Lo sviluppo è il nuovo nome della pace

E’ un’emozione grande per me parlare a Brescia, il cui nome nel mondo resterà sempre legato a quello di Giovanni Battista Montini, il papa dell’enciclica Populorum progressio.

Quando la situazione mondiale cominciò a diventare più grave, lo Spirito ha suscitato nella chiesa una serie notevole di papi, a partire da Leone XIII, che hanno posto con vigore all’ordine del giorno della coscienza cristiana la questione sociale.

Giovanni XXIII ci ha aiutato moltissimo con le serene e ardite analisi della Pacem in terris e della Mater et magistra; Giovanni Paolo II ci ha offerto una preziosa trilogia con la Redemptor hominis, la Laborem exercens e la Dives in misericordia. La Populorum progressio di Paolo VI occupa tra le encicliche sociali un posto particolare. Da questa lettera ci vengono tre insegnamenti assai preziosi, che ci aiutano a capire il nostro tempo terribile e appassionante. Il primo è la definizione stessa dello sviluppo:

“lo sviluppo vero, lo sviluppo autentico esiste soltanto se si tratta di sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini”;

il secondo insegnamento indimenticabile è che “lo sviluppo è il nuovo nome della pace” e il terzo consiste in un insieme organico di apporti tali da situare per sempre nella giusta prospettiva la nozione di aiuto ai paesi poveri. Questi tre insegnamenti ci aiuteranno nella nostra riflessione. Ci sono dei paesi che si giudicano sviluppati e che guardano ai paesi produttori di materie prime come a paesi sottosviluppati, ai quali si attribuisce con finezza il nome di “paesi in via di sviluppo”. I cosiddetti paesi sviluppati costituiscono due mondi: un primo mondo, capitalista, incarnato dagli Stati Uniti; un secondo mondo, socialista, egemonizzato dall’Unione Sovietica. Loro sono, insieme al Giappone e all’Europa, i paesi soprasviluppati; noi saremmo il terzo mondo. Ma come chiamare progrediti quei paesi che arrivano a costruire il loro cosiddetto benessere con il sacrificio di milioni di creature umane uccise ogni anno per fame e di milioni di bambini che, non avendo un’adeguata alimentazione nei primi tre anni di vita, resteranno per sempre feriti nei loro corpi e nella loro intelligenza? Come chiamare progrediti USA e URSS se, accanto ai loro viaggi spaziali ed agli sbarchi sulla luna, questi due mondi possiedono già – tra bombe nucleari, chimiche e biologiche – il maledetto potere di far scomparire la vita sul nostro pianeta? Le superpotenze rivali e i loro rispettivi satelliti si prendono gioco dei popoli che a loro indirizzano appelli e moniti perché pongano fine alla folle corsa agli armamenti. Ad ogni minuto il mondo spende un milione di dollari per fabbricare armi, in un anno quattrocentocinquanta miliardi di dollari, cioè novecentomila miliardi di lire.

Come chiamare progrediti USA e URSS se, pur avendo i mezzi per distruggere la miseria sulla terra, bruciano enormi ricchezze nella ricerca di armi sempre più micidiali?

Come chiamare progrediti i popoli-leaders del capitalismo e del comunismo se, pur avendo con il progresso della tecnologia e dell’elettronica la capacità di trasformare i deserti in giardini, arrivano invece a creare nuovi deserti, ferendo gravemente l’ecologia?

Paolo VI ha ragione: “lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. Ma poiché noi non conosciamo altro che falsi sviluppi, costruiti sulla miseria e sulla morte, la pace è ancora lontana. Il nostro secolo ha già visto due guerre mondiali e vive ancora sotto la minaccia di una maledetta terza guerra mondiale, che porterebbe al suicidio universale. Frattanto si moltiplicano le guerre locali. E’ cosa terribilmente triste: oggi, quando i popoli si combattono, si uccidono, ci sono sempre dietro di loro lo grandi potenze che vendono armi sempre più sofisticate, costose, distruttive. Nel lontano passato si è creduto che persino un fatto irrazionale come la guerra potesse diventare palestra di coraggio e di grandezza umana; ma, oggi, dopo la bomba nucleare, la guerra è cambiata ed è soltanto orrendamente criminale, perché distrugge la vita e non rende più abitabile il pianeta. Non c’è davvero nulla di grande in questa infamia assurda, in questo progetto di autodistruzione totale!

Che pensare poi degli aiuti ufficiali al terzo mondo? Paolo VI ha scritto coraggiosamente nella Populorum progressio che i paesi ricchi offrono ai paesi poveri degli aiuti con una mano e con l’altra tolgono ai paesi poveri molto di più di quanto hanno loro offerto. Oggi, citando queste sue espressioni, pensiamo al ruolo di dominazione svolto dalle grandi compagnie multinazionali e dalle banche internazionali. Le une e le altre, attraverso il ricatto del danaro, obbligano in un certo senso i paesi poveri a far propri progetti faraonici, costosi, inutili, dalla cui realizzazione non può venire alcun reale beneficio.

Così è stato nel Brasile, per esempio. Quando si esamina la carta del paese, dal sud al nord, vediamo più di una trentina di progetti grandi, faraonici, che il popolo non ha mai voluto e su cui non è stato mai consultato. Un giorno, però, si viene a conoscere il loro costo, cioè il debito colossale che è stato contratto e, ancor peggio, le condizioni di pagamento: condizioni di usura, di vero e proprio aggiotaggio, talora con l’incomprensibile avallo del Fondo Monetario Internazionale. Aggiungete poi al quadro un’altra fosca pennellata: la tentazione di mancare di onestà fino ai più alti livelli di governo nell’uso del denaro pubblico. Non è affatto questo un triste privilegio dei paesi poveri, spesso dominati da dittature; anche nelle democrazie, anche nei paesi ricchi non mancano quelli che accumulano ricchezze col denaro pubblico, cioè a spese di tutti e in particolare della gente che, avendo ,di meno, ha bisogno di più servizi e opportunità.

La situazione è difficile, i meccanismi della sopraffazione economica e ideologica hanno una loro perversa efficacia e, tuttavia, è proibito disperare soprattutto per i cristiani. E’ impossibile immaginare che in questo mondo, creato dall’amore del Padre, redento dall’amore del Figlio, animato dall’amore dello Spirito Santo, le ultime parole siano odio, violenza, condizioni subumane, abolizione della vita. Nelle nostre comunità di base abbiamo imparato a non lavorare soltanto per il popolo, ma con il popolo. Sembra una differenza piccola, ma è assai grande. Quando si lavora “per” il popolo, noi siamo i potenti, quelli che hanno le idee, i progetti, il prestigio e il denaro e gli altri sono un mero oggetto, la materia del nostro intervento. Si aiuta, invece, questo povero popolo quando si lavora “con” il popolo, si ha la sua confidenza e ci si pone in ascolto dei suoi reali bisogni. Si può e si deve incoraggiare la promozione umana del popolo che vive in condizioni sottoumane, ma il soggetto dello sviluppo perfettivo è il popolo stesso: sono quelli che stanno in condizioni sottoumane che devono crescere e imparare a uscirne.

Noi cerchiamo di insegnare che i diritti umani proclamati dalle Nazioni Unite sono inscritti dal Creatore nelle tavole di carne del nostro cuore, sono la legge propria di ogni uomo, il fondamento della sua dignità e del suo cammino nella storia.

Noi crediamo fermamente che i diritti della persona siano ben sintetizzati dalle quattro libertà fondamentali proclamate da Roosevelt nel suo messaggio al Congresso degli USA il 6 gennaio 1941: libertà di parola, libertà per ognuno di pregare Dio come vuole, libertà dal bisogno, libertà dalla paura. Ma quei principi così eloquentemente sostenuti sulla carta, proprio perché in sé veri si trasformano nel più formidabile atto di accusa della maggioranza assoluta dell’umanità nei confronti di tutti coloro che li violano in ogni parte del mondo.

Anche per il cristiano è facile dire: “Tu sei figlio di Dio, noi siamo tutti fratelli e sorelle”, ma è più difficile vivere questa reale fraternità, giorno per giorno. Questa è l’ora in cui finalmente i poveri devono unirsi tra loro, non per calpestare i diritti degli altri, ma per difendere i loro diritti, senza odio, senza violenza, ma anche senza paura e senza vigliaccheria. I poveri saranno invincibili, se uniti. Il dovere morale di ogni uomo onesto è affiancare, sostenere i popoli poveri in questa lotta senza violenza, ma anche senza paura e senza vigliaccheria, per cambiare le strutture che schiacciano il terzo mondo. Noi possiamo contare, all’interno di tutti i paesi ricchi, su tutte le persone di buona volontà e, in particolare, sui giovani.

Con i giovani è già in mezzo a noi il terzo millennio dell’era cristiana, è già in mezzo a noi il futuro e voi, giovani, farete di tutto per rendere questo mondo più umano e fraterno, più vicino all’intenzione del Creatore. Confido nei giovani; perché essi hanno disgusto delle mezze-verità, delle scelte compromissorie, degli equivoci. I giovani scavalcano le barriere dei pregiudizi e degli interessi consolidati, perché hanno coraggio e generosità: sono assai più disponibili alla verità che in qualsiasi altra età della vita. E questa è un’esperienza che si rinnova di continuo, tutte le volte che incontro i giovani, negli Stati Uniti come in Canada, in Germania come in Italia. Lo spettacolo che voi, giovani d’Italia, offrite anche questa sera, col vostro accorrere qui, a quest’incontro, attesta che non siete schiavi del danaro. Io me ne andrò da Brescia con negli occhi e nel cuore la visione di questa sala gremita fino all’inverosimile di giovani. Io potrò con tutta verità dire alla mia gente che soffre: coraggio, voi avete per amici e alleati, per collaboratori un esercito di giovani generosi, di volontari pronti a lottare al vostro fianco, a premere sui loro governi, a operare scelte di vita coerenti a una reale prassi di fraternità. Proprio perché più critici nei confronti del presente, della società contemporanea, voi giovani siete i naturali annunciatori di una nuova idea di civiltà, i più disponibili a preparare il futuro, liberi di impiegare la vostra creatività e il vostro slancio per delineare i tratti di una società differente dall’attuale.

Nella misura in cui la pace è costruita dagli uomini, credo che essa sarà molto di più opera dei giovani che degli adulti. Beati coloro che sognano ciò che è giusto, perché corrono il dolce rischio di vedere i loro sogni esauditi. Beati voi giovani che avete scoperto nell’imperativo della fraternità mondiale, in questo compito immenso e difficile, una causa a cui consacrare la vostra vita! Che Dio mi dia fino all’ultimo la felicità che ho sempre sperimentato, di amare i giovani e di sentire l’immenso potenziale della giovinezza, di coloro che più e meglio di altri costituiscono la vera avanguardia della più bella internazionale, quella della fede, della speranza e della carità.

I poveri, dunque, devono unirsi fra loro; ma voi dovete unirvi ai poveri. Quando fui nominato arcivescovo a Recife, capitale del Nordest brasiliano, ben presto capii che accanto al lavoro nella mia immensa diocesi era necessario un lavoro sincronizzato sugli stessi temi, nel Brasile, nell’America latina e anche – non dopo, ma nello stesso momento – nei paesi sviluppati e ricchi. Senza cambiamenti di mentalità e di linee operative nei vostri paesi ricchi, i necessari ed urgenti cambiamenti nei nostri paesi poveri non serviranno a nulla!

Allora ho iniziato i miei viaggi, per far conoscere la realtà del dolore immeritato di tanti milioni di esseri umani a tutte le persone di buona volontà, a cristiani e non cristiani. Quando uno è nato in un’area ricca e vive là, viaggia guidato dalla mano di una agenzia di turismo, di gente esperta nel mostrare ciò che i turisti devono vedere e nel nascondere quello che i turisti non devono vedere. Può sembrare paradossale, ma ben pochi sono tra gli uomini coloro che conoscono in quale situazione si trovano più dei due terzi dell’umanità. Occorre, dunque, aiutare ad aprire gli occhi, perché si svegli la coscienza delle persone di buona volontà e, in primo luogo, dei giovani.

Ciò che costituisce il disonore dell’umanità – la morte per fame, la sofferenza atroce di milioni di nostri simili – deve essere vinto grazie al concorso di tutti gli uomini, perché è responsabilità comune agire, lottare, non tacere. Cristiani di ogni confessione, credenti in Dio di qualsiasi religione, coscienze attente al dovere morale devono trovarsi insieme, uniti per questo grande compito comune. Per i cristiani, poi, l’impegno è assolutamente grave ed ineludibile. Il nuovo millennio si avvicina, il terzo dalla venuta di Cristo, e i cristiani devono chiedersi che cosa abbiano fatto e facciano per portare quel grande nome. Noi ci domandiamo: come mettere a servizio dell’umanità le bellissime verità della nostra religione? Possiamo, con la grazia di Dio, vivere insieme agli altri uomini almeno questa prima verità: tutti abbiamo lo stesso Padre, e dunque siamo tutti fratelli e sorelle. Abbiamo lo stesso Padre tutti, non solamente i cattolici, non solamente i cristiani, ma gli uomini di tutte le razze, di tutti colori, di tutte le religioni. Tutti noi abbiamo lo stesso Padre e c’è una cosa ancora più seria, più impegnativa. Ho vissuto diciott’anni a Rio de Janeiro, quando Rio era la capitale del Brasile ed arrivavano tanti dalle zone più povere, soprattutto dal Nordest. Arrivavano con la speranza di un lavoro ben pagato, di una scuola per i loro bambini, di un ospedale e di un’assistenza per chi aveva problemi di salute. Ma l’impatto con la metropoli era terribile, angoscioso il disinganno. Venne da me un giovane, ormai vicino alla disperazione; allora scrissi per lui una lettera ad un amico, padrone di un grande magazzino: “Caro amico, fa’ il possibile di procurare un posto di lavoro a Severino, che è latore di questo biglietto, ora alla tua presenza. Egli è mio fratello, mio fratello di sangue”. L’amico prese il telefono e mi disse: “Severino è qui e gli è stato già dato il lavoro. Ma com’è possibile che un fratello di Don Helder si fosse ridotto in uno stato di così grave miseria?”. Io gli ricordai allora che è mio fratello di sangue ogni uomo per cui Cristo ha versato il suo stesso sangue. Noi siamo tutti fratelli nel sangue redentore di Cristo.

Mancano solo sedici anni all’anno duemila dalla nascita di Cristo: se almeno noi cristiani potessimo vivere con tutte le creature umane come fratelli e sorelle di sangue perché il Cristo è morto per tutti, cristiani e non cristiani, credenti e non credenti.

Brescia, cara Brescia, con l’aiuto di Dio cerca di vivere la missione di fraternità universale e di predilezione per i più poveri del tuo grande figlio Paolo VI.

NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 29.10.1984 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.