La Resistenza non ha bisogno di miti

Hanno nuociuto molto alla Resistenza la retorica celebrativa, le mistificazioni, gli accaparramenti monopolistici, il malcostume di chi dilata oltre misura il concetto di fascismo per colpire qualsiasi avversario politico o per immunizzare da ogni riserva critica nuovi miti palingenetici, non meno delle campagne denigratorie degli avversari e dei tentativi di minimizzare la tragica realtà del nazifascismo. Il giudizio storico generale, pur con tutte le sfumature che esso comporta, ha però fatto emergere con crescente chiarezza alcune linee maestre dalle quali è difficile discostarsi quando si parla della Resistenza.
Il primo connotato della Resistenza italiana, la sua più difficile e più bella caratteristica sta nell’aver saputo essere unitaria e pluralistica. Fare della resistenza un blocco unitario significa porre un ostacolo insuperabile alla sua individuazione storica; significa allontanarsi dal terreno della storia per collocarsi nella sfera del mito. Il movimento partigiano, ben lontano dal realizzarsi come monopolio esclusivo di una classe, trovò aderenti e sostenitori in ogni ceto. Tutte le classi sociali hanno partecipato alla lotta. Sono note le cifre relative al Piemonte, dove, secondo lo Chabod, la composizione sociale delle forze partigiane è così configurabile: operai 30,51 per cento, contadini 20,39 per cento, classi medie 29,83 per cento, artigiani 13,63 per cento, agiati 5,64 per cento. Se le indagini del grande storico, che fu anche un valoroso partigiano, hanno portato ad un simile risultato in una regione ad alto sviluppo industriale, quale il Piemonte, si deve ammettere che altrove la presenza dei contadini, degli artigiani e delle classi medie sia stata ancora più incisiva. Questa semplice osservazione chiarisce il carattere polemico e propagandistico, ma non storico, di quei tentativi di accaparramento della lotta resistenziale come espressione esclusiva o quasi di una sola parte, di una sola ideologia. Negli ultimi anni la tesi della classe operaia forza «egemone» della Resistenza, sostenuta da oltre un quarto di secolo dal Partito comunista e dai suoi storici ufficiali o fiancheggiatori, viene giudicata ormai improponibile persino da uno storico marxista come Massimo Legnani.
In realtà la Resistenza poté affermarsi come movimento di massa per il convergere di più fattori, tutti decisivi. Essi sono: il risveglio civile del mondo contadino, la massiccia presenza cattolica, la partecipazione attiva della donna al moto resistenziale, la lotta degli operai nei luoghi di lavoro, il «no» al nazifascismo degl’internati militari italiani nei lager nazisti. La partecipazione diretta dei contadini alla guerra partigiana è stato, secondo il Salvemini, «il fatto più importante della Resistenza»: per la prima volta la gente di campagna rompeva con una tradizione reazionaria e anti-risorgimentale.
L’ingresso dei contadini nella storia del nostro «secondo Risorgimento» divenne possibile e fecondo grazie alla partecipazione cattolica alla Resistenza e al sostanziale appoggio che i sacerdoti diedero ai partigiani, che ai loro occhi erano, in un modo del tutto evidente, e addirittura fisica, dei perseguitati e quindi delle persone da proteggere e da aiutare. I cattolici italiani – ed in primo luogo coloro che militavano nella F.U.C.I. e nel Movimento laureati di Azione cattolica, da una parte, e dall’altra le élites operaie del sindacalismo cristiano e dell’anti-fascismo di origine popolare – giudicarono di non potersi tenere in disparte in una lotta che impegnava così drammaticamente la coscienza morale.
La Resistenza italiana ebbe un altro carattere distintivo tutto suo: la lotta di grandi masse sui luoghi di lavoro. Nell’Italia del Nord, nelle sue città industriali e nelle campagne emiliane, cioè in ambiente economicamente sviluppato, le forze della Resistenza non avrebbero potuto concentrarsi tutte sui monti, abbandonando le fabbriche e agli altri luoghi di lavoro al nemico. Occorreva sostenere la lotta anche sui posti di lavoro, facendo leva in primo luogo sul movimento operaio. «In nessuno dei Paesi occupati dai nazisti, il movimento operaio ebbe un’importanza analoga all’Italia del Nord» (G. Carocci).
Infine non va dimenticato che il primo eloquente referendum, con esito plebiscitario in senso antifascista, fu per così dire tenuto proprio nei campi di internamento in Germania, in cui finì tanta parte di un esercito senza capi e senza un qualsiasi piano d’azione. La «non collaborazione» fu perseguita con fermezza dalla quasi totalità dei prigionieri di cui l’uno per cento aderì al risorto fascismo della repubblica di Salò. Piuttosto che servire il nazismo e i suoi complici, si preferì andare incontro alla fame, al freddo, alle pestilenze, a tutti gli orrori dei campi di concentramento, rinunciando all’agognata prospettiva del ritorno in patria. Il no dei deportati al nazifascismo fu atto che si rinnovò ogni giorno, vincendo la tentazione degli affetti e l’urlo dei bisogni più elementari ferocemente compressi. E dietro ognuno dei seicentocinquantamila internati c’erano altrettante famiglie ostili all’oppressore e ai suoi sgherri, sì che la continuità tra la Resistenza disarmata nei lager e quella armata in patria appare effettiva e ricca di conseguenze.
La ricerca storica più spassionata ha accertato, insieme a tante luci, talune ombre. Si pensi, ad esempio, a uno dei più amari episodi della guerra di liberazione: il 7 febbraio 1945, nelle malghe di Porzûs, l’intero comando della divisione Osoppo, le formazioni partigiane facenti capo alla Democrazia cristiana e al Partito d’azione, fu catturato e barbaramente passato per le armi, non dai nazifascisti, ma «da mano fraterna nemica», come si legge testualmente nel registro dei Caduti dell’Anpi di Udine. È inutile, dopo oltre trent’anni, tacere questi aspetti sconcertanti, così come è vano trarne scandalo. Essi furono anche «il fatale retaggio di un movimento a larga base, obbligato all’azione clandestina, con collegamenti difficili e spesso interrotti, insidiati da informatori di parte avversa» (M. Bendiscioli). Ma il giudizio su quel periodo tremendo ed eroico è già acquisito: esso fu la primavera della nostra patria ed ebbe un significato umano e nazionale altissimo.
Una sera a Dogliani, poco prima di morire, in una bellissima improvvisazione, Luigi Einaudi parlò di quella che egli suggestivamente chiamava «la grande speranza» della Resistenza, e cioè di tutto quel complesso di programmi e orientamenti che accompagnarono la lotta armata. Certo si deve sceverare il grano dal loglio, i vagheggiamenti utopistici e le formule mitiche dai propositi concreti e dalle oggettive possibilità. Ma non possiamo nascondere che quella grande speranza non fu un vaneggiamento di illusi. La Resistenza fu una «rivoluzione democratica» ed essa non fu né tradita né traditrice, per aver evitato un altro sbocco dittatoriale, un’altra forma di servaggio, questa volta di stampo staliniano. Fu forse un male che l’Italia, posta a Yalta fuori dalla sfera del dominio russo, non fosse associata alla tragedia – troppo spesso dimenticata – dell’Ungheria, della Polonia, della Cecoslovacchia, sempre implacabilmente schiacciate in ogni tentativo di affermare un minimo di autonomia nazionale e di «socialismo del volto umano»?
Per quanto inferiore alle attese – un’ombra di delusione accompagna sempre il compimento inevitabilmente imperfetto di una «grande speranza» – non bisogna sottovalutare i successi della Resistenza sul piano politico. L’eredità della Resistenza è attestata dall’avvento della Repubblica e dalla Costituzione. Dall’aprile del 1945 la libertà non è stata più perduta. La Resistenza significò l’acquisizione da parte dei ceti popolari di quella Patria che prima appariva loro estranea e nemica. Fu un bene e un bene per tutti, anche per le sinistre marxiste, che al centro delle elaborazioni politiche della Resistenza fosse il problema di «quali dovevano essere le condizioni e le forme dell’esercizio popolare del potere in una società moderna» e che l’equazione tra democrazia e pluralismo sovrastasse ogni mistificazione totalitaria.
Max Salvadori nel marzo 1974 nell’«Avvertenza» alla riedizione della sua “Breve storia della Resistenza italiana” (Firenze, Vallecchi) scriveva: «Oggi più che mai sono convinto che la peggiore delle trentasette o trentotto democrazie in cui vi è sufficiente libertà per agire al fine di avere meno oppressione, meno disuguaglianza, meno conformismo, è preferibile alla migliore delle cento e più dittature in cui vive il più dell’umanità ed in cui, non essendovi libertà, non è possibile lottare né per l’uguaglianza, né per la giustizia». È questa la più effettuale delle realtà ed è insieme il valore, il criterio, di cui anche noi, e soprattutto i nostri giovani, dobbiamo essere certi, se vogliamo camminare sulla via della maturità civile, la sola che può far sopravvivere la democrazia.

Giornale di Brescia, 26 aprile 1977.