L’addio di More tra divino e umano

La nomina di More a Gran Cancelliere avviene in una situazione resa dirompente dalla questione del divorzio da Caterina d’Aragona e dal pressing asfissiante di Anne Boleyn su Enrico VIII.
Il 25 ottobre, a Greenwich, More riceve dalle mani del re lo scettro di Gran Cancelliere d’Inghilterra. Il giorno dopo presta giuramento a Westminster. More non si fa alcuna illusione e sa benissimo ciò che da un momento all’altro può accadere; ma allora perché accettare una carica che inevitabilmente lo pone nell’alternativa di piegarsi o spezzarsi?
La risposta, a nostro avviso, è in questo passaggio dell’Utopia: “Non si deve abbandonare la nave in mezzo alle tempeste solo perché non si possono estinguere i venti. Si deve operare, invece, nel modo più adatto per cercare di rendere se non altro minore quel male che non si è in grado di volgere al bene” (Utopia, The Yale University Ed. ,1965, vol. IV,p. 96).
More è, dunque, perfettamente consapevole del rischio gravissimo a cui va incontro e tuttavia crede, quale che sia il costo da pagare sul piano personale, di non doversi sottrarre a un preciso dovere: quello di dispiegare l’unico tentativo legale possibile affinché la faccenda del divorzio non sfoci nello scisma religioso.
More sarà Cancelliere dal 25 ottobre 1529 al 16 maggio 1532: due anni, sei mesi e tre settimane. Sul più scottante dei problemi, il divorzio del re, , la sua linea di condotta è assai riservata e al tempo stesso molto precisa: solo conversando in privato con il re e su sua richiesta, egli espone le sue personali opinioni sullo scioglimento con Caterina d’Aragona; ritiene tuttavia la questione non di sua competenza, ma degli specialisti in diritto canonico e della Santa Sede; chiede pertanto di essere tenuto del tutto fuori, così come di non essere mai costretto a pronunciarsi su di essa pubblicamente.
Il re, a sua volta, mentre esige il più rigoroso riserbo dal suo Cancelliere, assicura che rispetterà la sua libertà di coscienza.
Certamente egli pone nella sua stima More al di sopra di tutti, ma ci si deve chiedere fino a che punto sia sincero con il Cancelliere, e fino a che punto pensi di ricattarlo con la sua stessa benevolenza, piegando prima o poi anche lui al suo volere.
“Nel tempo ch’era More Cancelliere / di cause in mora non ce n’eran più. / Cose così non le potrem vedere / che quando More tornerà quaggiù”.
More rimase alla Cancelleria fino a quando l’assemblea dei vescovi, cedendo alle pressioni del re, riconobbe in Enrico VIII, sia pure ad personam, “il Capo Supremo in terra della Chiesa d’Inghilterra”.
Era il 15 maggio 1532 e il giorno seguente More presentò le dimissioni, peraltro da tempo annunciate al sovrano a motivo delle non buone condizioni di salute. Come all’atto di insediamento di More, al Cancellierato, anche ora, al momento del ritiro, il duca di Norfolk lo ringrazia pubblicamente a nome del re per la sua amministrazione esemplare.
Tra il re e il suo ex cancelliere c’è, dunque, un congedo che ambedue vogliono senza rottura e More spera ora di potersi dedicare a tempo pieno ai suoi studi, ai suoi scritti, ad una più intensa vita preghiera e di contemplazione. Ma fino a quando gli sarà consentito di starsene in disparte, per suo conto?

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In quei giorni, in cui i suoi rematori e la sua barca passano al suo sostituto nella Cancelleria, Audley, e una dignitosa povertà bussa alla porta della “Casa Grande” di Chelsea, le preoccupazioni di More sono assai gravi.
Egli è realmente malato e senza possibilità di riprendere l’esercizio dell’avvocatura; si aggiunga che due anni prima, quando sir John More morì, il figlio non ereditò nulla del suo immenso patrimonio, essendo ancora in vita l’ultima moglie del padre.
Eppure, mentre nella sua condizione tutto muta fin nelle cose minime, More si raccoglie con se stesso per scrivere finalmente una lunga lettera, una delle più belle ed accurate, all’amico di sempre.
L’Epistula 2659 a Erasmo è come un ritrovarsi di nuovo improvvisamente insieme, dopo un lungo intervallo con la persona più cara, a cui, pur scrivendo poco e di rado, non aveva smesso un sol giorno di pensare, cercando di indovinare il suo dissenso o il suo consenso su ognuna delle questioni che contano.
More tace, com’è suo dovere, sulla “grave questione del re”, ma su tutto il resto il suo cuore si apre al ricordo grato ed esaltante delle comuni speranze e battaglie.
Con gli anni sono arrivate anche le disillusioni e le sconfitte e quella lettera è inevitabilmente un bilancio in cui l’accento batte sul tasto delicato del “che cosa avremmo dovuto dire e fare in un altro modo”; ma essa è soprattutto l’alta, diretta testimonianza che momentanei malumori e differenti giudizi, derivanti del resto dalla fortissima personalità di ognuno dei due, non hanno mai potuto oscurare lo splendore di un’amicizia che durava ininterrotta da più di trent’anni.
Certo, annota More, se Erasmo avesse potuto prevedere l’eresia, avrebbe detto le stesse cose con più moderazione e possibilmente con maggior chiarezza; si deve riconoscere, però che la stessa cosa si può dire dei Padri della Chiesa e persino degli Apostoli e degli Evangelisti.
I malevoli e i malpensanti ci sono e ci saranno sempre, ed allora Erasmo, “che Dio ha colmato di beni particolari”, ha fatto bene a continuare il suo lavoro, lasciandoli abbaiare. Da una parte e dall’altra si esalta o si accusa Erasmo di avere aperto la strada ai luterani con le sue critiche, ma egli attaccava per riformare – ribatte More – e non per distruggere come fanno i protestanti.

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L’ultima lettera di More a noi pervenuta, l’Epistula 2831, risale al giugno 1533. Ad essa sono uniti due scritti molto singolari: l’Epitaffio, scritto da lui stesso, e l’Epigrafe per la tomba in cui egli intendeva riposare.
E’ difficile mettere insieme scritti tanto personali e di così grande rilievo per chi li aveva stilati. Che l’epitaffio e l’epigramma siano stati inviati subito ad Erasmo è un ulteriore segno del vincolo che unisce in modo unico l’olandese e l’inglese.
L’epitaffio –che è un po’ il testamento di sir Thomas More, e un po’ il suo autoritratto- va preso in attenta considerazione.
Dopo l’arguta affermazione iniziale, secondo cui la famiglia in cui era nato “non era nobile, ma degna di essere onorata”, More elenca rapidamente le tappe della sua carriera politica e delle missioni, diplomatiche ricorda solo quella che portò alla Pace di Cambrai, firmata il 15 agosto 1529, perché convinto di avere dato un proprio contributo al suo buon esito.
More si sofferma poi a rievocare amabilmente la figura del padre John –“uomo civile, piacevole, incapace di fare del male, dolce, misericordioso, giusto e integro”- e prosegue: “Finché egli era vivo, il figlio appariva giovane agli altri e ai suoi stessi occhi, ma ora che il vegliardo è morto, guardando ai quattro figli e ai suoi undici nipoti, cominciò anch’egli a trovarsi vecchio. Questo stato d’animo, accresciuto dalla malattia di petto che fece seguito alla dipartita del padre, fu per lui un segnale dell’approssimarsi alla vecchiaia. Per questo, sazio di ogni cosa mortale, egli domandò che gli fosse concesso ciò che aveva sempre desiderato fin da quando era adolescente: avere, verso la fine della vita, alcuni anni di cui disporre liberamente, durante i quali, sottraendosi a poco a poco agli affari della vita terrena, potesse meditare sulla vita futura”.
Il testo dell’Epigrafe More l’aveva fatto incidere sulla tomba costruita per sé e per la seconda moglie nella chiesa di Chelsea; ma quando nel 1532 vi fece trasportare anche le spoglie di Jane, la sua chara muliercula (“cara mogliettina”), allora aggiunse alcuni versi scritti molti anni prima, in cui diceva di non sapere quale delle due mogli gli fosse più cara: Jane che gli aveva generato i figli, o Alice che glieli aveva allevati.
L’epigrafe chiude in modo imprevedibile: “Come avremmo potuto vivere bene tutti insieme noi tre, / se il destino e la religione lo avessero consentito!” (O simul o juncti poteramus vivere nos tres, / quam bene si fatum religioque sinant!Epigr. 258).
Il desiderio di More di riposare tra le due mogli non si realizzò, ma egli aveva la certezza che “la morte ci darà quello che non ha potuto darci la vita” (sic mors non potuit dare quod vita, dabitibid.).

Giornale di Brescia, 21.8.1999.