenenti a diverse ideologie, a diverse famiglie spirituali, a diversi ceti sociali. Da esso muoveva e ad esso faceva appello il proclama del Comitato di liberazione nazionale dell’Italia Settentrionale del 7 ottobre 1943:

«Dinanzi agli orrori dell’occupazione tedesca i partiti politici italiani sentono oggi il dovere d’essere più che mai uniti e di rimanere al loro posto di combattimento per la liberazione della patria. Per questo il Fronte dei partiti antifascisti assume ora il nome di comitato di liberazione Nazionale. Una nuova Italia sta sorgendo:l’Italia redenta, sulla quale non potrà dominare mai più l’oppressione fascista, né qualunque altra forma di governo che non sia emanazione della volontà popolare. Ogni carità di patria c’impone di far tacere ogni sentimento che possa costituire ostacolo alla più completa unità degli italiani contro l’oppressore. Il Comitato di Liberazione nazionale dell’Italia settentrionale, sicuro interprete della volontà degli italiani degni di questo nome, chiama tutto il popolo alla lotta contro il tedesco invasore e contro i traditori che se ne fanno servi e delatori. Nessun cuore vacilli. Uomini e donne, vecchi e fanciulli, ognuno si consideri mobilitato per la grande causa comune. Chi possiede senta l’imperioso dovere di dare largamente ai molti che tanto soffrono. Non lasciamo deportare i nostri uomini in terra straniera come bestiame razziato. Non lavoriamo per il nemico tedesco. Non lasciamoci inquadrare coattivamente nelle sue formazioni armate. Per la nostra civiltà, per l’avvenire dei nostri figli, resistiamo alle prepotenze d’una tirannide già condannata dalla storia. Ci unisca il grido dei nostri padri: Fuori i tedeschi”!».

La stampa partigiana è sin dall’inizio, quasi senza eccezione, sulla stessa lunghezza d’onda. Nel n. 1 del giornale «Il combattente» (ottobre 1943), nell’articolo di fondo Perché ci battiamo, si dice testualmente:

«L’Italia non può, non deve cedere alle violenze naziste e fasciste. L’Italia deve difendere contro i tedeschi e contro i fascisti il proprio diritto alla pace e alla libertà: deve opporsi alle intenzioni naziste e fasciste di inviare i soldati italiani a battersi contro altri italiani, contro le truppe angloamericane che risalgono la penisola spazzando via gli occupanti tedeschi ed i loro alleati fascisti.

Nessun italiano, nessun soldato non può e non deve subire queste violenze. Piuttosto che cedervi,  già centinaia e migliaia di patrioti hanno abbandonato le loro case e si sono dati alla macchia, dando vita a formazioni militari disposte a resistere ai nazisti e a battersi per cacciarli d’Italia. Sono dei militari e dei civili, dei soldati e degli ufficiali, dei lavoratori e degli intellettuali che si ritrovano in uno stesso sentimento di patriottismo e di combattività. Ecco perché in queste settimane le nostre montagne e le nostre campagne si popolano di queste formazioni che le popolazioni assistono materialmente e moralmente».

Il termine “secondo risorgimento” è richiamato sempre più spesso e da più parti ad attestare un’essenziale continuità con quel processo politico e culturale che vide congiunte strettamente coscienza nazionale e libertà, amor patrio e fervide aspirazioni europeistiche. Nel primo numero di «Risorgimento liberale» (18 agosto 1943) si legge: «Sapremo perdonare anche ai tedeschi quando saremo nella comunità di un’Europa libera e civile. Ad un’Europa libera, affratellata nello sforzo di civile rinascita, tendono le speranze di tutto il nostro popolo».

E nobilmente Carlo Sforza nella Lettera agl’italiani pubblicata su «L’azione» del 13 settembre 1943 (anno I, n. 1) si appellava alla “vecchia civiltà umanistica italiana” e al fatto che «le nostre più nobili tradizioni, da Dante a Mazzini, son più ricche di spirito universalistico che altrove», facendo risuonare le grandi parole di Mazzini: «Io amo la mia patria perché amo tutte le patrie». Fin dal maggio 1943 «L’unità europea» aveva scritto: «Alla fine di questa guerra l’unificazione d’Europa rappresenterà un compito possibile ed essenziale»: il solo capace di far cessare, per sempre, la guerra tra i popoli del nostro continente e di ridare ad esso un significato storico, un ruolo nuovo e più alto.

Dall’antifascismo storico alla resistenza

Nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre fu spontanea la reazione all’occupazione tedesca, ai rastrellamenti nazisti, all’ultima incarnazione del fascismo. In montagna si ritrovarono ben presto gli sbandati, i renitenti alla leva fascista, i giovani pervenuti a un “neo-antifascismo tendenziale e generico” dalle esperienze disastrose della guerra fascista, quelli desiderosi dell’azione in quanto tale, ma anche i militanti nei partiti antifascisti e i più decisi assertori della “rivolta morale”.

La protesta spontanea fu all’origine di scelte individuali di larghi strati di resistenti, ma non è lecito confondere il momento aurorale della Resistenza con il suo effettivo sviluppo militare e politico. Non è concepibile una lotta partigiana senza la identificazione delle ragioni politiche di fondo della propria scelta. Senza il dibattito politico, senza l’apporto dei partiti antifascisti usciti dalla clandestinità il 25 luglio, senza il loro impegno nella politicizzazione delle forze resistenziali, senza la loro vigile presenza animatrice nelle fabbriche e nelle campagne la Resistenza non sarebbe mai stata la mobilitazione di tutto un popolo e non avrebbe avuto l’efficacia e la continuità che ebbe.

Malgrado le differenze di esperienze e di generazioni, si operò quasi dappertutto la saldatura tra i superstiti combattenti dell’antifascismo “storico”, irriducibili alle minacce e alle lusinghe del regime, fuorusciti o prigionieri in patria, condannati al carcere o al confino e i nuovi combattenti, i resistenti, i giovani illusi e traditi dal fascismo. E così, mentre si lottava, spesso in condizioni disperate, si lavorò a prefigurare una visione etico-politica della nuova società, e quindi a delineare, inevitabilmente, quelle idee programmatiche e quegli istituti che avrebbero dovuto segnare nella realtà storica il superamento dello stato liberale e la sconfessione del totalitarismo, la fondazione dello stato di diritto proteso ad attuare la libertà politica e la promozione dei diritti della persona umana a tutti i livelli. Ogni componente della Resistenza, dal movimento “Giustizia e libertà” ai socialisti, dai liberali ai comunisti, ai democratici cristiani, dette un suo specifico contributo alla causa comune e l’unità della Resistenza ne fu la difficile e insieme preziosa risultante, sempre sostanzialmente conservata, sebbene sempre percorsa da una vivace e spesso esasperante lotta politica. L’unità della Resistenza fu conquistata nel superamento delle divisioni tra i partiti dal CLN e in seno ai partiti stessi, per una eroica tensione morale, quella stessa per cui gli uomini si fecero intransigenti verso il comune nemico, perché intransigenti con la propria coscienza.

In quel lavoro di incessante chiarificazione degli scopi della lotta, nel dibattito direttamente inserito nella realtà della lotta, il ruolo decisivo, nel Sud, a Salerno e a Roma, come nel CLN Alta Italia, fu assunto dai capi dell’antifascismo “storico”, da Sforza a De Gasperi, da Bonomi a Togliatti, e da quella classe politica che aveva combattuto la dittatura totalitaria.

Tuttavia sfogliare la stampa clandestina – e soprattutto i primi numeri, quelli “programmatici” – significa poter cogliere da vicino, senza il linguaggio dell’ufficialità e delle segreterie di partito, qualcosa del sentimento del popolo, in un’ora altamente drammatica della sua storia, qualcosa delle sue aspirazioni e speranze.

Man mano che il dibattito politico prendeva quota, gli interrogativi sul domani si facevano sempre più pressanti. Il dommatismo di chi si prefigurava il futuro dell’Italia secondo i parametri della staliniana società perfetta balzava, ad esempio, da ogni pagina dell’organo della federazione milanese del PCI «La fabbrica»; ed è anche da ricordare che un timido tentativo di chiedersi Dove va la Russia? sul n. 2 (28.9.1944) di «Unità e libertà» fu prontamente soppresso dal comando garibaldino dell’Ossola. Ma i più si interrogavano, costretti dalla forza stessa delle cose, sui problemi della riorganizzazione democratica, all’indomani della cacciata dei nazifascisti, con una chiara percezione della loro complessità. Nella nota Vincere la guerra, preparare la pace su  «Il combattente» (n. 16, 1.10.1944) si scrivono cose di appassionata preveggenza:

«Cosa ci lasceranno questi cani, quando riusciremo a cacciarli di là dai monti, a distruggerli? Gli occhi per piangere? Ecco una domanda ansiosa che si fanno milioni d’italiani che pur attendono la liberazione come l’unica speranza.

Sul nostro paese si è abbattuta una bufera che non ha eguali: dissanguato dal malgoverno fascista, logorato dalla lunga guerra, straziato dai combattimenti, derubato, distrutto dai barbari nazisti. Ma il nostro paese non è terra di morti, non è paese di rovine senza resurrezione, in esso ci sono gli italiani che vogliono, che sanno combattere, che vogliono, che sapranno ricostruire. La nostra situazione è meno angosciosa di cinque anni fa, oggi abbiamo tutti una certezza che allora era di pochi. L’Italia s’è desta. […]

Per preparare la ricostruzione bisogna combattere, subito, dappertutto. […]

Ma la ricostruzione vuole anzitutto uomini. Uomini energici, pronti al sacrificio, uomini d’iniziativa usi ad assumersi le responsabilità, uomini liberi, fratelli fra di loro, capaci di decidere, di controllare, di accettare i consigli che vengono dal popolo. Questi uomini, non piovono dal cielo, non ce li regalano gli Alleati. Questi italiani nuovi ce li facciamo noi, vincendo la guerra, vivendo nelle formazioni di combattenti la vita attiva della democrazia».

I più consapevoli di quanto sarebbe stato immane il compito della ricostruzione futura fanno proprio il monito di Pietro Gobetti:

«Crediamo al movimento operaio come alla sola forza che, per le riserve di spirito combattivo di cui dispone, per la sua volontà di redenzione, potrà opporre alle vecchie cricche sempre a patteggiare, la sua inesorabile intransigenza. Le esperienze passate c’insegnano che il movimento operaio alla resa dei conti avrà bisogno di una classe dirigente sicura e moderna, dotata di spirito di sacrificio e di maturità storia». («Italia libera», dicembre 1943).

I cattolici democratici, dal canto loro, accentuano l’idea della gravità estrema dello sprofondamento di uomini, di organismi, di valori e si battono per il risorgimento morale degli italiani, come s’intitola un articolo del 1° numero di «Democrazia» (febbraio 1944):

«Evolvendosi dal marxismo al cristianesimo, Péguy constatava: “La rivoluzione sociale sarà morale o non sarà”.

L’ordine nuovo o sarà morale o non sarà, riducendosi ad una appendice necrotica del disordine antico, a un antifascismo qualunque, e cioè a un fascismo capovolto, dove né la dignità della persona umana, né l’elevazione dei ceti miserabili, né l’equa redistribuzione della ricchezza o una più razionale produzione di beni sarebbero realizzate. I programmi più perfetti restano sulla carta se lo spirito non li trasforma in vita; e il risanamento dell’Italia rimarrà un sogno se non si attenderà a promuovere, sistematicamente l’educazione morale del popolo. […]

Noi cristiani non possiamo darci alla politica se non la intendiamo quale servizio alla comunità dei fratelli; se non vi portiamo una intransigenza etica degna di seguaci dell’Evangelo e insieme una tolleranza umana verso le opinioni; un rispetto verso le persone, una comprensione degli interessi, una realtà senza retorica, un’educazione insomma, la quale non faccia del campo politico una palestra di coscienze e di intelligenze di rissa caina».

Alla facile tentazione, dopo tanti anni di dittatura, di riprendere, come se nulla fosse accaduto, la vecchia sloganistica massimalista, in molti si opponeva una più lucida volontà di unire i valori della giustizia sociale e le istituzioni della libertà. Scriveva «Gioventù d’Azione» al suo 1° numero (30 luglio 1944): «Consideriamo Socialismo e Libertà come i due termini inseparabili di una sintesi nuova, senza la quale oggi non vi può essere civiltà». E l’affermazione riassumeva l’ansia più profonda di tutti i movimenti partigiani autenticamente democratici.

Resistenza popolare, unitaria e pluralistica

La nostra Resistenza ebbe un carattere unitario e insieme pluralistico. «Farne un blocco unitario significa porre un ostacolo insuperabile alla sua individuazione storica», ha scritto Guido Quazza nel suo La Resistenza italiana (Torino 1966, p. 5); significa allontanarsi dal terreno della storia per collocarsi nella sfera del mito. Il movimento partigiano, ben lontano dal realizzarsi come monopolio esclusivo di una classe, come blocco appunto, trovò aderenti e sostenitori in ogni ceto. Tutte le classi sociali hanno partecipato alla lotta. Sono note le cifre relative al Piemonte, dove, secondo Federico Chabod (L’Italia contemporanea, Torino 1961, p. 128), che utilizza i dati raccolti da Roberto Battaglia, la composizione sociale delle forze partigiane è così configurabile: operai 30,51 per cento, contadini 20,39 per cento, classi medie 29,83 per cento, artigiani 13,63 per cento, agiati 5,64 per cento. Se le indagini del grande storico, che fu anche valoroso partigiano, hanno portato ad un simile risultato in una regione ad alto sviluppo industriale, quale il Piemonte, si deve ammettere che altrove la presenza dei contadini, degli artigiani e delle classi medie sia stata ancora più incisiva. Questa semplice osservazione chiarisce il carattere polemico e propagandistico, ma non storico, di quei tentativi di accapparramento della lotta resistenziale come espressione esclusiva o quasi di una sola parte, di una sola classe, di una sola ideologia. In verità, negli ultimi anni la tesi della classe operaia “funzione egemone” della Resistenza, sostenuta da oltre trent’anni dal partito comunista e dai suoi storici ufficiali o fiancheggiatori, da Roberto Battaglia in poi, viene giudicata ormai improponibile.

La Resistenza poté affermarsi come movimento di massa per il convergere di più fattori, tutti decisivi. Essi sono: il risveglio  civile del mondo contadino, la massiccia presenza cattolica, la partecipazione attiva della donna al moto resistenziale, la lotta degli operai nei luoghi di lavoro, il “no” al nazifascismo degl’internati militari italiani nei lager nazisti.

La Resistenza italiana ebbe l’appoggio del ceto contadino. Non mancarono, certo, malumori e isolati episodi di ostilità fra i partigiani e le popolazioni delle campagne. Non si può capire, però, la lotta partigiana senza ricordare la solidarietà operante e rischiosa dei contadini. I quali fecero di più: presero essi stessi le armi contro i nazifascisti. La partecipazione diretta dei contadini alla guerra partigiana è stata, secondo Gaetano Salvemini, “il fatto più importante della Resistenza”: per la prima volta la gente di campagna rompeva con una tradizione reazionaria e antirisorgimentale. L’ingresso dei contadini nella storia del nostro paese divenne possibile e fecondo grazie alla partecipazione cattolica alla Resistenza e al sostanziale appoggio che il clero diede ai partigiani che, ai loro occhi, erano, in un modo del tutto evidente e addirittura fisico, dei perseguitati e quindi delle persone da proteggere e da aiutare. I cattolici italiani – ed in primo luogo coloro che militavano nella FUCI e nel Movimento Laureati di Azione Cattolica, da una parte, e dall’altra le élites operaie del sindacalismo cristiano e dell’antifascismo di origine popolare – giudicarono di non potersi tenere in disparte in una lotta che impegnava così drammaticamente la coscienza morale. Era, allora, questa una constatazione di fatti difficilmente contestabili e, anzi, apertamente riconosciuti. Così, ad esempio, in una famosa dichiarazione ufficiale del PCI, riportata in «La nostra lotta» (anno II, n. 14 del 1° ottobre 1944), un lungo paragrafo era dedicato a I cattolici e la lotta per la liberazione nazionale e la democrazia e in esso si affermava:

«Conferma, tra le più significative della vastità del moro di riscossa è la partecipazione per più aspetti decisiva, delle masse cattoliche alla lotta di liberazione nazionale. E come l’intervento nella guerra di liberazione di masse nuove a qualsiasi vita politica è un indice di rinnovamento democratico che si opera nella lotta, così l’intervento delle masse cattoliche indica il superamento della pregiudiziale che le teneva lontane dalla vita nazionale e ne limitava l’efficacia nella partecipazione attraverso un insieme di condizioni e di cautele che non cessarono nello stesso partito popolare.

Il superamento di questi dissidi ideologici e politici si compie oggi nella edificante atmosfera della lotta democratica per la liberazione dell’umanità dai nazi-fascismi; non si compie, ché anzi i dissensi si acuirono, nell’ambiente dei rapporti tra Chiesa e stato fascista. La vastità della partecipazione dei cattolici, causa in larga parte determinante del sostanziale atteggiamento di appoggio della Chiesa cattolica alla guerra di liberazione, non ha bisogno di dimostrazioni; il loro appoggio ha rafforzato la profonda solidarietà che lega ai partigiani i contadini e i valligiani; il loro appoggio ha fatto clamoroso il fiasco delle leve forzate della sedicente repubblica sociale; il loro appoggio ha dato maggior compattezza ai grandi scioperi.

Molto deve agli operai, ai contadini, agli intellettuali cattolici la nuova Italia che va sorgendo dalla lotta di liberazione e di questo contributo la classe operaia ed il partito comunista nella sua immediata adesione alla realtà sono i primi ad essere consapevoli».

Nel giornale «Il Partigiano» del 12 agosto 1944, si riconosceva quanto fosse profondo il legame che univa «partigiani e parroci (il cui aiuto fu fin dal principio essenziale)» e sul numero successivo del 16 agosto, a conferma, si scriveva:

«Bussarono alla porta della canonica. Fu risposto: “entrate!”. Erano giovani che scendevano dalla montagna. […]

Ora avevano nel cuore parole da dire al prete, informazioni da chiedere. Il prete è l’amico sincero dei partigiani. Anche lui è una sentinella sulla montagna, un soldato vero della Religione e della Patria. Nella sua casa i partigiani dopo le settimane, i mesi passati nelle cascine, sui monti (con che sguardo pieno di ricordi avevano fissato le seggiole, il tavolo, la radio) ritrovavano la sensazione della loro casa, della città da cui erano partiti. […]

Il sogno che sfolgora nell’anima di questi ragazzi e tende tutte le fibre del loro corpo, irrobustito dalle dure prove della montagna, è quello di liberare la patria dalle sozzure che l’infangarono e l’umiliarono per troppi lunghi anni sotto la prepotenza fascista. È un sogno di risorgimento. Il fascismo è stato una vigliacca menzogna in tutti i settori della sua attività: da quello che ha attinenza con la Religione (che cosa importava aver messo cristo nelle scuole, se lo si toglieva dalle coscienze?) a quelli della famiglia, della politica, del lavoro. Ora, dal baratro bisogna risalire. E nella libertà, riportare l’individuo, la famiglia, il lavoro, la patria sulla via diritta del bene, che è poi la via dell’onore dinanzi al mondo e a noi stessi.

Questo il sogno che arde in petto ai partigiani. Perciò, ogni qualvolta alla porta della canonica bussa un partigiano, il prete sente che arriva un amico».

Sui luoghi di lavoro

La Resistenza italiana oltre la particolare organizzazione unitaria che seppe darsi, ebbe un suo altro carattere distintivo: la lotta di grandi masse sui luoghi di lavoro. Nell’Italia del Nord, nelle sue città industriali e nelle campagne emiliane, cioè in un ambiente economicamente sviluppato, le forze della Resistenza non avrebbero potuto concentrarsi tutte sui monti, abbandonando al nemico le fabbriche e gli altri luoghi di lavoro. Occorreva sostenere la lotta anche qui, facendo leva in primo luogo sul movimento operaio, e in modo speciale sulle “Squadre” e sui “Gruppi di azione patriottica” (SAP e GAP), forze ausiliarie dei partigiani. «In nessuno dei paesi occupati dai nazisti, il movimento operaio ebbe un’importanza analoga all’Italia del Nord» (Giampiero Carocci, La Resistenza italiana, Milano 1963; pp. 12 – 13). Va ascritto in massima parte alle SAP e ai GAP l’aver impedito ai tedeschi nel 1944 di trasferire in Germania i macchinari delle fabbriche e nel 1945 di distruggerle, garantendo così una rapida ripresa in alcuni settori-chiave dell’economia nazionale all’indomani del 25 aprile.

Infine non va dimenticato che il primo eloquente referendum, con esito plebiscitario in senso antifascista, fu per così dire tenuto proprio nei campi di internamento in Germania, nei lager tedeschi, in cui finì tanta parte di un esercito senza capi e senza un qualsiasi piano d’azione. La “non collaborazione” fu perseguita con fermezza dalla quasi totalità dei 650 mila prigionieri di cui solo l’1,03 per cento aderì al risorto fascismo della repubblica di Salò. Piuttosto che servire il nazismo e i suoi complici, si preferì andare incontro alla fame, al freddo, alle pestilenze, a tutti gli orrori del lager rinunciando all’agognata prospettiva del ritorno in patria.

La grande speranza

La ricerca storica più spassionata ha accertato, insieme a tante luci, talune ombre. È inutile nasconderle, così come è vano trarne scandalo. Esse sono il fatale retaggio di «un movimento a larga base, obbligato all’azione clandestina, senza possibilità di controllare troppo denunzie e persone, con i collegamenti difficili e spesso interrotti, insidiati da informatori di parte avversa» (Mario Bendiscioli, Antifascismo e Resistenza, Roma 1974, p. 221). Ma il giudizio su quel periodo tremendo ed eroico è già acquisito: esso fu l’inizio di una nuova storia ed ebbe un significato umano e nazionale altissimo.

Una sera a Dogliani, poco prima di morire, in una bellissima improvvisazione, Luigi Einaudi parlò di quella che egli suggestivamente chiamava “la grande speranza” della Resistenza, e cioè di tutto quel complesso di programmi ed orientamenti che accompagnarono la lotta armata. Certo si deve distinguere tra vagheggiamenti utopistici e formule mitiche ed invece i propositi concreti e le loro oggettive possibilità. Ma non possiamo nascondere che quella grande speranza non fu un vaneggiamento di illusi. Per cui l’espressione “Resistenza tradita”, che oggi ricorre su troppe labbra con l’insistenza del luogo comune, ha bisogno di qualche chiarimento. La Resistenza fu una “rivoluzione democratica” ed essa non fu né tradita né traditrice per aver evitato, con la collaborazione delle forze che ne furono protagoniste, ogni altro sbocco dittatoriale, ogni altra forma di servaggio. Fu forse un male per l’Italia, posta a Yalta fuori dalla sfera del dominio russo, non essere associata alla tragedia – troppo disinvoltamente dimenticata – dell’Ungheria, della Polonia, della Cecoslovacchia, sempre implacabilmente schiacciate in ogni tentativo di affermare un minimo di autonomia nazionale e di “socialismo dal volto umano”?.  «Se la Resistenza nel suo complesso – scriveva Quazza (op. cit., p. 72) – può essere stata tradita, lo è stata in quanto non si è saputo conservare, nella faticosa prosa della costruzione del nuovo Stato, l’intransigenza contro il fascismo come intransigenza contro quello che, nell’età della dittatura, De Gasperi chiamava “l’opportunismo imbelle e corruttore”, che è l’opposto del generoso slancio col quale tanti italiani sono andati a morire».

[1] Istituto Storico della Resistenza bresciana, aprile 1985.