La Settimana Santa dei filosofi

Giornale di Brescia, 22 marzo 1993. Articolo scritto in occasione dell’incontro con Xavier Tilliette in occasione della presentazione del libro “La Settimana Santa dei filosofi”.

È già un tema di estremo interesse il rapporto tra filosofia e fede cristiana, così come si è venuto sviluppando nell’arco di duemila anni; ma non lo è meno l’altro, che potrebbe essere formulato con queste domande: qual è il Cristo dei filosofi? In che cosa Cristo ha influenzato la loro speculazione?
Una risposta al secondo quesito ce l’ha data Xavier Tilliette, il pensatore francese docente a Roma, all’Università Gregoriana, e a Parigi, all’Institut Catholique, nell’opera “Filosofi davanti a Cristo”, tradotta in Italia dalla Morcelliana. Il libro nasce da un’intensa, prolungata esplorazione del pensiero da Pascal e Spinoza a Blondel e Heidegger. È interessante nel libro di Tilliette constatare che se si fanno i conti con le due figure, tra loro antitetiche, che hanno più affascinato gli studiosi dell’appropriazione filosofica del Cristianesimo e della sua radicale negazione, Hegel e Nietzsche, un posto di rilievo è finalmente riconosciuto alla grande triade del pensiero russo: Dostoevskij, Solov’ev e Berdiaev, oltre che al pensiero cristiano francese da Maine de Biran a Marcel.
Tilliette, tuttavia, ha sentito il bisogno di rendere più stringente il suo discorso e ha posto a confronto alcuni pensatori con i tre giorni della passione e della morte di Gesù, il Tridum Mortis del giovedì, del venerdì e del sabato santo. I pittori si sono da sempre cimentati nella rappresentazione degli eventi di quei tre giorni, e i contemporanei non meno dei moderni e degli artisti di altre epoche: basti pensare a Francis Bacon o a Salvator Dalì o a Marc Chagall. Anche i romanzieri hanno affrontato quel tema, cedendo troppo spesso alle suggestioni di una sorta di estetica della derisione, in cui forse il primo posto tocca proprio a “La passion selon saint Genet” di Sartre. Rimangono certo le grandi eccezioni di Dostoevskij e Bernanos, ma si tratta di due scrittori eccezionali, che ignorano la banalizzazione e, peggio, la bestemmia. I filosofi fanno miglior figura, o anch’essi “non guardano Colui che hanno trafitto”?
Tiliette non procede per autori, ma concentra gli apporti dei filosofi interpellati su ognuna delle giornate del Triduum mortis. Egli sa benissimo che il mistero pasquale si compie al di là dei tre giorni, nella notte luminosa della Risurrezione, ma pensa che la filosofia si debba arrestare alla soglia delle apparizioni. Essa non deve testimoniare la Gloria. Per sua natura è destinata a soggiornare al capezzale di un morto, a vegliare un giacente. Oltrepasserebbe i suoi diritti se si appropriasse dei doni della grazia e delle meraviglie soprannaturali della fede. “Occorre mantenere castamente la frontiera”, diceva Schelling. Ciò non impedisce al filosofo di avere gli occhi fissi su quel dramma unico e di inserirvi la sua meditazione sul male, la sofferenza e la morte. Anch’egli può iscriversi alla scuola austera del Cristianesimo. Per questo Tilliette ha cercato di raccogliere ai piedi della Croce parecchi pensatori commossi, attenti o recalcitranti.
Nel gruppo di pensatori interpellati ci sono anche quattro italiani: Rosmini per l’Ottocento e per la seconda metà del Novecento Pietro Piovani, Alberto Caracciolo, che molti bresciani hanno conosciuto e apprezzato, e Luigi Pareyson. Nel roveretano la profondità di pensiero si unisce ad una pietà sincera e a una pratica di vita cristiana (egli aborriva l’aggettivo “eroico” riferito a “cristiano” perché il secondo termine includeva il primo necessariamente); negli altri tre il “sentire cristiano” muove intimamente il loro angoscioso interrogarsi sul male nel mondo – il problema dei problemi è quello posto da Dostoevskij e da Camus, la sofferenza atroce degli innocenti – anche se l’approdo sembra non esserci o si delinea come “morire con gli occhi aperti”. Piovani non coglie il passaggio- su cui tanto giustamente ha insistito Kierkegaard tra Socrate e Cristo. Cristo ossessiona la sua meditazione, ma la Croce dell’uomo contemporaneo, di cui il filosofo napoletano vuol essere la voce, rimane senza Resurrezione. “L’uomo contemporaneo si risveglia nell’orto del Getsemani – scrive icasticamente Piovani – e non nel giardino di Epicuro”; ma se la sofferenza di Gesù gli afferra l’anima, la natura e la missione di quella sublime sofferenza gli rimangono inintelligibili. Invece l’amico genovese di Piovani, Alberto Caracciolo, non meno colpito dal male cosmico e dalla situazione dell’uomo moderno, intravede un barlume di speranza: “sembra che nell’ora della Croce si renda in qualche modo presente la luce dell’alba pasquale”. Il buio fitto si scioglie nella propria infinitezza. Caracciolo si domanda perché “la Croce è nella coscienza religiosa dell’Occidente insieme il punto d’incontro dell’estremo nella tenebra e dell’estremo nella luce?”. A differenza di Piovani, in Caracciolo si intrecciano il grido di Giobbe e il problema ontologico, la morte di Dio e il nichilismo, l’assenza di Dio e la ricerca del significato del tutto. Il suo “essenzialismo” schiude , pertanto, una radura, ove lo spirito pensoso scopre una possibilità di salvezza.
“La Settimana Santa dei filosofi”, il lavoro di Tilliette tradotto in italiana dalla nostra Morcelliana, è un libro affascinante, che offre spunti e considerazioni molteplici, un libro quindi che è impossibile schematizzare o pretendere di riassumere. Tuttavia, a chi mi chiedesse di indicargli le pagine più belle, e i lettori hanno questo diritto, non esiterei a rispondere: sono proprio quelle in cui hanno la parola due autori così a lungo scioccamente contrapposti, quasi che uno fosse mezzo pelagiano, Erasmo da Rotterdam, e l’altro, Pascal, un ultra luterano. Erano invece entrambi grandi cristiani e cattolici. Sono poco numerosi i pensatori, anche teologi, che sono penetrati, sulle orme di Gesù, nel “giardino dei supplizi”. Erasmo è di questi, prima di Pascal, e senza lasciare affatto sulla porta l’umanesimo e la retorica. Erasmo, infatti, ha redatto in onore del suo amico teologo John Colet di Oxford una bella e profonda meditazione, la “Disputatio de tedio et pavore Christi”, che si può tradurre “della noia e dello spavento di Cristo”. L’opuscolo fa parte delle Lucubrationes. Colet si mostra scandalizzato dal momento di debolezza e di abbandono di Cristo e lo vorrebbe eliminare dal Vangelo. Gli oppone l’esempio dei martiri, la loro alacritas, il loro amore gioioso che bandisce la paura. Sicché o il passo è interpolato, oppure bisogna reinterpretarlo, addolcirne i termini in funzione del supposto eroismo di Cristo. Al contrario, Erasmo difende l’autenticità dell’angoscia del Salvatore. La sua idea è che c’è più coraggio a vincere la paura che a non sentirla. Colet dichiara che l’orrore della morte non è adatto agli uomini forti; al che Erasmo replica: “La forza non consiste nel non sentire le cose dolorose, ma nel vincerle”. Cristo ha avuto paura della morte vicina, ma l’ha accettata in piena libertà, in obbedienza al padre, per noi uomini e per la nostra salvezza. Lo scopo degli Stoici è l’insensibilità, l’essere impavidi di cui hanno offerto mirabili esempi. Ma non è questo l’atteggiamento di Cristo. Egli non è impassibile e non ricerca l’impassibilità; egli è sottomesso all’affettività umana e conosce le passioni naturali del corpo e dell’anima, escluso il peccato. Certo, se l’alacritas è il criterio dell’amore, allora Cristo è superato da tutte le parti da qualsiasi martire cristiano. Ma questo è un criterio errato. Erasmo evoca la sublime allegria, sulla soglia del supplizio, di Pietro, di Paolo, di Andrea, di Agata. Che contrasto con il maestro, immerso nell’amarezza! Gli evangelisti non menzionano che tristezza, disgusto, sudore di sangue. Cristo sopporta, non esulta. “Il mio sentimento (affectus) – fa dire Erasmo a Gesù – non è di andare alla morte con allegria (alacriter), ma di fremere di orrore (exhorrescere)”. Egli ha subito una morte sua e non sua. “Egli portava la nostra paura, i nostri mali e non i suoi, così come ci ha portato i suoi beni e non i nostri”.
L’esistenza di Cristo è segnata da un tratto austero e sofferente, esente dal trionfalismo che raggiunge talvolta l’entusiasmo dei martiri. “In tutta la sua vita incontrerai parecchie testimonianze di dolcezza e pazienza, nessuna d’allegria”. Nella pazienza ha rinchiuso la carità che lo votava alla morte. Ma “se Gesù fosse stato felice sulla Croce, la follia dei Manichei si sarebbe diffusa ancora di più, e si sarebbe detto che muoveva un corpo fantastico. Invece egli ha esibito il tipo della nostra condizione”. Prendendo ancora una volta di contropiede l’avversario, Erasmo conclude magnificamente: “Egli conservava per i suoi martiri la gloria dell’allegria. È per loro che la testa si è indebolita, perché fossero forti le membra: il maestro è stato in grande prostrazione perché i discepoli avessero meno angoscia”. Molto vicino a lui, Erasmo trova un degno emulo nel cancelliere Thomas More, la cui meditazione di prigioniero sull’agonia di Gesù, “De tristitia Christi”, non si capisce senza il paradigma erasmiano.
Erasmo aveva colto giusto, di quella giustezza illustrata più tardi dalla penna incorruttibile di Pascal. “Chi ha insegnato – scrive l’autore dei “Pensieri” – agli evangelisti la qualità di un’anima perfettamente eroica, per descriverla così perfettamente in Gesù Cristo? Perché lo fanno debole nell’agonia? Non sanno descrivere una morte coraggiosa? Sì, perché lo stesso san Luca descrive quella di santo Stefano più forte di quella di Gesù Cristo. Essi lo fanno capace di paura prima che sia giunta la necessità di morire, poi completamente forte. Ma quando lo fanno così turbato, è quando si turba lui stesso; quando lo turbano gli uomini, egli è completamente forte” (“Pensées”, n. 800 ed. Brunschwig). Questo bel testo fa eco alla meditazione del “Mistero di Gesù”. Come il “Memoriale”, la cui pergamena era cucita nella fodera dell’abito per averla sempre con sé, il “Mistero di Gesù” è stato scritto in ginocchio; ma in Pascal il pensatore non scompare mai di fronte all’uomo religioso, all’anima in preghiera. La sorella di Blaise Pascal, Gilberte, scrive: “Egli meditava la Sacra scrittura pregando”. Per questo il “Mistero di Gesù”, che “nell’agonia soffre i tormenti che si dà da se stesso, supplizio di una mano non umana, ma onnipotente, sì che bisogna essere onnipotente per sostenerlo”, è un testo non sulla fede, ma della fede. Malgrado le tante pagine scritte da teologi filosofi e romanzieri sulla notte del Getsemani, che seguì alla Cena del Giovedì Santo, io non ne conosco di così belle e profonde come quelle di Pascal. Ricordate il celeberrimo: “Gesù sarà in agonia sino alla fine del mondo; non bisogna dormire durante questo tempo”? E ancora : “Noi imploriamo la misericordia di Dio non perché ci lasci in pace nei vizi, ma perché ce ne liberi”. E che dire delle grandi parole poste da Pascal sulla bocca della verità sofferente: “Consolati, tu non mi cercheresti, se non mi avessi trovato. Pensavo a te nella mia agonia, ho versato quelle gocce di sangue per te”? Occorre accostarsi a un testo così semplice e così profondo con i sentimenti della delicatezza e della gratitudine, senza di cui non è permesso a nessuno varcare la soglia del mistero.