Metafisica, vita morale e sociologismo

Il grande sviluppo della sociologia ha dilatato la sua influenza a tal punto da surrogare la ricerca e la metodologia filosofiche, degenerando così in sociologismo. Il sociologismo non è la corretta sociologia, ma un atteggiamento intellettuale e spirituale comune ad alcune sociologie di moda. Il sociologismo esaspera l’influenza della società sull’individuo, ne fa un nuovo Leviatano, non ne precisa i limiti di fatto e di diritto, nega che esistano verità e valori che trascendono le caratteristiche storicamente determinate di una società. Il sociologismo è una forma di determinismo che lascia assai poco spazio alla concreta libertà dell’uomo, quando non la sopprime apertamente facendo del singolo un epifenomeno del tutto, dell’uomo il prodotto o il succube della società, esposto alla violenza aperta della forza brutale o alla persuasione occulta dell’inconscio. Il sociologismo accomuna positivisti e marxisti ed ha una precisa linea storica che va da Comte e Marx a Durkheim, da Lévy-Bruhl agli strutturalisti contemporanei.
Lungo questa direttrice si è mosso anche un pensatore geniale come Max Scheler nel tentativo di spiegare i sistemi metafisici con la sociologia. L’affermazione secondo cui “i ceti e le classi, cui appartengono i metafisici, sono di grande significato per la struttura delle metafisiche; i ceti e le classi dei metafisici sono sempre, o per lo più, ceti e classi che hanno cultura e ricchezza” suona categorica nel volume “Sociologia del sapere” (trad. it. Abete, Roma). La tesi è acriticamente riproposta nel volumetto, ricco peraltro di spunti assai felici, “Introduzione critica alla storia della filosofia” di Pietro Prini (Armando Editore, Roma). Si deve, però, dire a chiare lettere che né Scheler né altri hanno mai dimostrato le basi storiche o le ragioni filosofiche che possano giustificare un siffatto canone interpretativo. Qualche esempio può valere più di un lungo discorso. Socrate era povero. Platone era ricchissimo, ma disprezzò tanto le ricchezze da ritenerle piuttosto una concessione da farsi alle classi più incolte della società. Aristotele era agiato, ma non ricco. Entrambi non esitarono a porre in luce le carenze e le responsabilità delle classi e dei ceti da cui provenivano. Tommaso d’ Aquino ripudiò privilegi, ricchezze, prospettive di successo mondano per far parte di un ordine mendicante. Spinoza fece il pulitore di lenti e rinunciò ad ogni carriera, pur essendo amico intimo di Jan de Witt; scelse un mestiere di piccolo borghese, ma non ebbe l’animo del piccolo borghese, nel senso che noi oggi attribuiamo dopo Marx a questa espressione. Né erano ricchi Vico e Kant, che erano professori, e i loro genitori erano l’uno un libraio in difficoltà e l’altro un sellaio, non certo dei beati possidentes.
Si può, dunque, legittimamente concludere che, senza negare la varia incidenza dei fattori sociali sul pensiero filosofico, si deve tuttavia circoscriverla entro ben definiti limiti, con un valore il più delle volte marginale, per la semplice ragione che quando l’influenza di un certo tipo di società diviene determinante, non ci troviamo più in presenza di una filosofia, ma di una ideologia, trionfante o velleitaria che sia. Il sociologismo sembra essere l’ultimo grido della cultura ed è invece, assai spesso, l’ultima personificazione di una ragione pigra, che senza spingere lo scandaglio oltre la superficie di fatti rilevati e descritti, emette sentenze che vorrebbero essere inappellabili, mentre investono problemi la cui soluzione non può venirci dalla sociologia. Un esempio, tra i molti possibili. Concediamo pure che sia possibile in campo morale formalizzare in tabelle, come raccomandano F. Rauh e J.Piaget, le norme di comportamento con le relative varianti di un certo numero di soggetti viventi in una data società. Che cosa potremo stabilire? Niente di più che la «media» del loro comportamento. Ma quale che sia il rilievo che possa avere per l’educatore, per il sociologo, per il politico la funzione segnaletica di una media, il fatto è che una media di comportamenti non soddisfa l’esigenza morale che scaturisce dalla coscienza umana.

Giornale di Brescia, 2.8.1990.