La violazione dei principi democratici e dei diritti umani nella Russia di oggi

Filippo Perrini (Presidente CCDC – Brescia) – Innanzi tutto intendo ringraziare gli Enti che ci hanno permesso di organizzare questo incontro: la Fondazione Brescia Musei, che da tre anni promuove mostre legate al tema dei diritti dell’uomo molto valide e partecipate, per aver pensato di effettuare un collegamento con la Cooperativa al fine di approfondire i temi che vengono proposti dalla Mostra, l’associazione Memorial Italia, qui rappresentata da ben due relatori, e, infine, il Comune di Brescia (qui rappresentato dall’assessore Federico Manzoni), promotore del Festival della Pace 2022. Questa iniziativa è la millesima della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura, ed è singolare che la prima promossa dalla Cooperativa il 3 dicembre 1976 fosse con un dissidente sovietico, Juri Mal’cev, professore di Letteratura Italiana all’Università di Mosca, che per aver chiesto al regime di dar seguito alla sottoscrizione del Trattato di Helsinki perse il posto di lavoro e fu costretto all’esilio. Ora sono passati 46 anni e mille incontri, e purtroppo dobbiamo ancora parlare dei diritti umani in Russia, e il pensiero immediato rimanda alla fragilità della democrazia, come ha ben sottolineato Romano Prodi venerdì quando ha introdotto il Festival della Pace: la democrazia è un bene che va sempre continuamente difeso in quanto è sempre a rischio di involuzioni autoritarie. Il 3 dicembre del 1976 la Cooperativa aveva predisposto un volantino per salutare il suo ospite, e con piccoli adattamenti lo leggo ancora oggi, perché per me rimane pienamente attuale: “Negli ospiti Anton Dolin e Victoria Lomasko onoriamo la dignità calpestata ed il dolore di tutte le donne e gli uomini che la dittatura opprime, interna nelle prigioni, costringe all’esilio”. Noi esprimiamo vicinanza e solidarietà verso tutti i cittadini russi che non si rassegnano a vivere senza libertà e democrazia e – come sotto il regime sovietico è stato per i dissidenti – ci insegnano che ci sono valori per i quali vale la pena mettere in gioco il proprio benessere e persino la propria vita, così come avvenne in Italia contro il fascismo e come troppo spesso ci dimentichiamo. Concludo questa breve presentazione, perché gli ospiti sono numerosi e bisogna lasciar parlare loro, con una frase del grande scrittore Vasilij Grossman, l’autore di Vita e destino e di Stalingrado, che ha scritto nel libro Tutto scorre: “Per quanto grandiosi siano i grattacieli e potenti i cannoni, tutto ciò non è che fumo e nebbia destinato a scomparire. Rimane, si sviluppa e vive soltanto la vera forza che consiste in una sola cosa: nella libertà. Vivere significa essere un uomo libero, non tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è disumano è assurdo e inutile”. Passo ora nel vivo della serata ponendo delle domande ai nostri cinque ospiti, chiedendo loro di essere abbastanza sintetici nelle risposte in modo da poter effettuare un doppio giro di domande. Il primo ospite è Marcello Flores, storico, già docente di Storia contemporanea nell’Università di Siena, dove ha diretto anche il Master in Humain Rigthts and Genocide Studies, membro di Memorial Italia, autore di numerosi libri e pubblicazioni sul tema della Russia e del mondo sovietico. La domanda prende lo spunto da una frase di Václav Bělohradský, sociologo cecoslovacco fuggito nel 1969 da Praga, che è stato nostro grande amico, il quale ha detto in una conferenza da noi promossa: “I diritti umani sono l’insieme di quelle libertà che rendono possibile la vita pubblica”. Ora Le chiedo, che vita pubblica c’è oggi in Russia e quale è lo stato dei diritti umani, se possibile, accennando alla vicenda di Memorial, Premio Nobel per la Pace del 2022.

Marcello Flores – Grazie per questo invito. Credo che sia estremamente importante oggi parlare del tema che è l’oggetto di questo incontro. Oggi i diritti umani in Russia credo siano calpestati come in pochi altri Paesi. Dovremo però avere uno sguardo storico, perché dall’inizio di questo secolo possiamo dire (anno dopo anno) che la realtà dei diritti umani in Russia è andata peggiorando, fino a raggiungere il livello più tragico che si è concretizzato in seguito all’aggressione dell’Ucraina nel febbraio di quest’anno. Innanzi tutto ha cominciato ad essere limitata la libertà di stampa. Noi tutti sappiamo l’orrendo assassinio di Anna Politkovskaja nel 2006, ma ci sono stati più di venti giornalisti uccisi, ed il numero di giornalisti uccisi o feriti o imprigionati in Russia è stato secondo (dalla fine degli anni ’90 in poi) soltanto a quello che era accaduto negli anni ’90 in Algeria nel periodo più buio dell’islamismo radicale che aveva colpito soprattutto la stampa e la libertà di espressione. La libertà di espressione e di stampa è la prima cosa che costituisce, che ha sempre costituito, il fulcro dei diritti fondamentali. A questi si aggiungono la libertà di assemblea, la libertà di movimento. Io spero che si possa vedere presto anche in Italia il documentario Delo (in italiano Il caso) della regista Nina Guseva, sul giovane attivista Konstantin Kotov, difeso da una avvocata legata a Memorial, Maria Eismont, che è stato arrestato nel 2019 soltanto perché passeggiava vicino a dove ci sarebbe stata una manifestazione, processato e condannato a una pena detentiva di 4 anni, da scontarsi in una colonia penale. Sappiamo che in questi anni, come lui, centinaia e migliaia di giovani sono stati colpiti nel tentativo di manifestare. Ogni forma di dissidenza politica è repressa, abbiamo il caso esemplare ma non unico di Naval’nyj, sappiamo che la tortura è una pratica continua e comune nelle sedi di polizia e nelle prigioni in Russia. Per quello che riguarda Memorial, ci sono stati anche dei momenti in cui le istituzioni statali l’hanno ascoltata e aiutata nella raccolta delle memorie delle vittime della repressione nell’URSS, e poi nella battaglia fatta da una sua associazione che si occupava proprio dei diritti umani, ma progressivamente ha iniziato ad essere emarginata, limitata, colpita con limitazioni sempre più forti, arresti, multe e così via.  Finché si è giunti, nel 2012, ad inserire Memorial nell’elenco di associazioni denominate “agenti stranieri”. Tutte le associazioni (soprattutto di tipo umanitario, ma anche culturale, di altra natura) che avessero ricevuto anche solo una piccola somma da qualcuno all’estero per aiutare, per collaborare, per far sentire la propria vicinanza, venivano trasformaste per questo in un agente straniero, ed ogni iniziativa doveva essere presa con la stampigliatura “agente straniero”, in modo da rendere queste iniziative di fronte al pubblico russo come qualcosa che coincideva con una sorta di tradimento. Memorial poi, come sappiamo, è stata messa sotto processo più volte, con la conclusione (proprio a ridosso della guerra scatenata da Putin) della messa totale fuori legge, che è stata successivamente accompagnata dalla requisizione di tutti i suoi beni e materiali.  Se pensiamo che Memorial ha milioni di files in cui sono raccolte le testimonianze delle vittime, dagli anni ’30, dagli anni ’20, agli anni ’60-’70 dell’Unione Sovietica, della repressione politica, testimonianze di ogni natura sul Gulag e sui campi di lavoro e prigionia, ci si rende conto della perdita di cultura e di memoria che Putin sta perseguendo. Proprio da quelle schede siamo riusciti, come Memorial Italia, ad individuare tutte le vittime italiane, moltissime, che vi sono state nel corso dello stalinismo e della storia dell’Unione Sovietica. Alla fine, l’ultimo atto è stato il sequestro dell’edificio che è sede di Memorial e sua proprietà: per fortuna una parte dei materiali, che sono stati sequestrati e rimarranno per ora nascosti negli archivi della Russia, erano stati copiati con l’aiuto di organizzazioni culturali europee ed americane e rimarranno disponibili.

Filippo Perrini – Adesso la parola a Carolina De Stefano, docente di Storia e Politica Russa nell’Università Luiss Guido Carli. È una brillante ricercatrice storica, membro di Memorial Italia anche lei, che ha scritto il bel libro (edito da Morcelliana) Storia del potere in Russia. Dagli zar a Putin, un libro da leggere per chi vuole approfondire il tema millenario del potere in Russia, nei suoi snodi fondamentali ma anche nelle alternative che magari non sono state seguite. È scritto in maniera chiara, semplice, per non addetti ai lavori, e nel contempo è serio e approfondito. Quindi a lei, da giovane studiosa, la domanda sulla graduale cancellazione della democrazia in Russia, a partire dalla presa di potere di Putin, che ha trovato la sua consacrazione nella Costituzione del 2020. Le pagine che lei ha scritto sulla nuova Costituzione russa mi hanno fatto accapponare la pelle. Vorrei che ne parlasse, perché non sono temi poi così conosciuti.

Carolina De Stefano –  Effettivamente le modifiche costituzionali del 2020 sono state molto importanti, le più importanti dall’approvazione della Costituzione russa del 1993. Da un lato hanno rafforzato le istituzioni russe, aumentando il loro controllo a scapito dei diritti umani in Russia, e dall’altra parte hanno modificato in maniera non so se permanente, ma comunque sostanziale, la natura del regime russo. Hanno pertanto raccontato e riflettuto dei cambiamenti già avvenuti di fatto e, d’altro canto, portato a degli elementi nuovi. Il primo elemento è che con questa Costituzione Putin si è dato la possibilità (che non era data per scontata fino a quel momento) di essere eletto quantomeno per altre due volte (sono mandati da sei anni), quindi fino al 2036.  Quindi ha ulteriormente rafforzato e confermato il carattere dittatoriale del governo di Putin: in precedenza la Costituzione prevedeva il limite di due mandati consecutivi, con una interruzione (quella fatta da Putin nel 2008 e nel 2012, con Putin che poi è tornato e ha governato due mandati). Nella nuova Costituzione è stato inserito il principio dell’azzeramento dei mandati e, in parallelo, a questo sono stati inseriti (cosa peraltro molto rara da un punto di vista costituzionale) dei limiti precisi alla possibilità di altri politici e dissidenti in Russia di candidarsi (persone che al momento si trovano all’estero, perso a Michail Borisovič Chodorkovskij). Normalmente si ha una legge elettorale e non un articolo costituzionale che stabilisce chi può candidarsi o meno. Le condizioni poste dalla Costituzione del 2020 sono volte a non permettere a nessuno di candidarsi, quantomeno tra le persone più visibili, perché sono esclusi coloro che hanno avuto un conto in una banca estera, oppure un secondo passaporto, o sono stati residenti all’estero anche per pochi mesi. Quindi viene posto il principio di ineleggibilità per tutte le persone che hanno dovuto lasciato, sia pure temporaneamente, la Russia. E poi ci sono in questo testo una serie di nuovi principi (che nella Costituzione tendenzialmente liberale del 1993 non c’erano) che riguardano il ruolo della memoria («lo Stato ha il dovere di onorare la memoria dei custodi della patria e di difendere la verità storica» – art. 67.1, paragrafo 3) e il ruolo crescente della religione ortodossa. Non c’è un articolo secifico sulla religione ortodossa, ma si afferma l’importanza del ruolo della religione, il dovere dello Stato di indicare la fede in Dio come valore ricevuto dagli antenati.  È presente un articolo dedicato al patriottismo, per il quale si considera tradimento contro la patria una qualunque critica anche alla storia millenaria russa che viene praticamente riscritta in maniera sostanziale. Una realtà come Memorial, che negli anni ’90 era riconosciuta da un’ampia parte della popolazione e anche dai rappresentanti anche di minoranze etniche come una associazione che cercava di ricostruire la memoria storica nel Paese, evidentemente non aveva più alcuno spazio. Quindi da un lato abbiamo un rafforzamento del potere centrale incardinato da Putin come figura chiave nel nuovo testo costituzionale, dall’altro abbiamo il ruolo della religione e dell’identità russa, che viene riscritta in senso etnocentrico, e quindi a scapito di un’idea più multietnica e federale.

Filippo Perrini – Adesso passo la parola ad Anna Zafesova, giornalista de La Stampa, che è stata corrispondente da Mosca, vincitrice del Premio Cerruglio 2022, il concorso letterario nazionale di saggistica ed attualità, con il suo saggio Naval’nyj contro Putin. Anna Zafesova è già stata ospite della Cooperativa in un incontro con Simone Bellezza dal titolo “Dove va la Russia di Putin?” nel 2016. A lei chiedo una riflessione critica sulla società russa, che è molto difficile da decifrare a distanza da noi, anche se resta fermo il fatto che esprimere dissenso in un regime dittatoriale è qualcosa di estremamente difficile e complicato. Ricordo sempre l’esempio delle leggi razziali in Italia, e dei 1.251 professori universitari, dei quali solo 12 si rifiutarono di firmarle, e in questo caso i professori persero il posto, non finirono in prigione come capita oggi. Questo per dire come in una dittatura è molto complicato poi poter alzare la testa per tanti motivi.

Anna Zafesova – È forse la domanda delle domande, perché quando noi parliamo di un regime autoritario, quando parliamo di un regime dittatoriale, tendiamo sempre a concentrarci sul personaggio principale, sul grande cattivo, che ogni tanto finiamo anche per mitizzare e per dipingere con delle tinte fosche ma molto vivide. Per esempio, una cosa che mi chiedono spesso di fare (e che non sopporto fare) è di spiegare cosa c’è nella testa di Putin. Innanzi tutto non lo so, secondo non lo voglio sapere praticamente. Sicuramente in Russia vige una dittatura personalistica, diversa rispetto a quella che vi era – ad esempio – nell’Unione Sovietica di Leonid Breznev, dove comunque esisteva sia un Politburo di gerarchi che un partito forte di undici milioni di membri che portava il sistema di potere in una maniera capillare praticamente in ogni angolo dell’Unione Sovietica. Oggi la macchina, quella che esiste, sembra funzionare molto male (lo vediamo tra l’altro anche sul campo di battaglia in Ucraina), e infatti molti politologi russi ormai da anni usano il termine di corte, introducendo volontariamente una terminologia di tipo monarchico per ragionare su un leader unico al potere che lo influenza in maniera totalmente non trasparente pur in presenza di organismi, istituzioni formali come il Parlamento e il Governo). Detto questo, qualunque dittatura è comunque un meccanismo che nasce con un consenso, un consenso che non è visibile, non è chiaro, perché non è un contratto che viene firmato con elezioni che concludono una campagna elettorale, però un consenso che esiste. Cioè se Vladimir Putin resta al potere da 23 anni, e senz’altro perché usa un apparato repressivo, quella è probabilmente l’unica vera risorsa oggi del suo regime. Però è anche vero che è impossibile rimanere al potere per un quarto di secolo senza aver avuto un patto sociale, un qualche tipo di appoggio, di popolarità. È vero che nessuna delle elezioni nelle quali Vladimir Putin si è fatto eleggere è stata pienamente democratica, con una campagna elettorale trasparente e con un accesso equo ai media per tutti i concorrenti, con un conteggio dei voti del quale ci possiamo fidare. Detto questo, io sono assolutamente convinta che Vladimir Putin abbia goduto di una popolarità enorme in Russia, che è proprio il motivo per cui ha potuto farsi eleggere in questo modo. Lo abbiamo visto molto bene in Bielorussia, quando il consenso del dittatore, di Alexander Lukashenko, si è rotto: sulla carta doveva aveva l’80,23% dei voti, in piazza c’era se non l’80% il 50% del Paese, quindi era evidente che le elezioni erano brogliate. È finita male lo stesso, però almeno c’era una espressione molto evidente di questa protesta, che in Russia non c’è mai stata. Oggi è molto difficile parlare del consenso che resta al putinismo e molto difficile parlare delle dimensioni della protesta. Ovviamente non possiamo fidarci dei sondaggi, e non solo per i sondaggisti. Ci sono dei sondaggisti indipendenti, ma non possiamo fidarci di quelli che rispondono: perché se abiti in un Paese dove chiamare guerra la guerra comporta di finire in prigione ed andare davanti ad un giudice, e nel migliore dei casi ad una multa (che equivale ad un paio di salari mensili), più appunto licenziamenti, espulsioni dalla scuola ed altri problemi, è chiaro che uno non può fidarsi non soltanto delle domande, non può fidarsi delle risposte. Però possiamo seguire le tendenze, e secondo me da vari segnali indiretti che possono essere appunto dei cambiamenti nei sondaggi, le reazioni nei social media (l’accesso ai quali è monitorato e censurato). Teoricamente i social media occidentali, quelli indipendenti dal Governo russo, sono vietati e vi si accede con una serie di accorgimenti tecnici per cui già c’è una selezione a monte di quelli che sono tecnologicamente più avanzati e poi hanno il coraggio di farsi notare in un social media che teoricamente un bravo russo leale al regime non dovrebbe nemmeno avere installato sul suo computer o sul suo telefono. Comunque, da tutti questi segnali indiretti possiamo molto, molto grossolanamente immaginare un 25-30% dei russi condividono diciamo le idee del putinismo, questo mix di nazionalismo, militarismo, nostalgia sovietica, nostalgia imperiale, atteggiamento coloniale verso le ex Repubbliche dell’Unione Sovietica, più i mitici valori tradizionali di tipo repressivo. Un terzo più o meno è risolutamente contrario e a un terzo non gli piace quello che sta accadendo ma tutto sommato non ha delle valide alternative né le cerca, e soprattutto ha molta paura di un regime che collassa creando un caos uguale, se non peggiore, a quello che i russi hanno vissuto nella fase della decomposizione dell’impero sovietico dal 1991 in poi, anzi per essere più precisi dal 1989, dal crollo di fatto del regime comunista. Il timore dell’instabilità è stata una delle molle del consenso putiniano: infatti la stabilità che è stata un mantra che Putin ha ripetuto ad oltranza, fino a non rendersi più conto che era cresciuta una nuova generazione che questa stabilità non la considerava un valore, ma anzi voleva un cambiamento. Che cosa c’è sotto questa società che oggi è spaventata? Questo purtroppo non riusciamo a capirlo, cioè non riesco a darvi dei dati precisi. Riesco a dirvi però che è una società che si sta rendendo conto di quello che sta accadendo, perché quando Vladimir Putin ha proclamato la chiamata alle armi, la famosa mobilitazione (non molto parziale in realtà, nonostante l’avesse definita tale il 21 settembre), in una settimana (secondo i dati dei Paesi riceventi, quindi i Paesi che hanno accolto i russi in fuga), quasi un milione di russi era scappato. Siccome circa 3-4 milioni di russi erano già scappati da febbraio in poi, diciamo che questo milione in più erano probabilmente quelli che possiamo definire persone che in qualche modo non avevano grandi contraddizioni con il regime (di tipo ideologico e sociale), però non volevano assolutamente essere mandati a morire come carne da cannone in una guerra che chiaramente non condividono o che comunque ritengono una guerra che non vale il loro sacrificio. Questo è un sintomo molto importante di quello che la società russa pensa del regime, perché i russi hanno votato con i piedi, non hanno creato una protesta, non hanno organizzato una protesta, per una serie di motivi sui quali ho alcune ipotesi la cui analisi porterebbe via troppo tempo. In realtà vediamo come il consenso si è inclinato, perché chi non è riuscito a fuggire all’estero (ovviamente non tutti possono farlo) cerca di nascondersi, cambiare città, andare in campagna… Diciamo che quelli che hanno voluto andare a combattere, più o meno volontariamente, non sono molti e probabilmente diventeranno sempre meno man mano che i disastri della guerra diventeranno sempre più evidenti. Quindi una prima risposta che si può dare alla domanda sulla società russa è che credo che la lunga relazione tra il putinismo, cioè quello che il Putin collettivo ha rappresentato per una buona parte dei russi (insisto a non voler parlare di Putin, perché più parliamo di Putin più lo facciamo diventare un eroe nostro malgrado), e la società russa stia finendo, e anche abbastanza male. La domanda è ovviamente quello che ne verrà fuori, e come aiutare una società civile, un’altra Russia, una Russia diversa, ad emergere da quello che visto da qui sarà probabilmente un regime che finirà in un collasso abbastanza pesante.

Filippo Perrini – Adesso diamo la parola ad Anton Dolin, il più celebre critico cinematografico russo, capo redattore della rivista Arte del cinema. Anton Dolin ha lavorato per Radio Eco di Mosca, una delle ultime emittenti libere, e per Medusa, il giornale online dell’opposizione che ha sede a Riga, la capitale lettone. Dolin ha lasciato la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. Vorrei chiedere ad Anton Dolin come ha saputo dell’invasione dell’Ucraina e perché ha deciso di emigrare in Europa.

Anton Dolin – Ringrazio gli organizzatori di questo evento per l’invito. La situazione è molto grave non solo per il popolo ucraino ma anche per il popolo russo, che soffre per questa guerra e per la radicale restrizione dei diritti umani. Allo scoppio della guerra ero caporedattore della rivista «Iskusstvo Kino» (L’Arte del Cinema), e in pochi giorni la guerra ha distrutto il lavoro di anni. Subito dopo l’inizio della guerra, ho registrato un video con miei amici produttori e registi, come Kantemir Balagov e Andrej Zvjagincev, in cui ci esprimevamo contro la guerra, e lo ho postato sul mio canale Youtube. Però il giorno successivo è uscita la legge che prevede fino a 15 anni di prigione per le persone che manifestano la propria opinione contraria alla guerra. Oltre a questo, ho trovato dipinta sulla porta di casa una «Z» bianca, la stessa lettera disegnata sui carri armati dell’esercito russo. Un’ovvia minaccia a me e alla mia famiglia. Questa Z è apparsa su tre porte nel mio condominio, come sulla porta di Victoria e sulla porta di una dei membri di Pussy Riot, il cui processo potete vedere disegnato nei lavori di Victoria. L’ultima Z è stata disegnata sulla porta della sede di Memorial. Me ne sono andato perché la vita che avevamo prima era finita. Gli spazi di libertà erano ormai troppo angusti: o lavoravamo dentro certi schemi, proiettando solo film storici, oppure rischiavamo la nostra incolumità. La mia, quella della mia famiglia e dei miei collaboratori. Molti di loro continuano a scrivere per Meduza, ma sotto pseudonimo Ci sono forme d’arte, come la scrittura o la musica, che possono anche non essere condivise. Il cinema no: richiede un pubblico e se ti confronti con le persone è inevitabile affrontare temi sociali e politici, ovvero parlare di quello che accade nella realtà. Sono un critico cinematografico, non un esperto di guerra. Tuttavia, penso che nessuno possa vincere una guerra dichiarata contro tutto il mondo. Impossibile. La guerra che adesso c’è fra la Russia e l’Ucraina non è solamente una guerra contro il popolo ucraino ma contro il popolo russo, contro quelli che non sostengono la politica del potere, quelli che hanno la propria opinione. Anche una guerra contro l’arte, contro la letteratura, contro i valori generali del popolo russo. Già da sette mesi vivo fuori dalla mia patria. Un mese fa sono stato invitato da amici, colleghi francesi, a presentare un film di un famoso regista russo, e mi hanno chiesto di fare una piccola presentazione. Ho spento il cellulare ed ho fatto un discorso di circa dieci minuti. Dopo, quando ha acceso il cellulare, mi visto che mi erano arrivati tantissimi messaggi con minacce, con espressioni offensive nei miei confronti: praticamente sono stato dichiarato nemico del popolo. Io continuo a lavorare come mi è possibile adesso, però purtroppo ho perso la speranza che il mio lavoro possa costituire un impedimento affinché il potere attuale in Russia non effettui scelte profondamente sbagliate che hanno conseguenze orrende per moltissime persone.

Filippo Perrini Come avrete capito, Anton è proprio un fine intellettuale, proprio quel tipo di persone che i regimi totalitari non sopportano. All’artista Victoria Lomasko chiedo se sta sorgendo una sorta di arte di Stato nella Russia di Putin analogamente al realismo socialista che Andrej Sinjavskij definiva “bizzarra combinazione che offende l’orecchio”. Che autonomia rimane oggi in Russia per l’espressione artistica?

Victoria Lomasko – Io penso che il regime di Putin non sia altro che un gruppo di criminali che ha letteralmente conquistato il potere. E come potrebbe mai una banda di criminali, di organizzatori di omicidi, pensare e progettare arte e cultura? Stalin era una personalità spaventosa e criminale, ma capiva qualcosa di arte. Durante il periodo sovietico in ogni caso c’era stata l’ambizione di creare un’arte che parlasse delle persone, venivano spesi tantissimi soldi per gli artisti e, per esempio, per il cinema. Ma Putin non è interessato a spendere dei soldi né per l’arte né per la cultura, gli interessa solo spenderli per i propri palazzi, per organizzare assassinii ed ora per la guerra in Ucraina.

Anton Dolin – Se mi permettete, voglio aggiungere qualcosa. In generale sono completamente d’accordo con Victoria. Ripeto da diversi anni che Putin non è interessato alla cultura e non capisce nulla di cultura. Purtroppo è un tratto comune a quasi tutti i politici in Russia, anche quelli dell’opposizione. Ma devo dire in realtà che in Russia nell’ultimo periodo c’è stata una cultura di opposizione, non tanto nell’ambito del cinema ma di altre forme artistiche, mentre c’era anche un tipo di arte statale che si concentrava soprattutto sui film di guerra. Ma per quello che posso giudicare io, che non mi trovo in Russia, dal 24 febbraio 2022, la cultura è semplicemente morta in Russia. È come se ci trovassimo nel castello della bella addormentata, tutti dormono, non esiste più arte d’opposizione, ma anche la cosiddetta arte statale si è spaventata lei stessa per quello che ha visto succedere. Ci sono delle eccezioni, ma sono delle eccezioni che confermano la regola, ma ci tengo a ribadire che ora non mi trovo in Russia e quindi giudico dal di fuori.

Victoria Lomansko – Voglio commentare quello che ha detto Anton, che ha parlato di risorse che vengono utilizzate per il cinema. Posso confermare che per le arti visive non vengono effettuati investimenti. E forse è proprio questo che mi ha salvato, forse è per questo che adesso sono ancora in libertà e posso fare quello che faccio, perché per loro, per lo Stato, per il potere io sono semplicemente una qualche artista che disegna fumetti.

Filippo Perrini – Adesso ritorniamo a Marcello Flores. Siccome ha diretto anche il Master in Humain Rigthts and Genocide Studies Master, vorrei chiedergli se si può parlare di genocidio a proposito della guerra in Ucraina, un tema che mi sembra abbastanza controverso.

Marcello Flores – Dobbiamo innanzi tutto ricordare che il primo a parlare di genocidio è stato Putin, che per giustificare l’aggressione all’Ucraina ha individuato due questioni e due obiettivi: quello di denazificare l’Ucraina (e cacciare quindi il Governo “nazista” di Kiev) e poi di salvare dal genocidio le popolazioni russofone del Donbass. L’Ucraina ha immediatamente chiesto alla Corte Internazionale di Giustizia di esprimersi su questa terribile accusa, perché un’accusa di genocidio è la peggiore accusa che uno Stato può ricevere, e dopo un’analisi attenta ed anche abbastanza rapida il 16 marzo di quest’anno la Corte Internazionale di Giustizia ha detto che non c’è nessuna prova di alcun tentativo di genocidio che mai sia stato commesso dagli ucraini nel Donbass, e che quindi, proprio per questo, le truppe russe si devono ritirare dall’Ucraina. Naturalmente la Corte Internazionale di Giustizia non può obbligare una forza armata come quella russa ad obbedire alle sue istanze, ma è stato il momento giuridico più alto più alto in cui la questione è stata dibattuta. Il termine “genocidio”, come sappiamo, viene usato ormai molto spesso, perché riassume, sintetizza un po’ quello che sembra il male peggiore che si possa fare. QE quindi per ottenere attenzione, per sottolineare la gravità, anche le vittime di massacri, di violenze, spesso parlano di genocidio. Vi è un utilizzo esagerato di questo termine rispetto alla Convenzione sul genocidio, che indica con precisione che cosa può essere considerato o no un genocidio. I due aspetti fondamentali sono che ci debba essere una intenzione molto chiara di voler distruggere un gruppo nazionale, etnico o religioso, e di volerlo distruggere in quanto tale, per il solo fatto che esso esista, come risulta da molte delle decisioni dei tribunali internazionali (quelli per l’ex Jugoslavia e per il Rwanda soprattutto). Per la Corte Penale Internazionale in alcuni casi le accuse di genocidio sono cadute, e sono state sostituite da quelle di crimini contro l’umanità, che sono altrettanto gravi e comportano ugualmente la massima pena. Non credo quindi che si possa parlare di genocidio per quella che è l’azione russa adesso in Ucraina, se non forse in un caso specifico come quello di Bucha, che può rassomigliare a quello che accadde nelle guerre dell’ex Jugoslavia a Srebrenica, tanto è vero che il Tribunale per l’ex Jugoslavia stabilì che in Bosnia non c’era stato un genocidio, ma che il massacro di Srebrenica invece (quel massacro lì, circoscritto) corrispondeva ad un’azione di genocidio. Questo però si potrà riuscire a determinare anche da un punto di vista giuridico e giudiziario solamente quando la guerra sarà terminata.

Filippo Perrini – A Carolina De Stefano invece chiedo di illustrarci la riforma del potere che c’è stata in Russia nel dicembre del 2021, con particolare riferimento al tema delle nazionalità, tema irrisolto che in qualche modo ha avuto uno sbocco clamoroso nella guerra del 2022 in Ucraina.

Carolina De Stefano – Intanto sul fatto che ci sia stato o meno nel Donbass un genocidio, un tema delicato di cui per altro non sono esperta, vorrei informarvi delle ricerche dello studioso Paul Good, professore americano, che ha analizzato l’utilizzo della parola genocidio nei media russi prima e dopo l’inizio del conflitto: vi è stato un picco dell’utilizzo nei vari canali televisivi nella settimana in cui venne giustificato l’attacco, e poi un crollo dell’uso di questa parola nei mesi successivi, dove si utilizza una narrativa incentrata sullo scontro fra l’Occidente e la Russia. Quindi, il fatto che le autorità stesse in poche settimane si siano dimenticate che ci fosse un genocidio in corso, mi sembra abbastanza sintomatico della scarsa credibilità dell’argomento. Riguardo alla riforma dei poteri pubblici, prosegue il piano di cui ho parlato precedentemente, che è fatto di due parti in sostanza. Da un lato, con la riforma costituzionale del 2020 Putin si è dato la possibilità di rimanere al potere, e ovviamente ha creato le basi, i principi fondamentali per disegnare e fissare il sistema secondo il suo volere. Mancava una parte fondamentale, soprattutto per una Federazione come era quella della Russia, ed era quella dell’organizzazione dei poteri in relazione alle entità federate russe, e quindi poi come si esplicassero questi principi costituzionali nella pratica. Questa riforma è passata abbastanza inosservata, anche perché nel frattempo Putin aveva mandato l’esercito alla frontiera con l’Ucraina, è stata approvata nel dicembre del 2021, ed è stata la più importante riforma dei poteri pubblici dello Stato, che (come nel caso della modifica costituzionale) ha cristallizzato, formalizzato, una serie di processi di centralizzazione di poteri che nei passi già erano chiari. Infatti Putin ha avviato sin dalla sua presa del potere un processo che ha portato mano a mano a ridurre i poteri dei vari governatori, leader regionali, che avevano avuto un ampio margine di autonomia negli anni ’90. Nei fatti – semplificando la questione – è stato posto il principio per cui tutto è in capo al Presidente, che può sfiduciare i governatori senza giustificazioni (governatori eletti direttamente dal popolo nelle varie entità), e viene svuotato nei fatti il potere dell’assemblea legislativa federale, non a caso nel momento in cui alcune forme di proteste, per quanto in misura ridotta, si stavano organizzavano a livello di politica locale. Viene previsto, per esempio, che alcuni Ministri regionali debbano essere scelti in coordinamento con il Cremlino, e tutta una serie di meccanismi molto chiari su come tutto sia in capo al Presidente. Tutto sembra cristallizzato, sistemato, in realtà credo (forse è la mia posizione, lo vedremo) che questa grande rigidità del sistema (mentre prima molti meccanismi di controllo avvenivano in maniera informale), sia un rischio per il potere nel momento in cui la legittimità del Presidente, la sua capacità poi di governare, viene meno o si indebolisce- Il sistema potrebbe incepparsi, così come si era inceppato quello comunista ad un certo punto. Una frattura possibile nel regime potrebbe avvenire per il livello di scontento di tutti questi rappresentanti locali, che magari in un primo momento porteranno avanti (dopo anni di centralizzazione) l’argomento di una maggiore autonomia sul piano culturale ed etnico, in modo da costringere il potere centrale a dover rinegoziare con i leader locali per cercare di tenersi in piedi.

Filippo Perrini – Nell’aprile del 2018 fu ospite della Cooperativa la grande filosofa ungherese Agnes Heller, che tenne a Brescia l’ultima conferenza della sua vita. In quella occasione affermò: “Il nazionalismo etnico sicuramente apre una grande domanda nel territorio europeo. Ci sarà una guerra europea? Probabilmente non mondiale, ma sicuramente ci saranno dei conflitti a livello degli Stati europei se si continua sulla base del nazionalismo etnico e noi questo dobbiamo evitarlo”. Le chiedo se condivide questa impostazione e se si è fatto tutto quello che si poteva fare in Europa per far sì che il nazionalismo etnico non prendesse piede.

Anna Zafesova – Io non credo che questa sia una guerra etnica, è una guerra tra due sistemi portatori di valori diversi, quello democratico europeo e quello autoritario, nostalgico dell’Unione Sovietica, che Putin sta rappresentando. Nel corso di questo dualismo si prendono posizioni anche di identità, che sono determinate dalla guerra. In Ucraina rimane un bilinguismo ed un mix etnico molto forte, dove si è formata (soprattutto negli anni dello scontro con la Russia a partire del 2014) una nazione molto più civica che etnica, tanto è vero che basta vedere la marea di filmati che le forze armate ucraine, i singoli soldati, militari, mettono nei social, nella quale molti di loro continua a parlare russo mentre combattono i russi. È vero che la lingua russa viene usata in Ucraina sempre meno negli ultimi mesi per ovvi motivi, molti non voglionoe parlare la lingua dell’invasore, e molti ucraini russofoni stanno studiando l’ucraino e stanno parlando l’ucraino, spesso anche con degli errori. È un modo di distinguersi da quegli altri. D’altra parte in Russia si parla tanto di più del mondo russo (che è uno dei miti del putinismo), quel mondo russo da ricostruire sul quale Mosca rivendica i diritti, tirando in ballo (altro dibattito difficile) la cultura russa. Cioè viene proposta l’idea che tutto quello che è cultura russa o russofona, e tutti quelli che si interessano e che si avvicinano alla cultura russa o vi sono stati educati (quindi la popolazione dell’ex Unione Sovietica ed in parte anche dei Paesi satelliti dell’Europa dell’Est) in qualche modo dovrebbero far parte di un mondo russo. Viene fatta una equiparazione tra quella che è la cultura russa con un formato ben preciso, con un pantheon ben preciso di eroi e con una visione molto poco messa in discussione del mondo, e quella che dovrebbe essere la lealtà al soggetto politico che questa cultura oggi si vanta di rappresentare. Questo è infatti uno degli argomenti, uno dei dibattiti di oggi, che però non è etnico in senso stretto. Innanzi tutto vi ricordo sempre che in russo c’è questo trabocchetto: ci sono due parole diverse per dire russo etnico e russo appartenente allo Stato, che sono distinzioni che per un russo sono molto chiare. Nello stesso tempo vediamo come una visione imperialista, perché il putinismo probabilmente recupera un nazionalismo di tipo sovietico, dove il russo, il grande popolo russo (il famoso brindisi di Stalin del 1945), è il “primus inter pares” dell’Unione Sovietica. Da lì nasce, sostituendo l’internazionalismo proletario (nasce prima, ma lì trova la sua conferma, la sua consacrazione definitiva), quello che è un nazionalismo russo, che però non è etnico, è più di tipo cultural-politico. Da quest’idea deriva che il rappresentante di una minoranza etnica può diventare russo, nel senso che aderisce ai valori imperiali della Russia. Per esempio, vediamo che nell’entourage di Putin il Ministro della Difesa Sergej Šojgu è un tuvano, quindi di una nazione, di un ceppo più vicino alla Mongolia, che però viene cooptato tra i russi. È molto interessante la domanda che ha posto Carolina De Stefano su un possibile movente etnico o regionale nel collasso del regime. Se ne sta parlando molto, e devo dire che è un dibattito molto sorprendente, perché sembrava che non fosse in discussione dopo le due guerre per la secessione della Cecenia finite con una repressione totale di qualunque istanza indipendentista, con bombardamenti massicci di civili, di città (che ricordano molto il modello bellico che vediamo oggi in Ucraina) e con l’insediamento di un fedelissimo putiniano come Ramzan Kadyrov. A proposito di violazione dei diritti umani, ci sono pochi luoghi nel paese dove si stanno violando come la Cecenia, che rappresenta l’emergenza delle emergenze rispetto al dossier dei diritti umani: tra le tante cose è stata reintrodotta una legge islamica (il velo obbligatorio) ed una poligamia (di fatto, se non formale). Però vediamo come in questa guerra stia tornando il discorso delle minoranze russe, perché appunto il processo che ha ben descritto Carolina De Stefano di un accentramento sempre maggiore del potere nelle mani del governo rispetto alle periferie, ha avuto come esito in questa guerra che sono state le periferie a essere mandate in guerra. Secondo un calcolo fatto sui caduti, un abitante della Buriazia ha circa trecento volte più probabilità di morire in Ucraina di un moscovita. Quindi ci sono state delle minoranze etniche che hanno pagato un prezzo della guerra molto più alto della media, con le conseguenti domande che cominciano a porsi. Va anche ricordato che quelle sono molto spesso regioni abbastanza povere, con un livello di istruzione non elevatissimo, che forniscono molti soldati all’esercito di professionisti, perché spesso è l’unica possibilità di avere un qualche tipo di entrate regolari per la famiglia. Però in queste regioni, considerate nella mappa del Cremlino come lealiste, sono cominciare delle proteste in piazza, perché oltrebal dissenso degli intellettuali, c’è stato anche il dissenso delle madri cecene, daghestane, o delle madri buriate, luoghi che mediamente l’europeo medio non saprebbe nemmeno approssimativamente indicare sulla mappa geografica. Quindi sicuramente il discorso di un distacco da Mosca, di una ribellione, di una rinegoziazione dei rapporti con Mosca, si sta ponendo: molti si stanno chiedendo come mai le minoranze non russe, non slave, non ortodosse, devono pagare il prezzo maggiore per l’installazione di questo mitico mondo russo che gli Ucraini non vogliono e che anche buona parte dei russi, se anche lo vuole, non è pronta a sacrifici per ottenerlo. Così come l’Unione Sovietica è collassata anche sulla spinta di indipendenze, di emancipazione dei suoi componenti dalla Russia, è possibile che questo discorso si ripresenti adesso per la Russia, avendo il regime proposto un discorso nostalgico ed imperialista. Ovviamente in una forma diversa, perché mentre l’Unione Sovietica era composta da 15 soggetti, avevano dei confini, delle identità, degli organismi se non altro parastatali, anche se quasi tutto si decideva a Mosca. La Federazione Russa – anche qui molto sulla carta, però le carte molte volte possono diventare realtà – conta 26 componenti, intitolate a delle etnie non russe. Se non erro sono 21 Repubbliche, 5 Regioni autonome ed un Distretto autonomo. Quindi abbiamo già di nuovo delle formazioni parastatali che hanno molto poco potere, molta poca autonomia rispetto a Mosca, però ci sono linee di possibile rottura e, aggiungo (questa è un’altra novità) vedremo se si evolveranno nei prossimi mesi le istanze di autonomia di alcune regioni a popolazione in maggioranza russa (quindi senza una entità di minoranza etnica) che però cominciano a ragionare su un distacco dalla Russia, o comunque su un’autonomia rispetto a Mosca. Più Mosca si indebolirà, più il regime di Putin si indebolirà fino a crollare. Queste istanze possono diventare importanti in un sistema il sistema nel quale ruota tutto su un perno (cioè il Putin collettivo). Se questo venisse sfilato, il rischio è di uno sgretolamento totale, e questo è un qualcosa a cui bisogna essere pronti. Probabilmente non ci sarà una dissipazione della Russia in cento baronati, ma sicuramente ci sarà una Russia da rinegoziare, da rifondare, da ricostituire anche come Federazione e probabilmente c’è anche il rischio che la Russia che emergerà da questo conflitto, dalla sconfitta di questo conflitto, non sarà la Russia nei confini che oggi conosciamo.

Filippo Perrini – Arriviamo verso la fine, allora ad Anton Dolin pongo questa questione. Nella cultura russa vi sono da molto tempo due tendenze: quella che guarda alla migliore eredità dell’Europa, per la quale vi è irriducibilità della coscienza alle istituzioni, della società allo Stato, dell’individuo alla collettività; quella invece nazionalistico-imperialista, per la quale l’individuo e le sue libertà sono sacrificabili per il bene dello Stato. Come vede il futuro della Russia?

Anton Dolin – Vorrei concentrarmi sul futuro della cultura russa, che in questo momento è molto incerto. Soprattutto se ci si riferisce ad espressioni artistiche che richiedono grandi investimenti, quali cinema, teatro, musei. Per il momento, per quanto possiamo vedere, questi tipi d’arte in qualche modo riescono ad esistere, però operando in maniera da vergognarsi, visto che sono completamente dipendenti dal denaro dello Stato. Viene spesso presa a paragone la cultura nell’epoca dell’Unione Sovietica affermando che ha creato indimenticabili opere d’arte, del cinema e così via. Però, dopo il crollo dell’Unione Sovietica (in particolare negli ultimi vent’anni) il potere ha investito nella cultura in Russia, continuando però a richiedere agli artisti una sempre maggiore fedeltà. Voglio dire che ti do del denaro, però tu fai quello che ti dico io. Purtroppo le persone che sono al potere in Russia non hanno nessuna valida idea che può esistere un finanziamento statale, un investimento nella cultura, senza chiedere qualcosa in cambio, che si può dare il denaro proprio per sviluppare la cultura e non per chiedere che i rappresentanti del campo culturale subiscano i diktat potere. Questa è la logica di un ubriacone in un ristorante che dice: io pago, quindi io ordino la musica. Purtroppo ultimamente parecchi artisti in Russia hanno fatto accordi con il potere, sperando di avere qualche stabilità nella vita e nella produzione. Però l’ultimo anno ha fatto capire a tutti che non c’è nessuna stabilità, e purtroppo con i governanti che sono adesso al potere in Russia non si può avere né accordi netti né sperare nel loro comportamento onesto. Quest’ultimo anno purtroppo ha confermato l’idea che l’arte non può dipendere dal potere e non può servire il governo. L’arte deve servire il popolo, e questo è importante da capire in questi tempi difficili.

Filippo Perrini – Finiamo allora con l’ultima domanda a Victoria Lomasko, e chiedo a Victoria che cosa spera per il futuro anche da un punto di vista personale.

Victoria Lomasko – Io mi trovo nello spazio dell’arte e penso che l’arte stessa mi aiuterà a ricostruire la mia vita. Me ne sono andata con una sola valigia, con il mio gatto e con un visto molto breve ed invece adesso sono qui con una grande mostra aperta. Da quando ho lasciato la mia vita precedente mi sono sentita libera come mai prima, soprattutto mi sono sentita libera dagli attivisti che pensano che l’artista debba illustrare la “divina politica”. Deve tornare il vero amore verso l’arte che si trova più in alto rispetto alla politica. E mi sono sentita talmente libera quando sono arrivata qui a Brescia e ho realizzato i cinque passi che sono esposti nella mostra. Penso che sia il lavoro migliore che mai ho fatto. Allora, auguro a tutti gli artisti, a tutti gli autori, di preoccuparsi di meno di quello che sta succedendo adesso e di proiettarsi nel futuro. È ovvio che ogni giorno penso alla dittatura in Russia ed alla guerra in Ucraina, ma per creare delle immagini nuove devo un attimo innalzarmi e pensare all’umanità. Grazie!

Filippo Perrini – E noi facciamo proprio questo augurio e lo estendiamo a Victoria e ad Anton innanzi tutto. Ringrazio tutti coloro che sono intervenuti, avrebbero moltissimo altro da dire, ma il tempo è tiranno in questi casi. Direi che c’è spazio alcune domande veloci.

Domanda dal pubblico – Innanzi tutto ringrazio per l’incontro molto interessante. Io avrei due domande, una di carattere geopolitico ed una di carattere culturale. Su quella di carattere culturale mi concentrerei sulla frase che hanno detto Putin e Xi Jinping qualche anno fa: Cina e Russia vogliono costruire le democrazie diverse da quelle occidentali, per cui anche la Russia afferma di applicare i “suoi” diritti umani. La seconda domanda è sulla crisi del Donbass: è possibile applicare il modello sud-tirolese anche al Donbass, a Donetsk ed a Lugansk?

Filippo Perrini – Mi permetto di dire che anche Romano Prodi venerdì scorso ha affermato che il modello dell’Alto Adige è stato un modello virtuoso, dove magari qualcuno ha perso qualcosa ma ha guadagnato la pace, e la pace vale di più di qualunque altra cosa. Detto questo, ha anche rimarcato che i rapporti che intercorrevano fra Italia ed Austria erano ben diversi da quelli fra Ucraina e Russia.

Marcello Flores – Brevemente sui diritti umani. Negli anni ’90 ci fu una grande polemica da parte di alcuni paesi asiatici che rivendicavano i diritti umani asiatici, i valori asiatici, come diversi e contrapposti a quelli dell’Occidente. A fare questa richiesta erano il leader autoritario e dittatore a vita di Singapore ed il Segretario del Partito Comunista Cinese, che evidentemente pensavano che un problema reale all’interno dei diritti umani (cioè quello di rispettare non soltanto i diritti individuali ma anche i diritti delle collettività) poteva essere risolto soltanto da chi rappresentava quelle collettività perché ne aveva la forza. E che quindi i diritti umani erano quelli che stabiliva il Partito Comunista Cinese rispetto alla sua realtà. Io credo che Putin abbia questa idea, se vediamo come i diritti umani si concretizzano nell’azione di un’operazione speciale che produce crimini di guerra e crimini contro l’umanità quotidianamente. Evidentemente c’è un’idea di diritti umani russi che probabilmente farebbe accapponare la pelle a qualsiasi attivista dei diritti umani, se vediamo quelli che sono i report di tutte le organizzazioni dei diritti umani, a partire da quelli che stilava Memorial sui diritti umani in Russia. Ma per andare alle organizzazioni che hanno sedi ovunque (Amnesty International o Human Rights Watch), vediamo che la Russia di Putin è stata sempre di più, anno dopo anno, in prima fila tra i paesi che hanno violato maggiormente i diritti umani.

 

Anna Zafesova – Questa idea che mette in parallelo il Donbass e il Tirolo gira spesso ed è frutto di un fraintendimento. Quello che avviene in Ucraina non è un conflitto etnico, noi spesso abbiamo sovrapposto al conflitto in Ucraina degli schemi balcanici. Non è un conflitto fra una minoranza russofona ed una maggioranza ucrainofona, bisogna andare in Ucraina per vederlo. In Ucraina tuttora si parla russo, anche se molto meno per i motivi che ho detto poc’anzi. Nnelle regioni di Donetsk si parla prevalentemente russo con una percentuale più o meno identica a quella con cui si parla a Dnipro, una delle roccaforti dell’indipendentismo ucraino e dell’orgoglio cosacco. A Mykolayiv si parla russo, a Odessa si parla russo, Kiev è una città dove fino a qualche anno fa si parlava molto più russo che ucraino, adesso con le nuove generazioni si parlavano entrambi. È una pia illusione che si sarebbe potuta evitare la guerra se Kiev avesse dato più diritti ai poveri russi discriminati. Tra l’altro vorrei ricordare un dato che sfugge ai più. Nel 2014 (quando parti del Donbass sono state invase dall’esercito russo, anzi dagli infiltrati dei servizi segreti russi e poi dall’esercito), c’è stata la più grande crisi di profughi in Europa: quasi due milioni di persone sono scappate dalle regioni di Donetsk e Lugansk. Nessuno in Europa se n’è accorto, per un motivo molto banale. Se la memoria non mi inganna 400.000 persone sono andate in Russia, mezzo milione è finita in Polonia ed un milione è andata in Ucraina, cioè sono scappati esattamente in quel paese che nella narrativa russa li stava perseguitando. Tra l’altro, se andate a Kiev trovate questi profughi del 2014 in molte posizioni di notevole prestigio, sia nel privato che nelle strutture pubbliche. Quindi non è un conflitto etnico, la differenza del Donbass è stata soprattutto di natura politica. Diciamo che in un Paese con molte identità regionali, il Donbass è quello che ha una radice sovietica prima che russa molto forte. La regione di Donetsk (giusto per inquadrarla) è una regione di miniere di carbone con grandi impianti siderurgici, quindi un modello di industria di fine ‘800 primo ‘900. Regioni di questo tipo sono in decadenza in tutto il mondo, con industrie che fino alla recente crisi energetica erano in via di smantellamento. Dal Donetsk, per esempio, viene il famoso Stakanov, è una regione che affonda molte radici ideologiche, storiche, nel periodo sovietico molto più di altre regioni ucraine. Quindi, ripeto, molto più che una questione etnica è una questione politica. Quindi non credo che sia proponibile la soluzione del Sud Tirolo.

Nota: Trascrizione degli interventi in occasione del convegno promosso da Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura e Fondazione Brescia Musei in collaborazione con Memorial Italia all’interno del Festival della Pace promosso dal Comune di Brescia. L’incontro si è tenuto nell’Auditorium di Santa Giulia di Brescia il 15.11.2022. La trascrizione iniziale è stata effettuata da Gabriele Smussi, che ringraziamo vivamente. I testi non sono stati rivisti dagli Autori.