Le vie che ci portarono ad Auschwitz

Il genocidio degli ebrei in Europa negli anni della Seconda guerra mondiale, fra il 1939 e il 1945, supera ogni altro che si sia verificato nella storia e fa di Auschwitz qualcosa di unico e senza analogo. Il calcolo più cauto delle vittime, confermato dalle stesse fonti naziste, è il seguente: furono eliminati nei campi di sterminio 4 milioni di ebrei e altri 2 furono fucilati in Polonia e in territorio sovietico, o perirono di fame e di malattie nei ghetti dell’Europa Orientale. Né si deve dimenticare che al conto occorre aggiungere 5 milioni di non ebrei. L’interrogativo di fondo che si affaccia, quando ci si avvia a considerare quell’orrore immane che designiamo con la parola «Auschwitz», è: com’è stato possibile che in un Paese di tradizioni religiose e culturali come la Germania sia giunto ad imporsi vittoriosamente, con la seduzione e con il terrore, il regime dittatoriale che ha gettato il mondo nella Seconda guerra mondiale e che ha prodotto l’inferno di Auschwitz? Vi sono nella storia di quel Paese premesse politiche che, in qualche modo, offrirono all’hitlerismo un «terreno di cultura»?

Certamente il punto di svolta in Germania si ebbe dopo il fallimento della rivoluzione liberale e nazionale del 1848. Quel fallimento ebbe, come conseguenza la prussianizzazione della politica di unificazione nazionale e il trionfo della «rivoluzione dall’alto» di Bismarck. La borghesia tedesca capitolò dinanzi alla famosa asserzione bismarckiana che i grandi problemi dell’epoca non si sarebbero risolti con i discorsi o con le decisioni delle maggioranze parlamentari, ma con il ferro e col sangue. Bismarck fece entrare nell’anima tedesca il duplice veleno dell’incondizionata esaltazione dell’autorità statale e della politica di potenza. «In queste condizioni – ha scritto Karl Dietrich Bracher – Treitschke[2] poteva affermare con grande successo che l’individuo… non possedeva alcun diritto di opporsi all’autorità statale, anche quando questa veniva sentita come immorale» (La dittatura tedesca, trad. it. Il Mulino, Bologna 1983, p. 36). L’aperta rottura fra nazione e umanità che in Germania si consumò durante la seconda metà dell’Ottocento fece sì che il razzismo e l’antisemitismo divenissero, fin d’allora, aspetti costitutivi dell’ideologia nazionalistica.

Chi si assume, però, il compito di portare al parossismo la connessione tra nazionalismo imperialistico, antisemitismo e razzismo biologico fu Adolf Hitler (1889-1945). I capisaldi del nazionalsocialismo sono noti: l’esaltazione della presunta superiorità della razza ariana e in essa del popolo tedesco, l’Urvolk, «il popolo originario» per eccellenza; la dittatura del partito nazista sullo Stato e la conseguente divinizzazione del Capo Salvatore; il postulato per cui si deve vedere negli ebrei il nemico numero uno e nella loro distruzione – in Germania prima, in Europa poi – il vero obiettivo del nazismo.

Le forme di totalitarismo che nel secolo XX hanno imbarbarito la civiltà europea sono tre – comunismo, fascismo, nazismo – ma esse hanno, malgrado le differenze, un principio-base comune: alla politica liberale e democratica del confronto pubblico, della trattativa e dell’alternanza, il totalitarismo oppone l’ideologia terroristica del «principio amico-nemico», per cui chi non accetta i dogmi e la prassi del regime al potere è un nemico da annientare con ogni mezzo. Con una precisazione: nel totalitarismo hitleriano la contrapposizione «amico-nemico» esige che il nemico assoluto sia individuato non in un’altra classe sociale o in altre nazioni, ma in un’altra razza, a cui si assegna il ruolo di capro espiatorio, responsabile di ogni paura e di ogni scacco, e insieme di polo antagonista contro il quale occorre mobilitare tutte le forze in uno scontro decisivo per la vita e la morte. Nel caso della Germania nazista il nemico metafisico non aveva che un nome: gli ebrei.

É evidente che una politica antiebraica, così concepita non aveva che due vie da percorrere. Prima, la persecuzione attraverso apposite leggi antiebraiche, che rendessero obbligatoria l’espropriazione di beni e di diritti degli ebrei tedeschi e, ove fosse possibile, la loro espulsione; e poi l’annientamento degli ebrei. Fra il 1933 e il ‘39 ci fu la persecuzione, crudele e senza scampo, degli ebrei in Germania, in Austria e in Cecoslovacchia; nel corso della seconda guerra mondiale, e più precisamente tra il giugno1941 e la primavera del ‘45, si passò all’annientamento. Insomma, si cominciò col rendere operante il principio: «Voi non avete il diritto di vivere tra noi» e si passò poi ad attuare la più diabolica delle conseguenze che da quel principio derivava: «Voi non avete il diritto di vivere».

La distruzione degli ebrei in Europa fu attuata in tempi diversi e con diverse modalità. Quando il 22 giugno 1941 scattò l’Operazione Barbarossa, le SS e appositi reparti della Wermacht furono impegnati ad attuare le direttive precedentemente impartite ai loro alti comandi dal Führer per lo sterminio sistematico degli ebrei in Polonia e in Unione Sovietica. Cominciò allora la seconda fase della soluzione finale. Lo sterminio veniva attuato in zone che erano state evacuate mediante la fucilazione di massa, alla quale seguiva il rogo dei cadaveri con la benzina. Le fosse comuni, una volta occultate con scrupolo e inventiva, servivano a far sparire i resti non interamente distrutti da fuoco.

Fu in quell’estate che vennero avviati nei campi di annientamento anche gli ebrei tedeschi e quelli dell’Europa centrale. Era giocoforza, infatti, escludere ancora dai piani d’internamento e di distruzione fisica gli ebrei dell’Europa occidentale, almeno finché rimaneva la possibilità di una pace con l’Inghilterra. Il processo di distruzione degli ebrei non poteva continuare ad essere praticata il metodo della fucilazione di massa, con i massacri che ponevano direttamente a contatto le vittime e i loro assassini. Rudolf Hoess, primo comandante del campo di concentramento di Auschwitz, attesta che tra i soldati delle Einsatzgruppen erano frequenti i suicidi e la maggioranza si rifugiava nell’alcool. «Ne avevo abbastanza ormai – scrive Hoess – delle esecuzioni degli ostaggi, delle fucilazioni in gruppo ordinate da Himmler o dall’alto Comando della Polizia del Reich. Ma ora ero tranquillo perché questi bagni di sangue sarebbero stati evitati… Ora avevamo scoperto il gas e il modo di usarlo».

Le operazioni più segrete del processo di annientamento si svolsero principalmente in sei campi situati in Polonia. Quei campi erano i centri verso i quali convergevano migliaia di trasporti che arrivavano da tutte le direzioni. I convogli ripartivano vuoti e il loro carico scompariva all’interno. I campi di sterminio funzionavano velocemente e bene. Il nuovo arrivato scendeva dal treno alla mattina e, se giudicato inidoneo al lavoro, alla sera il suo cadavere era già bruciato e i suoi abiti impacchettati, immagazzinati, pronti per essere spediti in Germania. Questo tipo di operazione era il risultato di una complessa pianificazione il cui meccanismo somigliava fortemente ai metodi di produzione di una fabbrica moderna. Lo scopo era di assicurare la produzione della morte su scala industriale. Mai, in tutta la storia dell’umanità, si era ucciso a catena; ora, invece, si poteva farlo per la semplice ragione che era stata ideata una nuova struttura che associava il campo propriamente detto e, all’interno di esso, le installazioni di sterminio, cioè la camera a gas e i forni crematori. I due elementi esistevano da un certo tempo, ma isolatamente. La grande innovazione fu quella di mettere in funzione i due sistemi insieme.

A partire dal 1942 la soluzione finale venne estesa anche agli ebrei dei Paesi dell’Europa Occidentale, sotto il dominio tedesco e poiché i campi di sterminio erano nell’Europa Orientale, l’operazione fu presentata come un trasferimento all’Est per il lavoro richiesto dall’economia di guerra. Questo fu il terzo ed ultimo momento della soluzione finale. La fine di ogni remora per Hitler e per i suoi fedelissimi criminali si spiega solo con la fine di due grandi illusioni. La guerra contro l’Unione Sovietica, col sopraggiungere in forte anticipo dell’inverno, si rivelò non essere affatto una guerra lampo; anzi il 6 dicembre 1941 Hitler registrò dinanzi a Mosca la sua prima sconfitta. Ed ecco, due giorni dopo, l’8 dicembre, il Giappone distrugge la flotta americana a Pearl Harbour e scende in guerra con gli Stati Uniti; l’11 dicembre l’Italia e la Germania si schierano a fianco dell’alleato nipponico. Ma ciò significa anche la perdita definitiva della madre di ogni illusione, quella di una spartizione del potere mondiale tra Inghilterra e Germania.

Alla nuova situazione, che egli stesso aveva creato, attaccando l’Unione Sovietica, Hitler reagì a modo suo, cioè non riconoscendo l’infondatezza totale dei suoi calcoli, ma rifugiandosi nella più ossessiva delle sue manie: nell’ora della «guerra totale» il primo di tutti i compiti era quello di portare a termine a qualsiasi costo la distruzione degli ebrei in Europa. Nella fase culminante della campagna di Russia, durante l’avanzata su Stalingrado, quando tutte le forze di lavoro e i mezzi di trasporto dovevano essere indirizzati a quell’unico obiettivo, l’Europa intera era invece attraversata con regolarità pianificata da lunghi convogli ferroviari carichi di ebrei dell’Europa Occidentale diretti ai campi di concentramento in Oriente.

Il 24 febbraio 1942 Hitler riaffermò la cosiddetta «profezia» solennemente pronunciata al Reichstag. il 30 gennaio 1939: «Da questa guerra non uscirà annientata la razza ariana, sarà l’ebreo invece ad esser sterminato. Qualsiasi conseguenza avrà la lotta, o qualunque sia la sua durata, sarà questo il suo risultato finale». Così mentre nella seconda metà del conflitto il Terzo Reich cedeva inesorabilmente sul piano militare e passava di sconfitta in sconfitta, la soluzione finale della questione ebraica veniva sempre più accelerata. Pare proprio che alle sconfitte militari della Wehrmacht Hitler facesse corrispondere le sue «vittorie» razziali. La distruzione degli ebrei in Europa doveva, insomma, prevalere su ogni considerazione di salvezza del popolo tedesco.

Auchwitz fu l’annientamento di in popolo colpevole di essere venuto al mondo, di discendere da Mosè e dal Decalogo. Nei dialoghi con il politico e saggista Hermann Rauschning, Hilter era stato esplicito: la mia – disse – è «una guerra contro i Dieci Comandamenti, contro la Legge dettata sul Monte Sinai, contro l’eterno tu devi che domina la religione mosaica e quella cristiana», contro quell’odiosa invenzione giudaica che si chiama coscienza». Aveva, dunque, visto giusto il grande storico europeo, l’olandese Johan Huizinga, quando, già nel 1935, aveva scritto che «con il nazismo per la prima volta l’umanità si trova di fronte ad un decadimento dello spirito tale da menar diritto a un Satanismo che innalza il male a norma, e addirittura a segnale luminoso». Orbene di quel satanismo Auchwitz è l’epifania più terrificante perché mai prima si vide barbarie più scientificamente organizzata. Elisa Springer è passata per quell’inferno.

Così, mentre nella seconda metà del conflitto il Terzo Reich cedeva inesorabilmente sul piano militare e passava di sconfitta in sconfitta, la soluzione finale della questione ebraica celebrava il suo ignobile vergognoso trionfo.

 

[1] Trascrizione, rivista dall’autore, dell’introduzione alla relazione di Elisa Springer tenuta nell’Aula Magna del Seminario di Brescia il 9.5.2002 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.

[2] Heinrich Gothard von Treitschke, storico tedesco e scrittore politico antisemita.