La verità

LA VERITÀ[1]

Citazione iniziale proposta dal professor Luca Ghisleri che ha introdotto l’incontro. Breve passo tratto da L’esperienza della verità del prof. Chiurazzi: “Lungi dall’essere il segno di una realtà atemporale il marchio dell’abisso fra una realtà eterna e la nostra esperienza, la verità è al contrario esattamente ciò che fa della realtà in sé, una realtà per noi, quel che ci collega alla realtà facendone non un altro mondo, ma precisamente il nostro mondo”.

 Intervento del prof. Gaetano Chiurazzi.

Che cosa intendiamo quando usiamo la parola verità? cosa vogliamo dire quando diciamo che qualcosa è vero, per esempio un discorso, oppure quando parliamo di un vero amico, di un vero amore. Sembra che “vero” coincida con “reale”, quello che ci dobbiamo chiedere innanzitutto è se sia davvero così, se vero e reale indichino la stessa cosa. Questa sembra una questione di carattere logico, ma quello che voglio mettere in luce sono le implicazioni filosofiche più sostanziali di questo tema, di queste domande che ho posto. Partendo da queste domande, in questo intervento vorrei toccare questi punti: 1. La definizione tradizionale della verità come adeguazione, Adaequatio intellectus et rei, e la sua critica da parte di Heidegger, la critica alla verità come adeguazione è la pars destruens della sua concezione 2. Pars costruens ovvero la concezione della verità come aletheia, parola greca che Heidegger traduce come disvelamento; non come alternativa, ma più originaria della definizione precedente come corrispondenza. 3. Il significato trascendentale della verità, secondo il concetto kantiano di trascendentale e non quello medievale. In effetti i temi scelti per queste lezioni, la verità, il bene e la bellezza (quest’ultima non propriamente, perché i medievali non ve la includevano), rimandano al trascendentale medievale; questi tre concetti si riferiscono d’altronde esattamente alle tre critiche kantiane, la ragion pura, la ragion pratica e la critica del giudizio. Come ho detto, la bellezza non faceva parte dei trascendentali, per i medievali, ma è importante che anche il bello vi venga incluso. Kant è stato l’autore di una rivoluzione nel concetto di bellezza, che nell’antichità era concepito come una qualità intrinseca dell’oggetto, riguardante le proporzioni di carattere matematico dell’oggetto. È questa la cosiddetta grande teoria di Tatarkiewicz, l’idea, cioè, che la bellezza sia una qualità intrinseca degli oggetti. Anche per la bellezza Kant ha operato una rivoluzione, spostando questo concetto dalla proprietà intrinseca degli oggetti, per farne un modo del nostro rapporto con la rappresentazione dell’oggetto. Questo spostamento è esattamente quello che si intende come trascendentale nel senso kantiano. Kant, infatti, nella Critica della ragion pura, sottolinea come l’uso che gli scolastici avevano fatto dei trascendentali era stato un uso così miserevole, che ai tempi nostri, quasi solo per convenienza si dovrebbe farne menzione nella metafisica, proprio perché i medievali consideravano i trascendentali come proprietà degli oggetti, mentre Kant, con la sua rivoluzione trascendentale, fa di questi tre concetti, non delle proprietà degli oggetti, ma piuttosto un modo della nostra relazione all’oggetto. Così il vero non è più una proprietà intrinseca degli oggetti, ma riguarda la relazione dell’oggetto al soggetto. Bisogna tener fermo innanzitutto questo aspetto, che è il senso della rivoluzione copernicana kantiana, perché è molto importante per il discorso che voglio svolgere. Come sappiamo Kant definisce il trascendentale come ciò che si riferisce al come e al che, al dass, della nostra conoscenza, è il modo della relazione all’oggetto, il come e il che, dass in tedesco, ovvero la congiunzione che introduce una proposizione oggettiva o soggettiva, come quando dico “io penso che il cielo è blu”, il dass è questo, l’elemento che introduce una proposizione oggettiva o soggettiva. L’esempio che ho fatto ha nella principale l’“io penso”, ed esprime bene il senso del trascendentalismo kantiano: il soggetto trascendentale per Kant è un “io penso”, e trascendentali sono tutti i modi di questa relazione, di quella piccola clausola che introduce una proposizione oggettiva. Il trascendentale riguarda i modi della relazione all’oggetto e la verità è uno di questi modi. Il vero, si comincia a capire, è un modo di questa piccola relazione dell’io penso che: io posso pensare in maniera veritativa che il cielo è blu. Questo è molto importante perché è qui che il concetto di verità, in quanto concetto trascendentale, viene sottratto dall’essere una mera qualità, una proprietà degli oggetti, dei fatti o degli stati di cose e diventa un modo della relazione all’oggetto. Questa è un’idea che viene ereditata in particolare dall’ermeneutica filosofica che è una delle filosofie del 900, che si fa risalire a Heidegger e poi a Gadamer. In Heidegger questa dimensione trascendentale viene rielaborata in senso esistenziale e il suo concetto di verità è un po’ l’erede di questa rivoluzione.

Innanzitutto, è importante capire l’importanza di questo spostamento dal fare del predicato vero un predicato dell’oggetto al farne invece un modo della relazione all’oggetto, perché questo consente di sgombrare il campo da vari fraintendimenti. Il primo dei quali è il fatto che la verità riguardi primariamente il giudizio, un’idea che viene attribuita ad Aristotele, così come la tesi che il giudizio sia il luogo unico o primario della verità. Giudizio qui è quello che Aristotele chiamava logos apofantikos, cioè il discorso dichiarativo. Un altro fraintendimento è il fatto che “vero” sia un predicato che riguarda l’oggetto, ovvero che sia un predicato monadico, predicato che si attribuisce a proposizioni, o a stati di cose, indipendentemente dalla relazione ad altro e in particolare a un soggetto. Nella citazione posta in apertura si dice esattamente questo: “vero” non è ciò che taglia noi stessi da una realtà in sé ma invece è ciò che collega noi alla realtà. Fare del predicato “vero” un predicato monadico, nel senso che riguarda uno stato di cose in sé, contraddirebbe persino la definizione tradizionale della verità come adaequatio rei et intellectus, come adeguazione o corrispondenza tra la mente e la cosa, ovvero la definizione che si ritrova in Tommaso d’Aquino, che rinvia ad Avicenna, il quale a sua volta pare l’abbia desunta dal libro delle definizioni di Isacco Israele. La definizione adaequatio rei et intellectus richiede almeno due termini, la cosa e l’intelletto, una mente e la realtà, e qui emerge il fatto che il vero è piuttosto una ratio, come pure dice Tommaso d’Aquino, ovvero una relazione. Un altro fraintendimento che viene sgomberato è l’idea che dire “è vero che p” sia conseguentemente qualcosa di superfluo cosicché basterebbe dire soltanto p; è quello che nella filosofia contemporanea si chiama concezione deflazionista della verità, cioè se io dico “è vero che il cielo è blu” dal punto di vista semantico il contenuto è identico al dire “il cielo è blu”, e quindi “vero” sarebbe qualcosa di superfluo, una superfetazione, qualcosa di ridondante, che potrebbe essere eliminato, perché non è portatore di alcun significato aggiuntivo rispetto al fatto che il cielo è blu. Però già Frege notava che è diverso dire “io sento un profumo di violette” ed “è vero che io sento un profumo di violette”, la domanda è che cosa significa questo “è vero”? La rivoluzione trascendentale dà una risposta, la concezione trascendentale del predicato “vero” è una risposta a questa domanda: è vero significa un modo della reazione all’oggetto e quindi, di conseguenza, un modo della relazione tra il soggetto e l’oggetto. Un altro fraintendimento che viene superato da questa concezione è che si possa parlare della verità come un qualcosa di sostanziale; si usa spesso l’espressione “esistono delle verità”,  quasi che le verità siano degli oggetti che si trovano, come diceva Frege, in un terzo mondo in sé, un mondo platonico, come se le verità fossero appunto qualcosa di oggettuale. Invece la verità è un modo di accesso al reale, non è tanto una caratteristica o una proprietà della realtà. La verità implica una relazione, ma anche una duplicazione che riguarda la realtà, una duplicazione o più propriamente una riflessione, nel senso che “vero” indica una riflessione della realtà e cioè la dimensione del sapere. Qui ritroviamo l’esplicazione del terzo punto che ho toccato, ovvero che “vero” non è un predicato ridondante: dire “è vero che p”, “è vero che il cielo è blu”, sta a significare che questa realtà è trasposta, diciamo così, in un’altra dimensione, in un momento ulteriore, che è quello del sapere della realtà. “Vero” sta a significare che qualcuno sa che il cielo è blu. Questo discorso è per me molto importante: tutta la tradizione kantiana idealistica ha sottolineato questo aspetto, ad esempio lo si ritrova nella famosa frase con cui Hegel sintetizza il suo intero sistema, nella prefazione alla Fenomenologia dello spirito: tutto il mio programma consiste nel fatto che la sostanza è anche soggetto. In questa proposizione, secondo cui la sostanza, l’assoluto non è soltanto sostanza, ma altrettanto decisamente soggetto, cioè che la realtà è intrinsecamente anche costituita come un sapere della realtà, questa dimensione del sapere è quello che noi cogliamo con questa parolina “vero”.

Per sviluppare il nostro discorso in maniera più analitica, partiamo dalla definizione aristotelica del discorso apofantico, in cui Aristotele ne De interpretatione, scrive: ogni discorso è capace di significare, non però come uno strumento, ma come si è detto per convenzione, però non ogni discorso enunciativo, ma solo quello nel quale sussiste il dire il vero o il dire il falso. Le concezioni che dicono che il vero sia un predicato che si attribuisce ad un enunciato o ad un discorso apofantico si basano su questa frase di Aristotele, ma quello che è importante in questa espressione è la parte che in italiano è tradotta come “sussiste il dire il vero o il dire il falso”. Questa parte viene intesa come se dicesse che il vero e il falso ineriscono al giudizio: in questo caso sarebbero dei predicati. Questa espressione ha però diversi significati, e ritorna in diversi testi, tra cui le Categorie, laddove Aristotele traccia un rapporto tra le sostanze seconde e le sostanze prime, dicendo che le sostanze prime esistono nelle sostanze seconde. Qui Aristotele aggiunge che, se non ci fossero sostanze prime, non ci sarebbero neanche sostanze seconde. Che cosa significa questo? Aristotele utilizza un verbo molto particolare per esprimere l’esistere delle sostanze prime nelle sostanze seconde, hyparchein, verbo che in età ellenistica è passato a significare “esistenza”. Le sostanze prime esistono nelle sostanze seconde nel senso che ne sono la condizione di possibilità. Questo è molto importante perché, se riportiamo questo concetto alla definizione del discorso apofantico, noi dovremmo dire quindi, che se non ci fosse vero e falso non ci sarebbe il discorso ed è questo che intende Heidegger quando critica questa idea, secondo la quale il vero e il falso sono dei predicati di un enunciato. Heidegger arriva ad invertire questa concezione, ovvero il fatto che il vero e il falso sono nel giudizio, dicendo che piuttosto il giudizio è nel vero e nel falso, nell’essere vero e nell’essere falso. Heidegger riconduce l’esser vero e l’esser falso a un comportamento dell’esserci (esserci è il termine che Heidegger usa per quello che noi potremmo intendere come uomo, l’uomo prima di essere caratterizzato da una precisa connotazione è qualcosa di esistente). Cosa emerge da questo discorso? Per Heidegger l’esser vero e l’esser falso sono innanzitutto un modo, un comportamento dell’esserci, il quale con il suo comportamento, il suo modo di rapportarsi agli enti nel mondo, svela oppure vela questi enti. Tutto questo discorso viene da Heidegger sviluppato in un paragrafo molto importante di Essere e tempo, paragrafo 44, intitolato “Esserci, verità e apertura”: in questo paragrafo, oltre a contestare il fatto che il giudizio è il luogo della verità secondo l’interpretazione tradizionale, Heidegger contesta anche l’idea che la verità consista nell’adeguazione del giudizio al suo oggetto, consista primariamente, aggiungo, in questa idea di adeguazione. Diciamo che Heidegger per quanto riguarda il secondo punto, ovvero il fatto che la verità sia adeguazione tra la mente e la cosa, dice molto esplicitamente che questa idea non è falsa, se ha resistito così tanto tempo nella tradizione deve in qualche modo contenere qualcosa di vero; essa è però del tutto secondaria, ma questa sua pars destruens del primato della verità come adeguazione presuppone una pars costruens che è il fatto che la verità è essenzialmente aletheia, disvelamento. Heidegger fa notare che nella definizione di Aristotele viene usato un verbo aletheuein: l’esserci, in quanto radicato nell’essere nel mondo, con i suoi comportamenti, scopre oppure copre, l’ente. Per Heidegger la traduzione di aletheia (che lui traduce con “disvelamento”) con la parola “verità” è già una falsificazione, a suo parere una falsificazione della originaria esperienza greca della verità che era questa sorta di manifestatività dell’ente che si svela all’esserci. Quindi per Heidegger cos’è la verità? La verità è quello che lui chiama “apertura” dell’esserci, ovvero lo stesso essere nel mondo. Questa espressione è molto importante: essere nel mondo è la struttura che in Heidegger sostituisce il concetto kantiano di esperienza, come terreno fondamentale dell’esperienza umana. Per Kant tutto comincia con l’esperienza, sebbene non tutto derivi dall’esperienza, come scrive nelle prime righe dell’introduzione alla Critica della ragion pura. Per Kant il concetto di esperienza è così centrale perché il suo intento fondamentale era la conoscenza. Per Heidegger invece l’esistenza non è primariamente orientata alla conoscenza: la struttura dell’essere nel mondo è fondamentalmente una struttura esistenziale, la conoscenza è soltanto un modo delle relazioni possibili con il mondo. La critica che Heidegger fa anche a Cartesio riguarda il privilegio, da parte di Cartesio, di questo modo di relazione con l’ente rispetto ad altre forme di relazione, di cui lui poi parla in Essere e tempo. Heidegger intende questa critica a Cartesio come un’inversione del cogito ergo sum: è molto più fondamentale il sum che non il cogito, non si va dal pensiero all’esistenza, ma piuttosto dall’esistenza al pensiero, che è soltanto un modo del sum. Ciò significa che il concetto di verità come adeguazione è un concetto derivato, perché riguarda uno dei modi possibili di relazione all’ente, quello della conoscenza adeguata e certa, mentre in generale per il fatto stesso che l’esserci esiste, l’esserci è aperto al mondo e quindi è già in una verità, una forma di verità che è una verità fenomenologica, in quanto consiste nella manifestatività dell’ente in quanto tale. L’esserci è nella verità, ovvero nell’apertura del mondo nel quale si trova gettato, e la verità è una parte costitutiva, essenziale, dell’esserci, come apertura nei confronti dell’ente. In poche parole, se non ci fosse questa possibilità di rapporto all’ente non ci sarebbe neanche la possibilità di poter dire di un giudizio che è vero o falso, in quanto conforme poi all’ente, all’oggetto del giudizio. In questo modo per Heidegger l’aletheia è la condizione ontologica del giudizio, il quale a sua volta può essere detto vero o falso nel senso della conformità, solo secondariamente, attraverso un discorso che misura il pensiero all’oggetto e alla realtà. Ma una cosa molto interessante rispetto a questo discorso è quando Heidegger scrive in Essere e tempo, in una frase che è diventata famosa, c’è verità solo perché e finché l’esserci è. Questa frase è importante perché in essa emerge anche quello che ho cercato di dire sin dall’inizio, cioè il fatto che vero non coincide con la realtà. Heidegger scrive in questo paragrafo che le leggi di Newton, per esempio, non erano vere prima che Newton le scoprisse.  Cosa significa questo? Non significa che l’ente, che tramite queste leggi è stato portato alla verità, alla conoscenza, non esistesse prima, cioè che non esistesse la gravità, ma che soltanto nel momento in cui queste leggi sono state formulate da Newton possiamo parlare di verità, solo nel momento in cui la realtà è diventata accessibile ed è stata espressa, formalizzata, soltanto allora possiamo parlare di verità. La realtà esiste, ed Heidegger afferma che grazie alle leggi di Newton noi ci siamo resi conto che la gravità esisteva anche prima, però l’accesso alla realtà, ovvero quel che diciamo vero o falso, richiede una sorta di formalizzazione, qualcosa in più rispetto alla realtà, e se non c’è questa dimensione del linguaggio e della rappresentazione o la dimensione dell’immagine, se non c’è questa dimensione ulteriore che si esplica grazie all’esistenza dell’esserci, non c’è neanche la verità. Persino le verità eterne, dice Heidegger, sono eterne solo se si dimostra che l’esserci è eterno. Questa non è una relativizzazione della verità, ma significa semplicemente che c’è un accesso alla realtà soltanto finché c’è l’esserci. La verità è possibile soltanto attraverso questa possibilità che l’esserci ha di rappresentarsela, di averne un’immagine, dove per immagine si deve intendere in generale non solo la rappresentazione, ma anche il linguaggio, qualcosa in cui la verità è messa in forma. Tutto questo sta a indicare quello che nell’ontologia di un allievo di Heidegger, Hans Gadamer, ruota intorno alla questione dell’immagine. L’immagine  è una sorta di incremento di essere: tutta la dimensione del linguaggio, della rappresentazione, dell’immagine, in generale, rappresenta qualcosa di positivo, perché solo tramite tutto questo noi possiamo accedere alla realtà e dire che i nostri discorsi sono veri o falsi, solo così possiamo accedere alla dimensione della conoscenza. Anche nel Sofista di Platone emerge il problema dell’immagine: il discorso sulla verità riguarda esattamente il problema dell’immagine, che per Platone e per molta filosofia antica era una sorta di paradosso, una realtà che si aggiungeva alla realtà. Nel Sofista Platone fa ruotare tutto il suo confronto con Parmenide intorno a questo problema dell’immagine, chiedendosi se una realtà del genere sia propriamente realtà, o qualcosa di diverso dalla realtà, ovvero una sorta di non essere, se in qualche modo potrebbe esistere e come poteva essere giustificata. La questione fondamentale, in quel contesto, in cui Platone parla dell’arte mimetica è, non tanto la distinzione tra l’icona e la fantasia, tra l’immagine vera e l’immagine falsa, tra il discorso vero e il discorso falso, ma la questione ontologica più radicale, ovvero com’è possibile che qualcosa come l’immagine possa esistere, com’è possibile che qualcosa come il linguaggio o il discorso apofantico possa esistere: si deve giustificare questa dimensione per poter dire che qualcosa è vero o falso. L’ermeneutica filosofica ha cercato di giustificare tutto questo riportando il problema della verità alla condizione dell’esserci. È l’esserci che, accedendo alla verità, attraverso la sua esistenza, attraverso la sua particolare conformazione ontologica, che è quella di trascendere con la comprensione la realtà immediata e soprattutto la sensazione, fa sì che la verità possa esistere, in quanto modo d’essere della sua relazione al mondo. E questo è mostrato dal linguaggio, dall’immagine, da questo “incremento d’essere”, come lo chiama Gadamer, che con ciò effettua una vera inversione del platonismo: se per Platone l’immagine era una sorta di decremento d’essere, qualcosa che allontana dalla verità, per Gadamer essa è incremento d’essere, assume cioè una valenza positiva perché soltanto tramite questa dimensione per l’uomo è possibile accedere conoscitivamente alla realtà. Solo perché l’immagine esiste – ed esiste perché esiste l’uomo – possiamo parlare di verità, in quanto “rappresentazione vera” della realtà.

 

[1] Trascrizione, rivista dall’Autore, della conferenza tenuta in data 22.4.2021.