La virtù delle parole chiare e precise

Uno dei pensatori tedeschi più affascinanti e geniali, Johann Georg Hamann, ha condensato in due frasi sia l’elogio della chiarezza, sia l’elogio dell’oscurità. “Chiarezza, semplicità di espressione, connessione valgono più del doppio di molti pensieri profondi”, si afferma nella prima frase. E nella seconda: “Io sono del parere che la chiarezza possa far perdere ai pensieri gran parte della loro novità, arditezza, verità”. L’obiezione è spontanea: com’è possibile difendere nello stesso tempo due tesi così contraddittorie? Evidentemente Hamann vuol indurci a riflettere e a distinguere tra vera e falsa chiarezza, tra oscurità e oscurità. È questa la via seguita da uno dei più intelligenti filosofi del linguaggio, Massimo Baldini, nei suoi scritti, ed in particolare in due di essi, Parlar chiaro parlare oscuro (Laterza, Bari) e Educare all’ascolto (La Scuola, Brescia), due libri la cui lettura è non solo interessante, ma godibile.
La chiarezza va difesa perché si parla e si scrive per essere intesi dagli altri, sì che una scrittura o un discorso poco chiari sono qualcosa di insensato. “Ogni miglioramento nella chiarezza – ha scritto Popper – ha in se stesso un valore intellettuale” perché è un traguardo, un punto di arrivo, una sudata conquista. È forse ragionevole supporre che quello che abitualmente si dice “lo spirito di una lingua” è in larghissima misura il tradizionale standard di chiarezza introdotto dai grandi scrittori di quella data lingua. Ci sono anche alcuni altri standard tradizionali in una lingua oltre la chiarezza, ma quello della chiarezza è forse il più importante di tutti: ed esso è un retaggio culturale che si deve gelosamente preservare. Una parola colpisce il segno non solo quando essa rappresenta a me stesso la cosa pensata, ma anche quando colloca la cosa davanti agli occhi dell’altro a cui io parlo. Insomma, la lingua è una delle più importanti istituzioni della vita sociale e la sua chiarezza è una condizione essenziale perché la vita sociale possa funzionare al meglio, in ogni ambito. È fra l’altro un modo per garantire ai cittadini la certezza dei propri diritti-doveri.
La chiarezza è, dunque, una “virtù” che bisogna praticare in ogni comunicazione con gli altri ed in primo luogo in ogni schietto colloquio con noi stessi. Professori magniloquenti ma che non sanno quello che dicono, medici che si danno importanza perché parlano di piressia criptogenetica invece di dirti febbre di origine sconosciuta, filosofi che usano un linguaggio oracolare o pseudo-dialettico, dominato dalla magia di parole altisonanti e dalle mistificazioni del gergo: ecco un tipo di uomini che può anche aver successo, ma che merita di essere francamente disprezzato. Ad analisi rigorose assai spesso risulta che le loro parole hanno significati dubbi ed incerti e talora sono addirittura solo degli insignificanti rumori. Baldini diverte il lettore con esempi di questa maleducazione linguistica, che in qualche caso è anche calcolata malizia. “Un’oscurità bene preparata – scrive Kant nell’Antropologia dal punto di vista pragmatico – serve spesso a creare l’illusione della profondità e della consistenza”.

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C’è, però, una chiarezza non solo apparente, ma falsa e deviante, da cui bisogna guardarsi. Siamo in campagna elettorale e si spreca l’uso degli slogan. Ebbene, nulla sembra più chiaro di uno slogan, affermazione netta che non ammette repliche, che tende aggressivamente a generare persuasioni indubitabili e fa sembrare necessarie cose che non lo sono affatto. Lo slogan è il massimo del parlar facile che non lascia pensare. È una vera e propria trappola per il pensiero. È una verità sommaria che distrugge in noi le condizioni delle verità. È un concentrato di dogmatismo e di manicheismo, che non ammette repliche e non consente dubbi. “I dubbi – scriveva Ugo Ojetti nel 1921, a proposito dell’eloquenza sloganistica di Mussolini – se li tiene per sé”. Ci sono molte altre forme di pseudo-chiarezza, oltre quella compiacente degli slogan: chi non sa essere preciso, chi si rifiuta di approfondire non è certo uno che pensi con chiarezza. Si dà per scontato che la maggior parte delle persone non riesce a capire concetti, situazioni, vicende, questioni scientifiche, artistiche, letterarie e allora si pensa che la cosa migliore sia quella di presentare loro tutto questo al grado più banale, semplice, basso, il che equivale a non presentarlo affatto e a non far comprendere proprio nulla, dal momento che si tratta per lo più di cose abbastanza complesse, che, di conseguenza, esigono spiegazioni alquanto lunghe e precise. Difendere la chiarezza, inoltre, non vuol dire mostrare la benché minima predilezione per una terminologia sciatta o imprecisa, ma solo disamore per l’arroganza delle conventicole linguistiche, per quanti cercano a buon mercato la sicurezza nell’ermetismo, per quanti parlando prediligono la retorica, il suono pieno e ampio piuttosto che l’esattezza e la precisione terminologica.

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L’impegno a essere chiari vale sempre, ma non è vero affatto che tutto in ogni circostanza può essere espresso in maniera chiara. Solo la televisione può ingenerare un simile inganno, una tal presunzione. Vi sono argomenti e settori di indagine in cui non si capisce tutto dopo una bella conferenza, perché in realtà non diventa chiaro se non quello che si è studiato a lungo. Bisogna prendersela, in altre parole, con i discorsi inutilmente oscuri su realtà chiarissime e non con i discorsi necessariamente difficili su realtà veramente oscure. C’è poi chi – dotato di immaginazione, di fantasia creatrice, di umorismo – deve esercitare l’intera gamma del linguaggio fino ai suoi limiti; e anzi quei limiti è chiamato a forzare. Sono in primo luogo gli innamorati, i mistici, i poeti. Ma essi lo fanno, compiono le loro “irruzioni nell’inarticolato” (Eliot), per ampliare le possibilità della vita e della nostra comprensione del mondo.
Qualche annotazione finale sul “politichese”, cioè sul linguaggio dei politici. Su ogni altra citazione che introduca a riflettere su questo argomento la più netta è quella di Luigi Einaudi: “Nessuna cosa è tanto odiata dai politici quanto il parlar chiaro”. Perché quasi tutti i politici, di qualsiasi schieramento ideologico, dagli anarchici ai reazionari, non riescono ad aprir bocca senza far ricorso a locuzioni pretenziose, a metafore consunte, a ovvietà banali? Le ragioni sono tante, certamente, ma un paio mi sembrano evidenti: il “voler dare un’apparenza di solidità all’aria fritta”, come diceva George Orwell, e il mascherare il proprio smarrimento di fronte a problemi gravi, mai studiati seriamente, con la sopraffazione verbale. Manzoni, nel suo amaro realismo, le aveva già descritte nel discorso dell’Azzeccagarbugli.

Giornale di Brescia, 7.3.1994. Articolo scritto in occasione di un incontro con Massimo Baldini sul tema: “Parlare chiaro parlare oscuro: il linguaggio dei politici”.