L’operosità infaticabile e l’inflessibile dirittura di Mario Bendiscioli

Giornale di Brescia, 21 gennaio 2004

Nel 2003 ricorreva il centenario della nascita di un grande bresciano e il Centro di Documentazione, che ha sede nella nostra città, ha pubblicato in suo onore un libro a più voci, Mario Bendiscioli storico (pp. 168). In esso si susseguono testimonianze di prima mano sull’uomo e sul cristiano (viva ed intensa quella di Massimo Marcocchi), ricordi di autorevoli amici (Paolo Prodi, Paolo De Benedetti, Giulio Colombi, il lussemburghese Victor Conzemius) e si evidenziano le linee direttrici e i risultati dei suoi contributi attraverso le relazioni di Boris Ulianich e di Elisa Signori. Chi voglia avvicinare una figura così schiva ed eccezionale come quella di Bendiscioli – cercando di afferrarne la personalità e il metodo, ma anche i risultati del suo lungo lavoro – dovrà prendere in mano questo libro. Verrà, tra le altre cose, a conoscere costellazioni di amicizie, iniziative singolari, idee e orientamenti illuminanti per la storia del nostro Paese e della cultura cattolica che fiorì in Europa nel periodo di preparazione al grande evento del Concilio Vaticano II.
Una lettera che Mario Bendiscioli mi inviò da Passirano, in data 18 ottobre 1991, si concludeva con queste parole: «Quando dovrai scrivere il mio necrologio ricordati, come hai felicemente scritto ne “L’Osservatore Romano” del 17 aprile 1985, che ho sprovincializzato la cultura cattolica italiana nel primo dopoguerra». Bendiscioli ci lasciò il 7 luglio 1998, a novantacinque anni, ma la sua attività e i suoi interventi, puntuali e pungenti, coprono esattamente un arco di tempo di ben settant’anni: il suo primo articolo, in cui dava voce al dramma delle minoranze etniche negli Stati che si erano formati dopo il crollo dell’impero asburgico, apparve infatti su “Il Cittadino” di Brescia il 10 settembre 1924 e l’ultimo suo scritto, Un percorso di esperienze e di studio nella cristianità del ‘900, è un vivacissimo libro-intervista, pubblicato dalla Morcelliana nel giugno 1994. Anche chi abbia letto soltanto l’uno o l’altro scritto di Bendiscioli – sono quasi quattrocento i suoi contributi – sa che non è facile legare un uomo come lui ad un unico filone storiografico. Egli unì ai molteplici, vasti interessi della ricerca storica un’attiva presenza in imprese culturali di grande respiro (si pensi al ruolo svolto alla Morcelliana e alla rivista “Humanitas”) ed un appassionato impegno nella scuola.

Nel volume curato da Renato Papetti si sottolinea giustamente la profonda umanità di Bendiscioli, la schietta asciuttezza del tratto, l’attenzione ai fermenti dell’attualità, l’orizzonte europeo ed ecumenico dei suoi interessi, la fedeltà ai grandi amici. Tra costoro ci furono il pensatore tedesco Romano Guardini, il futuro papa Paolo VI e i padri filippini di Brescia Giulio Bevilacqua, Paolo Caresana e Carlo Manziana. “Fu una coscienza limpida e senza frode, aliena dai compromessi”, ha scritto di lui Massimo Marcocchi. Non fu compiacente con nessuno, né reticente verso errori e, peggio, verso complicità poco onorevoli di uomini e istituzioni della propria parte; in lui la sincera religiosità si tradusse in un intransigente bisogno di servire la verità, di fronte a chiunque, attraverso l’onestà del metodo e il coraggio civile.
Un uomo come lui poteva, perciò, non aver paura di farsi storico del Novecento, così come contemporaneisti furono Gaetano Salvemini o Federico Chabod. Bene ha fatto Elisa Signori a portare alla nostra conoscenza un importante saggio che Bendiscioli pubblicò nel 1954, nell’Annuario dell’Istituto universitario Magistero di Salerno, dove allora insegnava, su Possibilità e limiti di una storia critica degli avvenimenti contemporanei. In esso lo storico bresciano ritiene di non dover porre soglie temporali o sbarramenti logici all’indagine degli storici. L’obiezione, divenuta ormai un luogo comune, che si muove solo allo storico contemporaneista – una parziale accessibilità ai documenti – non regge più: oggi, infatti, il vero problema non sta nella penuria delle fonti, ma semmai nel loro eccesso. Bendiscioli replica rilevando come “poche età hanno messo a disposizione dello storico tanta quantità di fonti come l’epoca nostra per quanto riguarda le sue vicende”. In realtà le garanzie della praticabilità di una storia critica dei fatti contemporanei sono le stesse che si richiedono per lo studio di ogni altra epoca: accertamento delle genuinità e attendibilità delle fonti; attenzione al rapporto fra le singole testimonianze e il complesso dei documenti; estrema cautela per non cedere allo spirito di parte, distinguendo sempre il momento della verifica dei dati di fatto e quello del vaglio delle interpretazioni.
A legittimare l’impegno a conoscere un passato che lambisce il presente Bendiscioli aggiunge anche un’esigenza di carattere etico, che egli definisce “compito sociale della scienza storica”, cioè la capacità di rispondere all’appello dei giovani che chiedono agli storici notizie e giudizi sul recente passato, un’apertura alle ansie dell’oggi, un aiuto alla comprensione per i problemi del presente. Ogni giudizio storico deve essere severamente fondato e giustificato, ma la prudenza metodologica non deve cancellare nello storico il dovere del coraggio civile. Bendiscioli, infatti, sottolinea con forza che “la rinuncia all’interpretazione implica la rinuncia pure a orientare i giovani nella realtà, che è parte essenziale della funzione educativa”.
Molteplici sono gli apporti di Bendiscioli alla storia del cristianesimo e alla storia moderna, tuttavia i frutti più saporosi della sua storiografia politica e religiosa sono, a mio avviso, gli scritti che riguardano il dramma di coscienza del suo secolo, il Novecento, perché in essi la partecipazione diretta, appassionata ma non passionale, del cittadino e del cristiano s’intreccia di continuo alla testarda acribìa dello storico, che non cessa mai di cercare i documenti che vengono alla luce e di misurarsi con ogni interpretazione che di essi venga data. Di Bendiscioli contemporaneista bisognerebbe leggere assolutamente le tre opere principali: Antifascismo e resistenza (II ed. aumentata nel 1974), la seconda edizione di Germania religiosa nel Terzo Reich (Morcelliana, Brescia 1977) e l’ultimo splendido libro Pensiero e vita religiosa nella Germania del Novecento, pubblicato dalla Morcelliana nel 2001.
Cattolico non conformista – egli si diceva «cattolico anticlericale» – predilesse in ogni campo della sua immagine non i contestatori rumorosi, né gli uomini di potere e di apparato, che anzi gli ripugnavano profondamente, ma gli «innovatori ortodossi », quelli che lavorano sodo, con tenace pazienza, ad aprire varchi nuovi ai valori in cui credono e al rinnovamento delle istituzioni chiamate a veicolarli nel cammino della storia. Bendiscioli, fedele come pochi alle amicizie, i suoi veri maestri e amici se li scelse sempre tra persone di quel tipo, che non mollano mai ma che costruiscono giorno dopo giorno, in silentio et in spe, una chiesa più fedele a Cristo e una società civile più libera e giusta. Con la sua opera e la sua vita Bendiscioli ci ha dato una duplice testimonianza: la prima è che si può essere cristiani in situazioni di tragico disorientamento e di equivoci; la seconda, che la sensibilità religiosa e politica non affossa, ma affina il lavoro dello storico, se lo si vive in primo luogo come impegno di coscienza.

L’articolo costituisce la prima parte di un intervento più ampio, la cui seconda parte è stata pubblicata dal Giornale di Brescia il 22 gennaio 2004 sotto il titolo: “L’ecumenismo contro la dittatura”.