Meditazione sulla speranza

I

Sono nato nel 1942 nel cuore di quella tragica guerra che ha svenato l’Europa e ha infranto di colpo tanti sogni e smascherato tante illusioni. Quando nacqui mia madre soffriva di una forma dolorosa di artrite progressiva che le impediva alcuni lavori e minacciava di renderla completamente invalida. Mi sono chiesto che cosa, in questa situazione generale e personale, possa avere giustificato la mia nascita; che speranze potessero nutrire i miei genitori sul futuro, sul loro futuro e sul mio.
Naturalmente non m’interessa la precisa ricostruzione psicologica dei sentimenti o delle paure che possono avere accompagnato i mesi della gravidanza di mia madre. Una tale ricostruzione storica mi è impossibile per insufficienza di dati; non posso interrogare i miei genitori per conoscere i fatti; e anche qualora i miei genitori fossero ancora vivi, la loro stessa memoria non potrebbe offrirmi risposte esatte; il tempo altera inevitabilmente i ricordi o, forse meglio, 1i reinterpreta al contatto con le nuove esperienze. La mia domanda si colloca su un piano diverso da quello della ricostruzione precisa del passato: voglio comprendere che cosa significa e comporta il fatto che io sono nato e che sono nato in certe condizioni precise; che cosa questo m’insegna sulla mia vita, sul suo senso e sul modo corretto di viverla. Mi sembra che l’interrogativo non sia evitabile. Non ho scelto io di nascere, ma tocca a me vivere. In teoria potrei anche dire: scelgo di vivere come mi pare e piace; ma sarebbe un rifiuto della realtà e quindi una forma di non-autenticità. Ogni risposta corretta che posso dare al problema della mia vita posso intenderla solo come una risposta (o una reazione) a una chiamata, a un dono, a un invito, a un evento che l’ha generata posso usare molte parole diverse ma il senso è chiaro: e cioè che la mia vita non è un primum assoluto che può procedere senza riferimenti dandosi così regole arbitrarie, ma è radicata su qualcosa che la precede e che, inevitabilmente, ne determina la forma. Mi ritrovo benissimo nelle parole di Hannah Arendt quando scrive: “Esiste una sorta di gratitudine di fondo per tutto ciò che è così come è; perciò che è stato dato e non è, né potrebbe essere, fatto; per le cose che sono physei e non nomo.” È la fisionomia di questo qualcosa che precede che vorrei anzitutto chiarire a me stesso per riuscire a comprendere meglio la via della mia autenticità, della mia vera ‘umanizzazione’.
Ogni atto di generazione porta in sé, nella sua struttura essenziale, un atto di speranza, nella sua forma più bella! Secondo Gabriel Marcel la formula della speranza è: ‘io spero in te per noi’; e cioè: io decido liberamente e responsabilmente di legare il mio futuro a te perché spero (ho ferma fiducia) che tu ed io, insieme, potremo aprire davanti a noi un futuro nostro che sarà significativo, positivo, degno di essere vissuto!! È questo che i genitori dicono quando mettono al mondo un figlio! Anche qui intendiamoci bene: non sto dicendo che i genitori siano sempre consapevoli di questo significato del loro gesto procreativo (la vita è più grande della nostra consapevolezza e non sempre sappiamo pienamente quello che facciamo); e nemmeno che, con la loro libertà, siano sempre all’altezza di quello che fanno quando mettono al mondo un figlio (disattenzione, stupidità, irresponsabilità, cattiveria sono purtroppo sempre possibili nella nostra concreta esperienza)!! È naturalmente possibile che un atto concreto di procreazione sia non pienamente umano, casuale, addirittura bestiale o criminale; tutto questo è rilevante per la valutazione morale del comportamento e si pone a questo livello. Quello che sto dicendo è però un’altra cosa: e cioè che la procreazione, in quanto gesto umano e quindi per sé significativo, contiene necessariamente un’apertura radicale alla speranza.
Negare questo significherebbe affermare che il gesto di mettere al mondo un figlio (e cioè uno dei gesti certamente più determinati nella vita di una persona, più ricchi di conseguenze) è puramente casuale e non ha bisogno di spiegazioni o interpretazioni. Questa è un’alternativa che chiuderebbe il discorso prima di iniziarlo, ma che non mi sento di accettare; vorrebbe dire, infatti, che non c’è nessun senso in nessun gesto umano e che ogni riflessione, ogni tentativo di acquistare consapevolezza può solo essere strumentale, una strategia per assicurarsi, tranquilli in coscienza, qualche soddisfazione o giustificazione!. Ma questo è chiaramente falso perché io — e molti altri, s’intende — pongo gesti etici nei quali ciò che ricerco (ricerchiamo) è il giusto e non il gradevole; e non ho nessun desiderio di diventate una persona pre-morale, che non si pone problemi di bene o di male, di buono o cattivo quando deve scegliere.
Dunque nel fatto di essere stato messo al mondo sono invitato a vedere un atto di speranza nei miei confronti. Dandomi la vita, i miei genitori implicitamente mi hanno detto: “Speriamo in te per noi, per il futuro della nostra famiglia” Ma qui emerge qualcosa di sorprendente, perché i miei genitori non sapevano nulla di me, di quello che sarei stato, di quale significato la mia vita avrebbe finito per assumere per loro: sarei diventato ‘il bastone della loro vecchiaia’, come si ripeteva ai miei tempi? O sarei andato per la mia strada, dimenticandoli e abbandonandoli a loro stessi? O, ancora, sarei stato la loro dannazione, un peso grave di fatica e di vergogna da sopportare? Non lo sapevano; nessuno lo può sapere quando mette al mondo un figlio; e nemmeno la diagnosi preimpianto può togliere questa indeterminatezza., Come porre, allora, responsabilmente, un atto così impegnativo di speranza? La mia nascita ha rivoluzionato la vita dei miei genitori: hanno dovuto mettere in atto delle strategie inedite di risposta ai miei bisogni, strategie che hanno condizionato profondamente il loro vissuto; e tutto questo senza essere sicuri che avrebbero avuto un ritorno adeguato. Fino a tre anni, mi hanno raccontato, sono cresciuto a latte e dopo il periodo dell’allattamento materno, hanno dovuto fare ricorso al mercato agricolo; potete immaginare cosa questo significasse in tempo di guerra con tessera annonaria e assegnazioni di cibo scarsissime. Ma, a parte questo problema specifico, il prezzo che i genitori pagano è evidente a tuffi: un notevole prezzo economico, ma soprattutto il prezzo di molteplici rinunce; cosa può significare un criterio di vita come il famoso (e per certi aspetti prezioso) carpe diem per chi deve tirar su dei figli? Quanti appuntamenti culturali dovranno cancellare dall’agenda? Quanti progetti di carriera ridimensionare? Che cosa li spinge a pagare questo prezzo se non un atto forte di speranza? E un atto di speranza che non poggia sul dato verificabile delle qualità del bambino stesso, ma su qualcosa di ulteriore che – anche prima di ogni verifica – fa vedere il bambino – ogni bambino – come una promessa, una ricchezza, un’opportunità immensa.
Si deve dire allora che alla radice di tutto questo c’è un radicale atto di fiducia e di speranza nella vita: la fiducia nella vita fonda e rende possibile la fiducia in quel bambino concreto che nasce come un ignoto; la speranza nella vita rende possibile la speranza nel figlio.. I miei genitori hanno detto di si alla mia nascita perché hanno detto di sì alla vita stessa riconoscendola come un valore positivo e prezioso. Potevano forse essere spinti a pensate così da diverse considerazioni: i figli sono anche una risorsa dal punto di vista economico; l’ambiente sociale spingeva un tempo nella direzione dei figli; maternità e paternità sono arricchimenti della propria esperienza di umanità, e così via. Ma al di là di questa motivazioni immediate che possono cambiare da un caso all’altro credo si possa dire: questo atto di speranza (nella vita in genere e nel figlio concreto in particolare) è fondato sul fatto stesso di vivere; chiunque accetta di vivere esprime in questo modo una fiducia radicale nella vita stesso. Come dicevo, non ho deciso io di vivere; mi sono trovato a vivere ricevendo l’esistenza da altri. Ma, naturalmente, dipende da me accettare la vita o rifiutarla; riconoscerla un dono (non intendo con questo termine necessariamente qualcosa di bello, ma certo qualcosa di degno) o respingerla come una condanna. Se vivo, se continuo a vivere, implicitamente affermo che la vita è cosa degna; che la fatica di vivere è positiva.. Da qui la possibilità di pone un atto di speranza nei confronti del figlio che nasce. Non so ancora nulla di lui, di quello che diventerà; ma so che la vita è un valore; lo so perché io stesso vivo e, nonostante le fatiche, le delusioni, le sofferenze, sono contento di esistere e continuo a voler esistere.
Dunque all’origine della mia esistenza sta un atto di speranza che è stato posto dai miei genitori; un atto di speranza in me, come se i miei genitori avessero detto: “Luciano, noi speriamo in te e siamo convinti che la tua esistenza arricchirà noi tutti; che la nostra esistenza con te sarà più degna di essere vissuta e che giustificherà le sofferenze e le fatiche presenti”. E un atto di speranza nella vita, come se avessero detto: “La nostra vita è faticosa e comporta dei rischi; ma ciononostante, la riconosciamo degna di essere vissuta; siamo perciò convinti che, come abbiamo ricevuto gratuitamente la vita, sia giusto che altrettanto gratuitamente la doniamo; riteniamo infatti che la vita che doniamo sia un vero dono, cioè la trasmissione di qualcosa di buono”.
Su questa premessa, credo di poter dire che sono fedele alla vita che ho ricevuto proprio quando faccio mia, consapevolmente, la speranza. In caso contrario smentirei i miei genitori e la loro speranza nella vita; ma soprattutto smentirei il fatto che io vivo a motivo della loro speranza e, poiché vivo, de facto accetto la vita che essi mi hanno donato,, Insomma, dire di sì alla mia vita implica dire di sì alla speranza; reciprocamente rifiutare la speranza implica il rifiuto di quella vita che ho ricevuto.

II

Speranza, dunque, ma per che cosa? Torno alla formula di Marcel: “Io spero in te per noi”. Io spero nella vita per quello che la vita mi donerà. Ma che cosa, in concreto, mi aspetto dalla vita? Quali caratteristiche possiede il futuro che attendo? Qui, forse, può sembrare che entriamo in un campo così ampio da impedire ogni affermazione concreta precisa Perché le speranze degli uomini sono infinite e così varie da non poter essere ricondotte a unità se non in modo del tutto astratto e generico. C’è chi spera nel week-end e fatica per tutta la settimana attendendo (sperando) di potersi divertire il sabato e la domenica; c’è chi spera in una carriera folgorante e per questo si sottopone a rinunce improbe, costringendo amici e familiari ad accontentarsi di qualche frammento della sua attenzione; c’è chi spera in una persona concreta e non riesce a immaginare un futuro senza di quella e c’è chi è disposto a sacrificare la sua esistenza sperando in una vita oltre la morte. La varietà degli oggetti della speranza sembra tale da non permettere una intuizione complessiva. Eppure, forse, qualcosa si può dire: l’uomo è un essere che nasce non fatto ma da fare; e l’uomo si fa attraverso tutte le esperienze della sua vita: le gioie e i dolori, la conoscenza e il lavoro, le relazioni umane, l’amicizia, l’amore Che cosa può sperare l’uomo se non che la sua vita vada verso la pienezza? Che diventi ‘autentica’ e cioè un’esistenza nella quale si manifesti al meglio l’umanità dell’uomo: la nobiltà del suo impegno etico per il bene, la fedeltà del suo impegno verso gli amici, la grandezza della sua capacità di sacrificio, la sua realizzazione nell’atto di amore? Questa definizione amplissima del contenuto della speranza comprende in sé tutte le possibili determinazioni e serve anche da loro criterio di verifica. Posso dire ad esempio che spero di diventare scrittore. Questo obiettivo: ‘diventare scrittore è un oggetto autentico di speranza se è inteso e vissuto come modalità di esprimere se stessi e di entrare in comunicazione umanamente ricca con gli altri (penso, ad esempio, al desiderio di Etty Hillesum di arrivare, un giorno, a scrivere un libro significativo, cui esprimere la sua ricchezza di vita – desiderio che si è compiuto pienamente nelle pagine del suo diario e delle sue lettere, ma, paradossalmente, senza che lei se ne rendesse conto!); lo stesso desiderio sarebbe invece oggetto non autentico di speranza se fosse inteso unicamente come modo per conquistare un effimero traguardo di successo o di cassetta. Nel primo caso, infatti, il risultato è una crescita in umanità; nel secondo il risultato è invece una caduta nella non autenticità perché l’uomo, in qualche modo, svende la sua umanità per ottenere quel piatto di lenticchie che è l’applauso di una platea o un conto in banca.
La formula della speranza diventa dunque: “Io spero nella vita per giungere a una umanità autentica, a una pienezza di umanità!” E cioè: mi pongo di fronte alla vita con un atteggiamento di fondo positivo, nella convinzione che la vita non mi tradirà (e cioè, non mi bloccherà in un’esistenza non umana, impedendomi di crescere verso il compimento di me stesso), ma mi offrirà le possibilità concrete di portare a perfezione la mia umanità!” Ho detto: spero nella vita! Vorrei spiegarmi meglio! Mentre scrivevo questa frase mi sono chiesto se dovevo scrivere ‘vita’ con la vu maiuscola o minuscola! Perché certo la vita in cui spero non è semplicemente la vita biologica, quella che mi viene dall’evoluzione della specie: su questa vita debbo necessariamente contare perché non sono un angelo e non desidero diventarlo, ma mi risulta impossibile sperare in lei! Non mi basta, infatti, un’esistenza biologicamente perfetta (sana, efficiente); e viceversa se la mia esistenza biologica è deficiente (non del tutto sana; non del tutto efficiente) non per questo la mia speranza viene messa alle corde. Anzi, paradossalmente, il limite biologico può esaltare la profondità della speranza che mi nutre. Forse gli esempi più significativi della speranza, dal punto di vista umano, li troviamo proprio in persone che hanno dovuto lottare contro handicap o contro ostacoli gravi; persone che hanno vissuto in situazioni di condizionamento esterno grave. Ho ricordato sopra Etty Hillesum, ebrea molta ad Auschwitz. Potrei ricordare Viktor Frankl; nessuno si aspetterebbe di trovare consolazione in un libro come Uno psicologo nel lager; e invece è proprio così.. Non sto idealizzando la difficoltà, s’intende; dico solo che un handicap fisico o di situazione non è un impedimento assoluto e che l’uomo è in grado di trasformarlo in opportunità per la realizzazione della sua umanità.
Torniamo alla formula di Marcel: “Io credo in te per noi.” Sono decisivi, in questa formula, i pronomi personali: io-tu. Non si tratta, infatti, di sperare in qualche fortuito evento futuro dal quale dipenderebbe la mia felicità (“spero in un colpo di fortuna che sistemi definitivamente la mia vita); o di sperare in un oggetto concreto particolare (spero la ricchezza, la salute, la carriera); si tratta, invece, di portare a compimento la mia umanità nella sua capacità di responsabilità e di amore e questo richiede che di fonte a me stia ‘tu’: un soggetto personale che mi risponde con la sua libertà e che collabora con me per il compimento della nostra vita. In questo modo la speranza nella vita si specifica nella speranza che nasce da ogni rapporto umano significativo: la vita mi ha portato a contatto con te.. Considero la tua presenza non come un impedimento alla mia crescita, tanto meno come una minaccia che può togliermi il mio ‘spazio vitale’; la vedo piuttosto come una opportunità che mi è data per portare a compimento quello che sono, per dare vigore al dinamismo che mi costruisce come persona.
E tuttavia debbo riconoscere che la autenticità è una conquista incerta e che, con grande probabilità, non raggiungerò mai il compimento pieno della mia vita.. Sono arrivato a sessantacinque anni; la maggior parte della mia vita è passata; alcune capacità che possedevo sono venute meno: la memoria è diventata legnosa, proprio adesso che ne riconosco come non mai l’importanza. So che non riuscirò più a fare molto. Debbo allora perdere la speranza? È vero quello che dice Leopardi e cioè che la speranza è propria della giovinezza che ha davanti a sé tutto il futuro mentre perde poco alla volta il suo smalto, quando comincia a prevalere la memoria? È chiaro: se la speranza fosse legata del tutto e solo alle mie possibilità, essa decadrebbe insieme col venir meno di queste.. Quando ho davanti tutta la vita e quando tutte le possibilità sono intatte, allora la speranza sarebbe massima; man mano che il tempo passa, però, lo spettro delle possibilità diminuisce e quindi dovrebbe diminuire la speranza.. Se così fosse, il giudizio non potrebbe che essere negativo; simile sempre a quello di Leopardi che rimprovera la natura di non offrire mai all’uomo tuffo quello che gli promette nella sua giovinezza.. Il problema diventa più pungente proprio in questi anni.. Il progresso economico e medico ci ha allungato la vita e questo rende più probabile l’insorgere di malattie degenerative come, ad esempio, 1’Alzheimer. Ora, l’Alzheimer non è solo una brutta malattia, ma è un simbolo, è la decostruzione di una vita intera: vengono meno i legami che abbiamo costruito con tanta cura, vengono meno le conoscenze che ci hanno affascinato, viene meno la memoria della quale si nutre la nostra identità personale. È anche la fine della speranza? E più in generale: può la speranza avere una fine? Qui mi perdo e faccio fatica ad andare avanti.
Torno allora all’inizio, alla domanda da cui sono partito. Perché i miei genitori hanno deciso di darmi la vita anche se le circostanze della guerra non permettevano di intravedere nulla di buono sull’orizzonte del futuro? Ho risposto dicendo che lo hanno fatto perché, implicitamente, nutrivano una profonda speranza nella vita.. Per quanto riguarda mia madre posso anche dire: perché nutriva una profonda speranza in Dio. È stata probabilmente questa speranza che l’ha guidata a non cercare di abortire anche se le sue condizioni fisiche erano problematiche; per lei la fiducia nella vita e la fiducia in Dio si sostenevano e si giustificavano a vicenda. Sono portato allora a farmi un’altra domanda: che cosa aggiunge la fede alla speranza? E più in generale: la fede in Dio ha qualcosa da dire sulla speranza? Ho descritto sopra alcuni passaggi che definiscono il dinamismo implicito nell’atto di speranza: la formula ‘io spero in te’ è diventata ‘io spero nella vita’; poi la vita è stata scritta con la V maiuscola; che senso ha fare l’ultimo passaggio e sostituire il termine ‘vita’ col termine ‘Dio’? Naturalmente non è il cambiamento del termine in quanto tale che conta, ma il nuovo punto di appoggio al quale si fa riferimento con questo termine. ‘Dio’ significa soggetto libero e consapevole dalla cui libertà viene tutto quello che esiste, che tiene nelle sue mani la matassa intricata della storia e che, come dice Giobbe, “ultimo si ergerà sulla polvere” (Gb 19,25). Ancora: dicendo ‘Dio’ intendo il Padre del Signore Nostro Gesù Cristo, quel Dio di cui si legge in Giovanni che “ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito perché chiunque crede in lui non muoia ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). Dev’essere tanto rilevante questo Dio nel fondare la speranza che Paolo, scrivendo agli Efesini, cristiani provenenti dal paganesimo può dire: “Ricordatevi che un tempo voi eravate… senza speranza e senza Dio in questo mondo” (Ef 2,11,l2).
Dunque: che cosa aggiunge la fede all’edificio della speranza che ho decritto sopra? Anzitutto la solidità del fondamento. Ho costruito tutto sull’atto di speranza implicito nella decisione dei miei genitori di darmi la vita. Naturalmente quello che ho detto per me, valeva anche per i miei genitori, i miei nonni, i bisnonni e così via, da una generazione all’altra. Il legame tra le generazioni, la trasmissione della speranza da una generazione all’altra sono salde. Ma l’edificio nel suo complesso lo è nello stesso modo? O debbo dire che l’edificio è compatto ma che le sue fondamenta non si vedono? Che tutto potrebbe vagare nell’aria come una bolla di sapone che potrebbe scoppiare in ogni istante? La riconosce in Gesù di Nazaret, cioè in un uomo concreto che sta dentro le coordinate della storia, la rivelazione dell’amore di Dio. In quest’uomo l’amore di Dio si è fatto visibile e ha preso forma ‘mondana, umana’. San Paolo può allora scrivere che “la speranza non delude perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rom 5,5). Ci viene svelato, infatti, che la struttura del mondo stesso è costruita dall’amore di Dio e che questo stesso amore è posto dentro di noi, come sorgente di pensieri, desideri, decisioni. Tutto questo rende la speranza assoluta e cioè non dipendente da condizioni particolari, ma iscritta nell’esistenza stessa del mondo.
In questo modo, forse, possiamo assumere anche la dimensione di incompletezza che accompagna ogni realizzazione personale concreta. Il problema è questo: come posso continuare a sperare quando so, e mi accorgo sempre meglio, che la realizzazione di umanità che riuscirò a conseguire rimarrà incompleta e incerta? Il riferimento a Dio fa impostare in modo nuovo questo problema. Perché se la mia realizzazione personale fosse la pura conquista di un patrimonio personale, riconoscere che questo patrimonio è incompleto comporterebbe di riconoscere la mia stessa vita come incompleta.. In realtà nella umanizzazione della mia esistenza non c’è niente di privato: sono e divento uomo attraverso relazioni significative con gli altri e con Dio. Quello che mi mancherà al termine della mia vita sarà supplito dagli altri e da Dio. Non nel senso che gli altri o Dio mi trasmettano una quantità di umanità che completerà il mio vuoto, come un Deus ex machina che risolve magicamente la difficoltà; ma nel senso che la comunione reale con Dio e con gli altri mi renderà partecipe della bellezza e della ricchezza che gli altri e Dio possiedono. Non mi è chiesto di avere tutto, non mi è chiesto di conquistare tutto, è chiesto di portare un piccolo frammento di autenticità e di aprirmi ai mille altri frammenti e soprattutto alla sorgente eterna dell’amore che è Dio,. Insomma, ogni esistenza umana, anche la più bella, è solo una realizzazione incompleta: la sua pienezza, la sua bellezza dipendono dall’apertura a Dio e agli altri e al mondo. E ogni frammento di autenticità è appunto questa apertura.
C’è un ulteriore elemento cui vorrei solo accennare ed è il confronto, la lotta della speranza con la realtà inevitabile della morte. È la lotta che ha tormentato il saggio Qohelet che, dopo aver fatto l’esperimento della vita e aver provato ogni cosa, conclude la sua riflessione dicendo: “Ho preso in odio la vita, perché mi è sgradito quanto si fa sotto il sole. Ogni cosa infatti è vanità e un inseguire il vento” (Qo 2,17). Qohelet non si rassegna all’effimero; e poiché non vede modo di sfuggirgli, conclude con una valutazione negativa della vita. Conosce, certo, e consiglia di cogliere le gioie belle che la vita può offrire: “Non c’è di meglio per l’uomo che mangiare bere e godersela nelle sue fatiche” scrive; ma il bilancio definitivo rimane in rosso: “Anche questo è vanità e un inseguire il vento” (Qo 2,24.26). La questione diventa seria quando questo limite della morte si trasforma in un criterio di vita e rischia di produrre un’esistenza egocentrica, rivolta tutta alla difesa di sé. Come dicono gli empi del cap. 2 della Sapienza: “Su, godiamoci i beni presenti, facciamo uso delle creature con ardore giovanile perché questo ci spetta, questa è la nostra parte .“Ma questo programma seducente assume presto un’altra fisionomia, ambigua e cinica: “Spadroneggiamo sul giusto povero, nessun riguardo la per canizie ricca d’anni del vecchio. La nostra forza sia regola della giustizia, perché la debolezza risulta inutile” (Sap 2,6.9-10). Qui la mancanza di speranza provoca una mancanza di amore, l’incapacità di aprire il cuore al dono irrevocabile, senza ritorno.
L’annuncio della risurrezione di Gesù spezza questa catena mortificante e mantiene aperta la speranza anche di fronte alla morte, garantisce la libertà dell’uomo. Dice la lettera agli Ebrei: “Poiché i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch’egli [Gesù] ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita.” (Eb 2,14-15). In questo modo viene conservata la libertà di amare, di donare, di sacrificare se stesso anche se questo amore, nel computo mondano, dovesse risultare senza copertura. Il senso dell’annuncio cristiano della risurrezione sta qui: nella proclamazione che il legame con Dio operato dalla fede è un legame autentico, non puramente mentale; e proprio perché è un legame autentico, stabilito da Dio stesso, non può essere distrutto dalla morte; in questo caso, infatti, la morte si mostrerebbe più forte di Dio.. È sulla base di questa fede che san Paolo può intonare uno straordinario inno alla speranza del credente quando scrive: “Che diremo, dunque? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il suo proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni altra cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi.. Chi ci separerà dunque dall’amore di Dio? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, lo spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,31-39).

NOTA: testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 4.3.2008 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.