Metafisica oggi

Bertoletti

Questo incontro è stato generato da una duplice pubblicazione: Metafisica concreta (Adelphi) e la riedizione del libro XII della Metafisica (dove si discute il ruolo di Dio, della Causa finale), curato da Giovanni Reale e con una postfazione del professor Cacciari: La teologia di Aristotele. In questa postfazione viene criticamente discussa l’interpretazione di Reale, andando oltre ad essa. Potremmo iniziare questo incontro da questa riedizione del testo aristotelico, è infatti con i suoi scritti di metafisica che ha inizio la discussione su questo tema. Da dove si origina il problema della metafisica oggi?

Cacciari

Il termine stesso metafisica è sospettato in gran parte della filosofia moderna e contemporanea. Il rimetterlo in corso, al di fuori della storiografia filosofica, può essere una provocazione salutare. Bisogna riflettere su questo termine e sull’uso che ne fanno i grandi classici, Aristotele in primis (ovviamente lui non usa il termine metafisica, ma chi ha dato che quel titolo al testo aristotelica non lo ha dato a caso). A partire dai classici il termine metafisica non assume il significato corrente e attribuirli quel significato è un errore. Il significato corrente diciamolo come lo diceva Nietzsche, il quale si intendeva bene di filosofia classica: la metafisica, una speculazione su mondi che stanno al di là/su altri mondi, mentre noi dobbiamo tornare al senso della terra. La filosofia contemporanea è una filosofia dell’immanenza, in tutte le sue fondamentali correnti. Ma la metafisica indica un qualche trascendente? No, metafisica, così come si deve intendere dal testo aristotelico, indica quell’ambito, quella dimensione delle ousie (essenti, la presenza dell’essente), quelle essenze che presentano dei caratteri dissimili rispetto agli enti che compongono il nostro mondo sublunare. Ci sono due nature: una che ha le caratteristiche del nostro mondo, caratteristiche che riguardano il movimento, un movimento che non può essere matematizzato, enti che sono corruttibili; e quest’altra natura, sempre composta da enti, ma con caratteristiche diverse. Alzando gli occhi al cielo si vedono degli astri, gli antichi gli chiamavano dei visibili, perché hanno un movimento regolare e la loro materia è eterna, incorruttibile. Enti che si muovono regolarmente ed incorruttibili. Si parla però di enti, esattamente come lo siamo noi, con questa radicale differenza. C’è una separatezza tra queste due nature dell’ente, ma anche quest’altra natura è physis, anche l’ente sommo (dio) è ente. Non è interpretabile nel senso che sia l’unico ente a possedere, per essenza, l’essere. Solo la scolastica medievale, che dovendo rendere conto, teologicamente, del suo dio, un dio creatore, reinterpreta il discorso aristotelico in questo senso: vi è un ente sommo che possiede per sé l’essere stesso e tutti gli altri enti, esistono, in quanto partecipano dell’essere dell’ente sommo. Questa è una geniale reinterpretazione che avviene all’interno delle grandi religioni monoteistiche, ma insostenibile su base aristotelica. Reale cerca in tutti i modi di mettere in continuità la teologia aristotelica con quella scolastica, ma si avvede lui stesso alla fine che la cosa non può reggere. Si tratta di visioni del mondo, di grandi trasformazioni. Se devi fare una teologia, non puoi semplicemente stare alla rivelazione, bisogna intendere ciò in cui si crede e l’aristotelismo forniva un’arma formidabile per comprendere ciò in cui si credeva. In Aristotele c’è una teologia naturale che mi permette di comprendere che dio esiste e qual è la sua funzione nel mondo naturale. Sia per la teologia cristiana, sia per quella islamica era fondamentale elaborare una teologia naturale e non solo una teologia rivelata. Altrimenti non ci sarebbe stato nessun rapporto tra l’atto di fede e il sapere, il filosofico. Tutta la nostra civiltà nasce da qui, se ci fosse stata la rottura tra sapere e teologia, se la teologia fosse stata solo appesa alla rivelazione, non ci sarebbe stata questa civiltà, non ci sarebbe stata né scienza, né tecnica. Non è possibile, sulla base aristotelica, affermare che ci sia un ente sommo che per propria essenza ha l’esistere e che tutti gli altri enti, per partecipazione, hanno l’esistere da questo ente che ha in sé l’essere stesso. Secondo Aristotele non vi è alcun ente che abbia in sé la causa.

Per spiegare l’eternità del movimento, del tempo, che caratterizza il nostro mondo e gli astri, l’unico modo è parlare di un motore immobile, una causa del movimento, nulla a che fare con l’idea di creazione. Solo un matto può pensare che questo universo sia stato creato da qualcuno, scrive Aristotele. Movimento eterno=eternità dell’universo. L’ente sommo è causa del movimento. Sarebbe altrettanto impossibile, per Aristotele, spiegare il nostro movimento in base all’ente sommo come causa finale. Reale cerca di sottolineare una certa continuità tra cosmologia aristotelica e il pensiero scolastico, a mio avviso sarei più d’accordo con Enrico Berti e altri, nel dire che non puoi spiegare, sulla base di una causa finale, il nostro movimento, perché la causa prima, la causa immobile è contenta di sé. La causa immobile aristotelica ama sé stessa, sta con sé, soddisfatto pienamente di sé, non ha alcuna relazione con gli altri enti, non è un creatore, è un ente come tutti gli altri. Noi siamo mossi, non ci muoviamo come amanti. Siamo mossi verso la realizzazione della nostra forma. Ogni ente si muove per realizzare la propria forma, secondo la sua natura. Noi amiamo la nostra forma, ma sarebbe follia muoversi per amare la forma dell’atto puro, noi non potremmo mai essere atto puro, in nessun modo. L’atto puro, immobile, è puro atto, energheia. Noi siamo energheia e dyinamis insieme. Qui è Dante che interviene: l’amor che muove il sole e le altre stelle. È un colossale equivoco, in base al quale si svolge tutta la nostra civiltà.

La metafisica non è nulla che sia al di là della physis, della fisica. Semmai sono quei libri che affrontano quell’altra physis composta però da enti, esattamente come noi. La spiegazione della physis costringe a procedere oltre alla descrizione degli enti così come sono. L’analisi, la conoscenza degli enti, costringe ad andare oltre (meta-fisica) questo primo livello, questa prima dimensione. Per spiegare il movimento, la sostanza, devo procedere oltre la semplice osservazione degli enti che ci si presentano. Devo procedere oltre, ma non è un andare in un astratto al di là, non è un’astrazione. Nel mio libro spiego in che senso la metafisica, nella sua stessa aspirazione aristotelica, non solo ha a che fare con l’essente, ma concepisce l’essente secondo una prospettiva di enorme significato. A differenza di quanto spesso viene criticato della metafisica classica, l’essente non è qualcosa che alla fine viene risolto affermandone: ecco questa è la sostanza. La metafisica viene criticata come risolutiva, come totalizzante, una visione che chiude l’essente. Non è vero niente. L’ente sommo non è l’essere, quindi è impossibile parlare di ontoteologia (Heidegger), l’essere rimane comunque al di fuori della determinazione dell’ente, anche l’ente sommo non possiede l’essere come suo proprio. Si smonta l’ontoteologia heideggeriana con cui sono andati tutti a nozze. È insostenibile, non c’è nessun oblio dell’essere.

Un’altra cosa ancora più importante è: questo essente è qualcosa che può essere ridotto alla sua ragione e lì essere determinato tutto? (visione totalizzante) Assolutamente no, Aristotele scrive: L’ente è un’aporia. L’essente è qualcosa davanti al quale ci troviamo costantemente nell’aporia, ci troviamo senza strada su cui proseguire. L’ente pone costantemente nuovi problemi, questa è la visione aperta della metafisica classica. In Platone è esplicita questa posizione, il bene platonico è al di là di ogni determinazione di essenza, non può essere determinato come ente. Questa dimensione non c’è in Aristotele, ma c’è l’idea scientifica che l’essente sia qualcosa da indagare costantemente, non riesci mai a trovare l’essenza dell’essente. Quando determino un essente, lo determino sempre, lo predico sempre, rapportandolo ad altro. Vi è una predicazione logica che pone ogni essente in relazione ad un altro, quando applichiamo questa predicazione non abbiamo detto l’essenza della sostanza, perché manca ogni possibilità di definire questo essente secondo lui stesso, secondo la sua singolarità. Ogni essente si presenta come singolo, ma io la singolarità dell’essente non posso predicarla, perché ogni mia predicazione pone sempre quell’essente in rapporto ad altro da sé. E questo fa sì che l’essente sia un’aporia, qualcosa che conosco sempre di più, sempre meglio, ma che non esaurirò mai. L’essente ha una faccia inaccessibile alla predicazione. Questo è un discorso concreto, perché è così. In ogni riconoscimento dell’essente io mi muovo secondo questa duplice prospettiva: una che me lo fa definire in qualche modo e l’altra che mi fa accettare la sua sostanziale inaccessibilità, ma io la vedo questa inacessibilità, è la sua presenza. Eppure, quella singolarità evidente non è predicabile secondo categorie logiche. Questa è una pagina essenziale della metafisica di Aristotele, in cui dice che l’ente si predica in tanti modi, il primo modo è l’ousia, la quale si predica anch’essa in molti modi e l’ultimo modo in cui si predica l’ousia è secondo l’ousia stessa, secondo la presenza stessa dell’ente, ma questa predicazione, più che una predicazione, è un’indicazione, nel momento in cui predico l’ente, indico anche la sua singolarità. Di fronte a questo ente che si dà sempre da indagare io procedo, di volta in volta, per determinare la ragione della sua singolarità. Ma cosa fanno gli scienziati quando vanno alla ricerca di particelle? Esattamente questo, cercano di volta in volta, mettendoci sempre più energia, di arrivare al singolo e non ci arriveranno mai. La metafisica è la considerazione dell’essente come aporia. L’essente è complesso e giustamente viene studiato a pezzi dalle scienze particolari. Le scienze sono astrazioni dal tutto, le scienze devono astrarre dal tutto per procedere, ed è giusto così. Non ci sarebbe stato il progresso senza l’astrazione delle scienze. La metafisica è invece concretissima, richiama costantemente al fatto che l’essente, nella sua estrema complessità e concretezza evidente, è aporia. Questa è la metafisica concreta, è un interrogare ulteriore, che va oltre le interrogazioni delle scienze. Interrogare quell’essente che noi siamo. La scienza contemporanea dice che il nostro atto di misura interviene nell’oggetto osservato e modifica l’osservato, noi non abbiamo mai a che fare con un puro osservato.

In ogni metafisica concreta deve esserci un’attenzione particolare alla complessità di quell’ente che noi siamo. Il tema della singolarità ci riguarda, non c’è nulla che non sia unico. La nostra singolarità è il valore assolutamente inalienabile e sulla nostra identità noi creiamo il valore di ogni relazione, di ogni rapporto. Per noi si dà davvero l’inscindibilità, non possiamo essere soltanto pros ti, ma nello stesso tempo se fossimo soltanto per noi, saremmo impredicabili, non potremmo comunicare, saremmo muti, non più animali dotati di logos. Per l’analitica del nostro esserci vale essenzialmente il postulato essenziale della metafisica: l’essente è predicabile insieme pros ti e kath’auto, pros ti è veramente predicabile, kath’auto non è veramente predicabile, secondo logica, ma si danno insieme. Devo vedere insieme la sua predicabilità e la sua inaccessibilità. L’essere in comunicazione, pros ti, e al contempo avere dentro di sé qualcosa che è inaccessibile all’altro e a noi stessi, kath’auto. In questa complessità si gioca il nostro valore e questo valore si colloca nella physis. Il termine metafisica viene interpretato in questo senso.

Bertoletti

Mi pare che questo preambolo aristotelico abbia già posto le questioni essenziali di questo libro, libro che completa un percorso che Cacciari comincia con: Dall’inizio (1990), questioni di protologia, da dove si originano gli enti; seguito da Dalla cosa ultima (2004), questioni di escatologia, tema della destinazione ultima del singolo ente; terza tappa è il Labirinto filosofico (2014), dove vengono affrontate questioni di ontologia. Metafisica concreta (2023) appare come il compimento di questo percorso, la quarta tappa in cui tutto ritorna dal punto di vista di uno sguardo della metafisica concreta. In questo libro Cacciari insiste molto sul fatto che il singolo ha a che fare con il suo impossibile, con ciò che è oltre ciò che appare, ma che è costitutivo, immanente. Se per un credente ciò che è oltre è dio, per la filosofia ciò che è oltre, che però fa parte del singolo, è l’impossibile. Concetto dell’impossibile come destinazione ultima, intrinseca, come il nome segreto di ciascun ente. Questo ci porta anche al rapporto con Emanuele Severino, che si è a lungo soffermato sul rapporto tra il possibile e il necessario nel destino di ogni cosa.

Cacciari

Spero di aver dato l’idea di come intendo il termine metafisica. L’uso di questo termine è l’unico adeguato a rappresentare il nostro esserci, l’ente che siamo può essere rappresentato solo metafisicamente, perché è solo l’ente che siamo che si interroga intorno a quel complesso che è formato da pro sti e kath’auto. La nostra identità-singolarità è inaccessibile persino per noi. Pagine straordinarie di Agostino su che cosa significhi questo tornare in sé stessi, tornare in sé stessi vuol dire inabissarsi. La verità è sempre da indagare, è qualcosa che deve essere interrogata. L’esserci stesso, l’ente che siamo, è essenzialmente aporia. Aporia che ci meraviglia, da cui nasce la filosofia. Dice Platone e ripete Aristotele: la filosofia nasce dal meravigliarsi, non è che nasca e basta, ad ogni passo dell’indagine ti meravigli di trovarti di fronte alla parola che manca, è una meraviglia tutt’altro che piacevole, è una meraviglia angosciosa, è una meraviglia che suscita angoscia. Non hai più strada e devi procedere. Di fronte a questo ente che siamo, l’aporia che troviamo è ancora più dolorosa e la meraviglia che ci sovviene è ancora più trauma. Come si configura nel nostro esserci la complessità dell’ente? Noi svolgiamo l’aporia, progettando, ci lanciamo avanti verso uno scopo determinato, definito. Così viviamo. Siamo di fronte ad un problema, un problema ci assale, dobbiamo rispondere e lo facciamo avanzando, progettando. Il nostro esserci è progettante. Lo scopo può essere calcolabile. Come però dice Aristotele, non è detto che pur calcolato e progettato bene si realizzi, perché ogni progetto, per realizzarsi, deve avere al suo soccorso una molteplicità di casi che non dipendono assolutamente dal soggetto che progetta. La tiche è connessa alle vicende umane. Determinazione di un possibile realizzabile. Faccio appello all’esperienza, la filosofia ha senso quando rappresenta il nostro viaggio, la nostra esperienza. L’esserci si muove così e la filosofia e la scienza contemporanea hanno sottolineato questi aspetti in molti modi, fino ad Heidegger che dice che l’esserci è l’ente del possibile. Noi siamo gli enti del possibile. Un possibile che ha un termine, in cui il possibile si nega, l’esserci va verso la morte e nella morte ogni possibile viene meno. La morte è la possibilità che nega il possibile. Questa essenziale analitica dell’esserci è secondo me viziata da un errore modale, c’è un errore di logica modale in questa impostazione, che è quella dominante. Queste analitiche hanno come tema fondamentale quello della morte, il possibile cade nel reale e nel necessario, l’ultimo del possibile è necessità, che toglie il possibile, lo nega. Il mio esserci si manifesta nel progettare un possibile che è reale, è un possibile solo nella misura in cui può cessare di essere possibile e diventare così, lo concepisco come quel possibile che diventando reale cessa di essere possibile, si realizza. Alla fine, non penso il possibile di per sé, il possibile è un modo del reale. Il nostro esserci si muove soltanto secondo scopi realizzabili? Il nostro esserci è l’esserci del possibile reale e basta? Ci sono soltanto scopi, non c’è nessuna fine? Questo è il punto fondamentale. Il mondo moderno, contemporaneo è il mondo degli scopi, il suo è un possibile reale e questo possibile reale finisce con la morte, che cancella ogni possibile reale. Non c’è il possibile in sé, questo equivale all’impossibile. Il possibile in sé comporta che tutto sia possibile, tutto ciò che concepisco come possibile è possibile, ed è quello che noi chiamiamo impossibile. Questo non può essere ridotto a scopo, questo non lo posso progettare come possibile reale. Ovviamente la mia vita è fatta di possibili reali, di scopi, ma io chiedo, è fatta solo di questo? Il possibile è solo possibile reale? L’esserci è mosso soltanto dal perseguire scopi calcolabili e determinati? O vi è nel suo complesso qualcosa che è oltre ogni scopo determinato e calcolabile? Tutti gli scopi calcolabili, realizzabili ovviamente non possono che finire con la morte, chiaro. Lo scopo nella sua immanenza finisce con la morte, che è quel possibile che nega ogni possibile. Se io sono l’esserci del possibile, io devo concepirmi come quell’ente che si muove nell’idea che sia possibile ogni possibile, questo non nega il possibile, questo non riduce il possibile al reale. Se vi è il possibile secondo sé stesso devo pensare che sia possibile anche che tutto sia possibile e quindi anche che non si dia morte, che sia possibile non concepire come fine dell’esserci la morte. Nell’esperienza della nostra coscienza vi è questa idea. Nel mio libro parlo molto di Dostoevskij, è il fulcro della sua filosofia l’idea dell’impossibile, la quale si aggrappa alla sua fede in Cristo. La mia domanda è: questa idea è concepibile soltanto nell’atto di fede? Io ritengo di no, si può svolgere attraverso un nuovo modo di concepire la logica del possibile. È qui il rapporto con Severino, il suo discorso è in forte analogia con questo, lui ritiene che sia necessario affermare l’eternità dell’essente, lui e Heidegger sono agli antipodi, bisognerebbe che la filosofia contemporanea studiasse questa contraddizione, che segna la polarità del pensiero contemporaneo. La filosofia di Severino non c’entra con uno svolgimento logico del possibile e tuttavia sta in analogia con il mio, perché il modo in cui io svolgo la logica del possibile comporta la possibilità di quell’impossibile e cioè che la morte sia nient’altro che il ritiro dell’essente nell’inosservabilità. Questo non deve fare scandalo, come spesso è successo con i discorsi di Severino. Secondo me il discorso di Severino può essere compreso nell’ambito delle nostre esperienze. Siamo rivolti soltanto a scopi determinati? La nostra causa finale è sempre quello scopo realizzabile? Certo che la nostra vita si muove secondo scopi determinati, ma poi c’è quella domanda ultima, che può essere messa a tacere? Se siamo davvero l’esserci del possibile, non è proprio del possibile l’impossibile? Non è forse il suo modo ultimo, ovvero che ogni possibile sia. Nel discorso di Severino, che l’ente sia eterno è necessario, il suo discorso non ha una declinazione del modo del possibile.

Bertoletti

Questa insistenza sull’impossibile che abita il singolo, questo noi lo vediamo in un particolare oggetto, nella crocifissione, in quell’opera d’arte. Dato che lei ha lavorato tutta una vita sull’opera d’arte, le chiederei questa riflessione sul singolo in quello straordinario impossibile che è possibile, che è quella singola opera d’arte e particolarmente certe opere che riflettono sulla resurrezione, sulla crocifissione, che sembrano quasi voler dare visibilità all’invisibile. Come se l’opera d’arte osasse rendere visibile l’impossibile.

Cacciari

Nel mio libro potete trovare un’infinità di rimandi alla dimensione artistica. Credo che Dante sia più citato di Hegel. È nella poesia (poiesis), nel fare dell’arte, che costantemente ti trovi in quello che Dante chiama un oltraggio. Di fronte ad una visione, ad un’esperienza che è oltre essa gli fa oltraggio, gli viene addosso come un problema, che è oltre le sue capacità di vedere, di dire e anche oltre la memoria. Dante è destinato a tornare, la Divina Commedia non si conclude con l’ultima visione, ma inizia con essa, perché Dante deve fare ritorno, tutta la Commedia è una nostalgia del ritorno, deve tornare quaggiù, deve predicare, lui è un profeta. Quest’ansia del ritorno deve essere compresa. È centrale nella sua opera. Quello che vede fino ad un certo punto lo comprende, lo assorbe, poi ad un certo momento entra in una dimensione che gli fa oltraggio. Come farò a rendere l’idea di ciò che esperisco? Sarà impossibile e questo lo angoscia, sarà impossibile riuscire ad esprimere quella relazione nell’unità. La poesia è questo, è l’esperienza dell’inosservabile. È l’esperienza drammatica di mettere in termini estetici (qualcosa che colpisce i nostri sensi) qualcosa che non è propriamente visibile, non è propriamente osservabile. Deve farcelo toccare. Ficca lo sguardo nel mistero dice Dante, toccare Dio. Nell’arte contemporanea questo è in particolare risalto, è evidente che non può più essere interpretata secondo criteri mimetici, nel suo radicale abbandono di ogni prospettiva mimetica pone problema. Nell’arte contemporanea viene ad evidenza che l’essente non è qualcosa che si dà, l’essenza dell’essente è qualcosa che svolgo, che approfondisco e sta nell’inosservabile e io devo indicarlo questo inosservabile. Questo è il senso della ricerca che si accompagna alla de-sostanzializzazione della scienza contemporanea. Il reale è relazione, è energia, è l’inosservabile. La parola manca, è un continuo richiamo nell’arte contemporanea. Il fare dell’arte è testimone della parola che manca, ma non per impotenza, la parola alla fine manca, come accade con Dante. Il problema del fare dell’arte è costitutivo della riflessione filosofica contemporanea. Il filosofo non può fare a meno della musica, dell’arte, perché l’esperienza artistica è immanente al suo discorso.

Domande

  • Noi siamo vissuti fino ad adesso in una concezione dualistica del reale, il noumeno e il fenomeno, quello che lei chiama il movimento immobile e la realtà. Il pensiero è irreale. Davanti ad un esperimento come quello effettuato pochi giorni fa, mettendo un chip all’interno di una persona, la quale è riuscita ad elaborare un pensiero che organizza un gioco di scacchi, io mi sento terrorizzato. Se io fossi un filosofo o un teologo mi sentirei malissimo, perché arrivo alla conclusione che l’attività raziocinante si basa su un’articolazione complessa delle informazioni che si svolgono nel cervello. Davanti a questa realtà così essenziale che mi fa vedere che il dualismo non esiste più io rimarrei annichilito.
  • Io mi sono perso tra ciò che è possibile e ciò che non è possibile, allora mi chiedo se è possibile che ci sia l’eternità non è vero anche il contrario, ovvero che non ci sia? Come fa l’uomo a districarsi fra tutte queste metafisiche? Qual è il ruolo che gioca il destino nella vita dell’uomo?
  • Oggi sembra che la musica concreta sia quella di immediata tangibilità, cioè la melodia del ritmo, l’armonia; nel momento in cui ritmo, melodia e armonia sono state eliminate dalla complessità del sistema della scienza, della macchina, può essere che per tornare a questa immediatezza, alla carne della musica, sia oggi necessario alla musica il suono? Una maggiore riflessione sul suono, sulla materia, sul timbro.

Risposte del professor Cacciari

La prima domanda riguarda la grossissima questione dell’intelligenza artificiale, che la filosofia deve seguire, ci stiamo lavorando molto, con diversi colleghi (fisici, psicologi). Certamente è un tema di frontiera. Ci sono tante correnti riduzionistiche. Si può giungere ad una macchina perfettamente pensante, ovvero ad una intelligenza artificiale indistinguibile dalla mia intelligenza, perché il mio cervello è qualcosa di perfettamente descrivibile. Questa conoscenza si evolve continuamente e quindi perché non si può arrivare ad un punto in cui il cervello è perfettamente analizzato in tutte le sue parti e ricostruibile tecnicamente. Rimane il fatto che se è anche il corpo che pensa, il pensiero non è corpo, tutti i problemi di cui abbiamo parlato rimarrebbero in piedi. C’è anche un’altra questione di carattere logico che distinguerà sempre l’intelligenza artificiale da noi. Mentre io so, con assoluta precisione, dove e come e perché è nato il cervello artificiale, la fantascienza è buona maestra, queste intelligenze hanno una data di avvio e una data di scadenza. Noi non abbiamo data di nascita, non sappiamo da dove venga il nostro cervello, la nostra provenienza sta nell’abisso, esattamente come la mia destinazione. La mia intelligenza ha una provenienza inaccessibile. La questione metafisica è questa: dell’intelligenza artificiale so con matematica precisione la data di nascita e so anche la data di scadenza. Noi miriamo all’impossibile e l’impossibile non è un progetto a scadenza.

Per me che l’ente sia eterno rientra in quella categoria possibile-impossibile, ma non posso determinare che è eterno. Io posso sicuramente criticare coloro che negano l’esserci del possibile. L’ente scompare nell’inosservabile e in quell’inosservabile è possibile che l’ente sia eterno, come è possibile che quell’inosservabile significhi il suo annichilimento. Come faccio ad affermare che necessariamente è eterno? Severino dice che questa è la contraddizione fondamentale, ma che non può in alcun modo negare che l’ente è e qui siamo a Parmenide. Qui c’è una differenza di interpretazione tra me e Severino (filosofo italiano che mi ha influenzato di più). Io non vedo l’eternità dell’ente, ma è innegabile che l’ente è (ritorno a Parmenide). Per Severino il soggetto dell’è di Parmenide è l’essente, l’ente; per me è physis. Riguarda la physis, non l’ente fisico. I greci hanno sempre detto che nulla muore, tutto si trasforma. I nomi con cui predico l’è si riferiscono alla natura. Ad Heidegger non piaceva questa traduzione, ma natura è un termine che traduce perfettamente physis, è un participio futuro, è un eterno germogliare, qualcosa che non cesserà mai di essere. È la natura di cui parla Lucrezio, solo che ad Heidegger non piace il latino. Questo rifiuto del latino è tremendo nella cultura tedesca del 900, c’è un’incomprensione del rapporto tra le due grandi civiltà classiche. Teniamo stretti sia il latino che il greco.

Siamo sicuri che la filosofia sia questo divagare? No, la filosofia approfondisce, scava sempre lì. È un interrogare, problematizzare lo stesso, in termini diversi. Tutti si ritrovano e si concentrano lì. Alla fine, sono tutte glosse, commenti ad alcuni capisaldi, tra cui quelli alla cosiddetta Metafisica aristotelica.

Ananke è la necessità, Tiche è il caso. Il mondo dei casi è governato da una necessità che ci sfugge. Questa necessità domina tutto, anche gli stessi dei. La necessità non è assolutamente un termine che contrasti con il discorso che ho fatto sul possibile, noi siamo l’esserci del possibile, questa è la nostra necessità. Non c’è nulla che contrasti all’esserci del possibile. Il nostro esserci, se radicalmente pensato, in quanto esserci del possibile, indica, come propria destinazione, l’impossibile. Scopriamo che questo è il nostro necessario, che non contrasta assolutamente con il nostro esserci del possibile. In questa destinazione noi incontreremo infiniti casi, nella nostra destinazione noi siamo sempre anche pro-sti, siamo sempre in relazione ad altro. Proseguiamo verso ciò a cui siamo destinati, entrando in relazione con infiniti casi, con altro, con altri, per cui è sempre possibile il naufragio. C’è un destino verso cui vai, ma sei anche figlio della tiche, perché altrimenti, se non temi la tiche, stai immobile. Se vuoi perseguire la tua destinazione devi saper affrontare il caso.

NOTA. Trascrizione, non rivista dagli Autori, della conversazione tenuta a Brescia il 25.3.2024 da Massimo Cacciari, sollecitato da Ilario Bertoletti, su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.