Nord Sud. La povertà nel mondo d’oggi

Grazie per i cenni a Civiltà cattolica, che credo tutti più o meno conoscano, una rivista di cultura che condivide la sorte di tutte le riviste di cultura: tutti le citano ma nessuno le legge. Per mostrare l’umorismo della storia vorrei ricordare che la rivista, 150 anni l’anno prossimo, è nata per ostacolare l’unità nazionale. E’ nata quando il papa era scappato a Gaeta, proprio per difendere lo stato pontificio, che era uno dei maggiori ostacoli all’unità nazionale, come poi è stata realizzata. C’è quindi un certo umorismo della storia, anche nelle vicende di cui ci occupiamo

Il tema che mi è stato affidato è di interesse mondiale: nord, sud, la povertà nel mondo di oggi. Essendo così ampio, evidentemente le cose che dirò  sono scontate, o banali, o in ogni caso molto generali. Quello che pensavo di dire, nel tempo che ho a disposizione, lo potrei articolare in questo modo: dato che si parla anche di nord, non solo di sud, vorrei prima dare alcune idee sul mondo in cui viviamo oggi. Io parlo soprattutto da un punto di vista economico, visto ciò di cui mi occupo, e quindi descriverò come si muove il mondo di oggi al di fuori delle porte di casa nostra; in secondo luogo dirò qualcosa di più specifico sulla lotta alla povertà nel mondo, analizzando gli ultimi dati. Mi sembrava molto utile, visto che faccio anche il giornalista, dire qualche cosa sulle informazioni che riceviamo circa la povertà nel mondo, o se volete il mondo in via di sviluppo. Perché prendere coscienza del fatto che tutte le informazioni sono un po’ deformate, potrebbe essere già un buon risultato alla fine di questa serata. Innanzitutto, il mondo in cui viviamo è un mondo che ci dà abbastanza insicurezza, perché sono venute meno alcune delle categorie alle quali eravamo abituati, e non ne abbiamo ancora di nuove; ammesso poi che i modelli funzionassero bene prima, ma almeno sapevamo esattamente, a seconda di dove ci si schierava, chi erano i nostri e chi erano gli altri –  non dico i buoni e i cattivi – e con il mondo diviso in due blocchi sembrava  più facile. Questo schema è venuto meno, da 8 o 9 anni, e questo ci mette in ansia, perché abbiamo grosse difficoltà di interpretazione e di previsione del nostro mondo, che oggi è un po’ come un fiume di lava che procede, ma a velocità diverse. A seconda di dove sta l’osservatore ci sono nuovi rivoli di lava che nascono improvvisamente, altri che scompaiono nelle profondità della montagna; quindi, a seconda di dove uno sta, può avere impressioni piuttosto diverse, a volte quasi contraddittorie. Quello che voglio dire, al di là dell’immagine, è che la vita economica moderna è estremamente complessa e le semplificazioni, come quelle che io proporrò questa sera, sono piuttosto pericolose. Dei due sistemi che si contrapponevano uno è scomparso, almeno come ideale proposto e perseguito, con la sua carica messianica; e vorrei sottolineare che è scomparso non per l’ attacco  dall’esterno, ma è imploso, si è afflosciato su sé stesso. Le società di questi paesi, particolarmente in Europa, non l’hanno più accettato, perché non dava ciò che aveva promesso. Questo non significa, e il papa lo ripete più volte, che la vittoria è del capitalismo. Di fatto però oggi, nel mondo, se leggete i giornali o la letteratura economica un po’ più specializzata, tutti parlano la lingua del vincitore, cioè di democrazia e di mercato, anche se queste parole hanno significato diverso da posto a posto. Noi europei ci mettiamo sempre al centro del mondo: siccome in Europa i regimi di socialismo reale sono crollati, noi abbiamo in mente che siano crollati dovunque, mentre non è così. Ci sono ancora diversi paesi, in altri continenti, che si reggono con un sistema di economia pianificata, ispirata al marxismo-leninismo. Questo vale in particolare nei paesi dove è ancora al governo la prima generazione. Per esempio a Cuba, Fidel Castro è quello che ha fatto la rivoluzione ed è ancora al potere; ed è difficile pretendere che chi ha sofferto per un certo ideale, chi ha combattuto determinate battaglie, trasformi anche il sistema che è frutto di tutta la sua vita, di tutte le sue fatiche. In altri posti invece, la situazione sembra essersi irrigidita. Pensate alla Corea del Nord, che adesso conosce gravi problemi di alimentazione, a livello di fame di massa. E siccome questi schemi sono venuti meno e noi di schemi abbiamo sempre bisogno, oggi si ricorre ad altri modelli, di cui io non parlerò questa sera. Tutto questo per dire come istintivamente cerchiamo sempre qualche parola, più o meno magica, che ci aiuti a definire il mondo di oggi. Oggi la parola magica è globalizzazione, o secondo alcuni mondializzazione. E sarebbe anche interessante da studiare, nei suoi effetti sui paesi più poveri, cioè sui paesi in via di sviluppo. E’ un fenomeno reale per alcuni aspetti: per quello dell’informazione e quello finanziario soprattutto,  ma non è né un mito, né un incubo. E’ un fenomeno umano, certamente già in atto, che può avere effetti positivi, o anche gravi effetti negativi, a seconda che  venga o meno guidato adeguatamente. Quello che invece  vorrei sottolineare per il tema che ci riguarda stasera, è che nel mondo di oggi vi è certamente una crisi del solidarismo e dell’universalismo: vengono meno i grandi ideali di solidarietà. Invece si accentuano paradossalmente i nazionalismi e aumentano gli stati: oggi abbiamo 30 stati in più rispetto a 10 anni fa, e altri ne nascono. E di questi uno solo, la Cecoslovacchia, è riuscito a dividersi in modo pacifico. Se pensate alla Jugoslavia o all’ex blocco sovietico, ci sono state grandi tragedie. E anche questo ci crea  difficoltà. L’ONU ha grossi problemi, spesso viene delegittimata e non riesce a diventare un governo mondiale, perché non è terzo rispetto agli stati che la compongono. Quindi agisce con le forze e le possibilità che gli  stati membri offrono. Quando si parla di povertà, il termine, a livello globale,  che viene in mente, è quello di sviluppo. Già qui vorrei mettere un punto di domanda sul termine che io stesso uso; l’abbiamo coniato noi europei e lo imponiamo, lo usiamo un po’ per tutto il mondo. Ci si deve almeno domandare se la nostra concezione dello sviluppo è trasferibile tale e quale agli altri. Per cui parlando di povertà o di ricchezza, di sviluppo o di non sviluppo, le nostre categorie sono sempre le più adeguate? E questo è solo un dubbio al quale io non so dare soluzione.

Qual è lo scenario del mondo che si presenta ai nostri occhi? Attualmente, nonostante ricadute e  disfunzioni, il nostro è un mondo che dal punto di vista della crescita economica va sostanzialmente avanti. Alcuni lo paragonano, e lo faceva il presidente del Brasile qualche decennio fa, ad una auto che ha un buon motore, ma ha le ruote quadrate: va avanti  con sussulti, incespicando, tira il motore ma con grande irregolarità. Certamente,  il progresso è innegabile, ma ha molte ombre. E ci sono intere masse che rimangono escluse dai benefici di questo avanzamento spettacolare. Un economista, di cui ho visto un articolo recente di aggiornamenti sociali sulla rivista in cui lavoravo prima, usa questa immagine: l’economia del mondo, nei vari stati prima della caduta dei governi a regime socialista, sembrava una corsa ciclistica, in cui ogni corridore era uno stato; c’era il gruppo e un paio di plotoni, ma sostanzialmente correvano tutti compatti. Dopo il 1989-90 la situazione è un’ altra, il gruppo si è sgranato. Quindi la distanza dal primo all’ultimo è magari anche cresciuta, ma i corridori si trovano a due, a tre, a piccoli gruppi  lungo tutto il percorso. La situazione globale è dunque anche più difficile da cogliere. Una cosa vorrei dire: tutti questi problemi non valgono solo per la povertà di oggi; quando si parla di statistiche,  anche del nostro stesso paese, in queste realtà moderne, complesse e  articolate, c’è sempre abbastanza luce per chi vuole essere ottimista e abbastanza buio per chi vuole essere pessimista. Ed entrambi hanno ragione, perché in una società dall’economia complessa, ciascuno, senza manipolare i dati, può tirare le sue conclusioni  a seconda di come la pensa. Un procedimento, non so se utilizzato volutamente o meno, che usano anche alcune agenzie dell’ONU, è il seguente: chi vuole essere ottimista cita le percentuali. Ad esempio il numero di bambini che hanno da mangiare a sufficienza, il numero dei bambini che vanno a scuola: si citano le percentuali, perché queste migliorano nel mondo. Chi vuole essere pessimista, cita le cifre assolute, perché siccome la popolazione aumenta, il numero assoluto di affamati, di gente senza tetto, di gente senza acqua, di gente analfabeta, aumenta. E’ un procedimento che vedo in uso, non so se consapevolmente o meno, in molte parti. Gli esperti di statistica da me consultati, sostengono l’importanza delle percentuali, che mostrano il trend. Siccome io sono ottimista, mi davano ragione. Se volete un esempio di questo, ci sono i rapporti che un’agenzia dell’ONU pubblica ogni anno sullo sviluppo umano. L’ultimo, di cui dirò qualche cosa, mi interessa particolarmente questa sera perché è intitolato “Sradicare la povertà”. Ogni anno,  gli specialisti che redigono questo rapporto, cercano di fare il bilancio del mondo sotto i vari aspetti: la situazione della donna, la povertà, etc. E spesso pubblicano dei quadri come questo, in cui cercano di essere imparziali. Questa è la fotocopia di una pagina di uno dei precedenti rapporti, in cui mettono da una parte il progresso, e dall’altra la deprivazione. Io vi leggerò solo due o tre casi. Dato positivo: negli ultimi trenta anni la popolazione che può accedere ad acqua non inquinata è quasi raddoppiata, dal 36% al 70%. Negativo: circa diciassette milioni di persone muoiono ogni anno a causa di malattie infettive parassitarie, come dissenteria, malaria e tubercolosi.  Istruzione: le iscrizioni nette a scuole primarie sono aumentate di circa due terzi, nel corso degli ultimi trenta anni, dal 48% nel ‘60 al 77% nel 91. Questo dato positivo è nettamente cresciuto. Negativo: circa centotrentamilioni di bambini in età scolastica a livello primario, e più di duecentosettantacinque milioni a livello secondario non accedono all’educazione scolastica. Per ciò che riguarda cibo e alimentazione, le statistiche sono positive: nonostante la rapida crescita della popolazione, la produzione di cibo pro capite è aumentata di più del 20% durante lo scorso decennio. Negativo: quasi ottocento milioni di persone non ricevono cibo a sufficienza, e circa cinquecento milioni di essi sono malnutriti cronici. Non procedo nelle esemplificazioni, ma mi sembra abbastanza chiaro che sulla base dei dati le cose vanno migliorando, sebbene con molte ombre; se uno lo desidera, c’è sempre abbastanza penombra, oscurità, dramma. Le cose vanno male, se non addirittura peggio. Da un punto di vista globale, dal 1980 in poi si è avuto un impulso spettacolare alla crescita economica. Parlo delle società o degli stati  in modo globale, non solo della loro parte più povera. Questo impulso ha fatto aumentare il reddito di circa un miliardo e mezzo di persone, un quarto della popolazione mondiale. Allo stesso tempo, però, la crescita economica è fallita in circa 100 paesi; vale a dire che i redditi di un altro quarto dell’umanità, di un altro miliardo e seicento milioni di persone, si sono ridotti. E in parecchi di questi paesi, il  reddito, lo scorso anno, era inferiore a quello del 1980. Quindi c’è stato un aumento enorme di beni prodotti,  che la storia dell’umanità non ha mai conosciuto; ma non è andato a beneficio di tutti. Tutti stanno forse un pochino meglio, ma la distanza tra il quarto più ricco e il quarto più povero è aumentata,  il mondo si è polarizzato. Sono statistiche un po’ indigeste, citate dopo cena, e spero che mi scuserete;  ma preferisco citare dati piuttosto che dire cose generali. Nel mondo ogni anno si producono beni, servizi per circa ventiquattro mila miliardi di dollari; di questi, diciottomila appartengono ai paesi industrializzati e soltanto cinquemila ai paesi in via di sviluppo, che però riuniscono l’80% della popolazione mondiale. E il 20% più povero, anche se ha visto dei miglioramenti, in proporzione ha una fetta di torta disponibile più piccola. Se volete saperlo, il massimo caso che viene citato dai rapporti, è che i redditi di 357 miliardari nel mondo, i più ricchi , superano la somma dei redditi annuali nei paesi che riuniscono il 45% della popolazione mondiale. C’è  quindi nel mondo una sempre maggiore produzione di beni, ma per adesso si distribuisce in modo molto iniquo e  disuguale, anche se tutti vanno un pochino avanti ma a velocità molto diverse. Volendo adesso dare una brevissima panoramica dei singoli paesi, direi che in quelli industrializzati si respira oggi un clima di un certo ottimismo. E anche in Italia, secondo le ultime statistiche, nonostante Cipolletta dica che gli italiani non vogliono mai ammettere di essere una grossa potenza industriale, perché se l’ammettessero non potrebbero più lamentarsi: questo è uno dei nostri sport nazionali. E’ vero invece che la ripresa  nel nostro paese non crea occupazione; nel nord è un po’ diverso, ma l’Italia ha comunque dietro di sé grossi problemi tuttora irrisolti. Basti pensare al mezzogiorno. Una grandissima espansione, fuori dall’Italia e dai paesi industrializzati, l’ha conosciuta l’Asia. Qui i paesi si sono sviluppati molto rapidamente e in un modo abbastanza inaspettato. Quello che ha avuto i risultati più spettacolari è la Cina, che sembrava destinata, vista la quantità di popolazione che ospita, ad essere il più grande contenitore di poveri del mondo. Negli ultimi anni, pur mantenendo un regime politico autoritario, ispirato al marxismo, ha adottato l’economia di mercato, e sta crescendo di circa il 10% l’anno, e in passato l’ha anche superato, raggiungendo un livello notevolissimo e a noi, che l’aumentiamo dell’1,5% l’anno, del tutto sconosciuto. Se un paese parte da un livello molto basso è facile ottenere risultati spettacolari: una città che ha un solo ospedale e ne costruisce un secondo è cresciuta del 100%. Ma in paesi come i nostri, come la Germania, o il Belgio, le percentuali sono più basse, perché si parte da un livello assai maggiore. Alcuni paesi del sud est asiatico, che sembravano essersi sottratti alla morsa della povertà e che per diversi anni sono stati tra i più dinamici del mondo, hanno conosciuto poi una grossa crisi di crescita, a cominciare dall’Indonesia, dalla quale non sono ancora usciti. E credo che l’euforia della borsa, anche di Milano, è dovuta in buona parte alla fuga di molti capitali da questi mercati asiatici giudicati non più affidabili, per riversarsi sulle borse occidentali. Sono state comunque commesse delle imprudenze; non credo che venga meno la loro capacità di essere economie competitive, e quindi di essersi sottratti alla morsa della povertà. E credo che, ancora per parecchio tempo, dovranno soffrire per riaggiustarsi. La speculazione, effetto di globalizzazione, esaspera le crisi di singole economie, che sono in difficoltà, e mostra come siamo strani, addirittura schizofrenici, nelle reazioni a questi fenomeni. Un po’ come su una nave dove ci sono tutti i bagagli da una parte; se il mare è troppo agitato, tutti i passeggeri si precipitano a prendere i bagagli, e il fenomeno si aggrava, perché la nave può anche capovolgersi. Con la speculazione avviene qualche cosa di analogo. Quando un grosso speculatore internazionale ha speculato contro la moneta della Malaysia, il primo ministro malaysiano ha chiesto la sua incriminazione a livello internazionale, perché ha danneggiato una economia non sua. Quando fece la stessa cosa nel ‘92 contro la lira italiana, guadagnando in pochi giorni, mi pare, circa quattromila miliardi di lire, l’università di Bologna gli ha dato una laurea honoris causa. Credo e spero non per avere lottato contro la lira. Non è sempre facile avere condotte uniformi, anche in questi problemi. Ci sono paesi dell’Africa sud Sahariana, l’Africa nera, che per molti anni sono stati giudicati parte di “un continente da cui provengono solo cattive notizie”; altri ne parlavano come di un oceano di male, e sembrava veramente che non si muovesse niente. Ultimamente le cose stanno cambiando; cominciano, per una serie di motivi, a dare segni di ripresa, e almeno alcune delle economie africane si muovono in modo abbastanza consistente, anche se restano immensi problemi. Pensate solo al debito estero, che non verrà mai ripagato dai paesi dell’Africa nera. E pensate poi ai drammi nazionali, al problema del Ruanda, del Burundi, dello Zaire, e dei paesi limitrofi. Io ho vissuto per alcuni anni in America latina; quei paesi sembravano conoscere un declino inarrestabile, ma negli ultimi anni vi è un clima di maggiore fiducia. Vi cito una cifra sola, di cui probabilmente non cogliamo tutto il senso, quella dell’inflazione: noi adesso siamo sotto il 2% e fummo presi da un panico assoluto quando in Italia si arrivò al 21%; in America latina 2 stati, Argentina e Bolivia, hanno passato il 200000% all’anno di inflazione; a quel livello la moneta non è più unità di misura. Adesso sono scesi al 14% con un grosso costo sociale, ma si stanno  riprendendo, e i loro imprenditori non scommettono più contro i propri paesi. In passato infatti, gli imprenditori latino americani, argentini, messicani, hanno esportato, mettendoli al sicuro, tutti i loro capitali all’estero. Questa tendenza generale è stata ultimamente corretta e si spera che anche l’America latina possa un po’ alla volta riprendersi. Non parlo dei paesi dell’est, fra cui alcuni sono decisamente avviati ad una grossa lotta alla povertà, e ad una ricostruzione delle economie, distrutte e congelate da cinquant’anni di dittatura, mentre altri, cominciando dalla stessa comunità di stati indipendenti (CSI), ancora non sono fuori dalle crisi. Una cifra che vorrei citarvi, molto significativa del dinamismo della nostra epoca, è quella che descrive il numero degli anni necessari a raddoppiare il proprio reddito nazionale. La Germania, cominciando dal 1870, quando si tuffò nell’industrializzazione, impiegò 43 anni per raddoppiare il suo reddito; il Giappone, dal 1885, ha impiegato 34 anni;  la Corea del sud, partita nel 1966, ha impiegato 11 anni; la Cina, dal 1985, per ottenere il primo raddoppio del reddito ha impiegato 9 anni. Non so se queste cifre andranno avanti all’infinito;  mi chiedo se c’è spazio per tutti. La maniera in cui si sta procedendo, da un punto di vista matematico è esponenziale, quindi ci sarà certamente un limite. Voglio solo sottolineare che il nostro mondo, oggi, ha potenzialità enormi, e deve solo capire come coordinare questo grande dinamismo di cui dispone.

Veniamo al secondo punto, quello della lotta specifica alla povertà. E’ un discorso che riguarda non più i paesi, ma le fasce più povere dei singoli paesi. A questo proposito, se qualcuno vuole approfondire, uno studio ben fatto è quello che vi ho citato: l’ottavo rapporto sullo sviluppo umano, programma di sviluppo delle nazioni unite, che non è una vera agenzia dell’ONU, ma un gruppo di esperti che per incarico dell’ONU promuove una serie di progetti concreti per lo sviluppo e la lotta contro la povertà, e redige ogni anno questo rapporto, da cui ho preso alcuni dati per la tematica di questa sera. Il messaggio che intende dare il volume di quest’anno, dedicato alla lotta contro la povertà, è un messaggio particolarmente positivo, anche se ovviamente criticabile. Quello che sostiene questo rapporto, è che l’eliminazione delle forme più gravi di povertà, sarebbe raggiungibile entro pochi anni, entro il primo decennio del 2000, se ci si impegnasse. Questa tesi è sostenuta non solo con i calcoli a tavolino, ma in base a quanto è stato fatto fin’ora. Secondo i redattori, negli ultimi cinquant’anni la povertà è diminuita più che nei 500 anni precedenti e almeno in qualche suo aspetto è stata ridotta in tutti i paesi. Ora, bisognerebbe distinguere da paese a paese. Per esempio, da noi, in Italia, in che modo è scomparsa la povertà di massa? E’ chiaro che esistono ancora i poveri, esistono anche le nuove povertà. Ma la povertà di massa è scomparsa, impedendo che ci fossero anziani poveri. Poichè i poveri in passato erano soprattutto gli anziani e le anziane, quando restavano vedove le donne o smettevano di lavorare per impossibilità gli uomini, con il sistema pensionistico e quello delle assicurazioni sociali, da noi, da un punto di vista statistico, si è ridotto il fenomeno della povertà, almeno nel suo aspetto più vistoso. Nei paesi in via di sviluppo, in poco più di una generazione, il tasso di mortalità infantile è stato più che dimezzato, quello di denutrizione è diminuito del 30%. I bambini e le bambine che non frequentavano la scuola,  un paio di decenni fa erano almeno la metà; adesso sono meno di un quarto. Se prima il 90% delle famiglie che vivevano in campagna non avevano accesso all’acqua potabile, ora sono solo il 25%. E sono miglioramenti, secondo l’ONU, diffusi un po’ in tutti i continenti. E potrei naturalmente continuare nell’elenco, ma, come dicevo già all’inizio, questo è solo un lato della medaglia. Accanto a questi progressi senza precedenti, vi sono aspetti ancora reali di indicibile miseria umana. Più di un quarto della popolazione  dei paesi in via di sviluppo vive ancora in condizione di povertà. L’Asia meridionale, da sola conta cinquecentodieci milioni di poveri, più di ottocentomilioni non dispongono di cibo sufficiente, e un miliardo e duecento milioni di persone non dispongono di acqua potabile. E quelli che soffrono, sono sempre i più indifesi e coloro che hanno meno voce per farsi sentire, quindi soprattutto donne e bambini: cento sessanta milioni di bambini minori, al di sotto dei 5 anni, sono denutriti. Si calcola che nel mondo ci siano circa ottocento milioni di analfabeti, più di cinquecento quaranta milioni di questi sono donne. Così, in campo sanitario, da un lato sono scomparse delle malattie: ad esempio non c’è più il vaiolo, che era in passato una delle grandi cause di morte; ma, nei paesi in via di sviluppo, il divario rispetto a noi è ancora enorme. Basti citare il numero di medici, che sono uno ogni 6000 abitanti nei paesi in via di sviluppo, e nell’Africa sub Sahariana 1 ogni 18000, mentre nei paesi ricchi ce n’è 1 ogni 350 abitanti. Se volete anche qui le curiosità delle statistiche, l’Italia credo sia al primo posto del mondo; ma non è detto che sia un vantaggio, perché molti dei nostri medici sono disoccupati. Abbiamo lasciato iscrivere alle facoltà troppi studenti, per cui statisticamente abbiamo tantissimi medici, che forse non troveranno un impegno meritevole, adatto e adeguato  alla specializzazione che conseguono. Come vedete le cifre che ho citato sono cifre assolute, che perdono un po’ di vista  le percentuali ma mostrano quanta strada ancora rimanga da fare. Dove vanno concentrati gli sforzi? Il rapporto presenta tutta una serie di studi soprattutto sulle organizzazioni che vengono dal basso. Per esempio in Africa ci sono decine di migliaia di gruppi di donne, oppure gruppi di villaggi che hanno saputo organizzarsi, senza aspettare  i governi che o non ci sono, o sono espressione di una élite al potere, spesso il maggiore nemico del proprio popolo.  Nella lotta contro la povertà grave, queste organizzazioni di base sono state molto efficaci. Come pure (e Brescia è terreno in questo abbastanza fecondo) le così dette ONG, sia quelle del primo mondo, sia quelle che nascono sul posto. Coesistono anche forme alternative di commercio, come il commercio equo solidale, etc.; e nell’organizzazione mondiale del commercio, così come la vorrebbe l’italiano che la dirige, Renato Ruggero, c’è qualcosa che va in questa linea: saltare tutti gli intermediari, grazie anche all’informatica moderna, e all’uso di sistemi alternativi nelle banche, che per esempio prestano solo a poveri e a donne: pare che le donne amministrino molto meglio degli uomini, almeno in India, e si interessino molto di più della famiglia. La cosa interessante è che quasi tutti restituiscono il prestito, dopo averlo speso per attrezzi agricoli o sementi, non per costruirsi un grattacielo o per comperarsi una Mercedes. Quello che è interessante, nel rapporto, è il calcolo del costo necessario a sradicare la povertà grave, che è il titolo del rapporto stesso. Io dicevo che l’economia mondiale oggi produce ogni anno circa venticinquemila miliardi di dollari in servizi, in beni, etc. Secondo questi studiosi dell’ ONU basterebbero quaranta miliardi di dollari all’anno  per i prossimi 10 anni, per fornire i servizi di base a tutti i paesi in via di sviluppo. La cifra corrisponde a meno dello 0,2% del reddito mondiale. E come percentuale è la metà di quanto gli Stati Uniti trasferirono in Europa con il piano Marshall. Quando gli Stati Uniti  diedero a fondo perduto una serie di capitali per ricostruire l’Europa distrutta dalla guerra, anche per impedire che cadesse in mano al sistema concorrente, trasferirono come proporzione del loro prodotto interno lordo, una percentuale superiore a quella che servirebbe. Io non so se questo calcolo più o meno fantasmagorico è esatto. Quello che voglio sottolineare è il tipo di messaggio che intende dare l’ONU: la lotta contro la povertà è possibile, è concretamente conseguibile. Qui si parla delle necessità di base, in fatto di alimentazione, di salute, di accesso all’acqua potabile, di istruzione di base e di abitazione ragionevole, a seconda del clima in cui uno si trova a vivere. Vorrei sottolineare soltanto due aspetti, che mi sembrano particolarmente importanti. Anzitutto i progressi fatti in materia di alfabetizzazione: gli sforzi concentrati per l’ alfabetizzazione sono fra i più redditizi, perché solo l’alfabetizzazione dà le motivazioni per lo sviluppo. Il fatto che oggi su cento bambini e bambine nel mondo l’85%, pare, vada a scuola, è sintomo di un progresso spettacoloso, che ha conseguenze non sempre previste. Per esempio, ciò che affligge sempre gli americani e i paesi del nord Europa è il problema demografico. Gli americani hanno l’abitudine di sostenere che i paesi del terzo mondo sono poveri perché hanno un tasso di natalità altissimo. I paesi del terzo mondo fanno il ragionamento inverso: abbiamo troppi figli perché siamo poveri, e i figli sono l’unica assicurazione per la vecchiaia. Il risultato dell’alfabetizzazione, che si sta già notando, è la riduzione del numero di figli. Perché se una donna va a scuola fino a vent’anni, poi si laurea e arriva a ventotto, evidentemente si saltano già 13 o 14 anni di vita fertile. Io stesso ho diffuso statistiche nel Mediterraneo per mostrare, in base al trend demografico che c’era fino a pochi anni fa, che la sponda sud, tra non molto tempo avrebbe non solo superato, ma ampiamente surclassato come numero di abitanti la sponda nord, la nostra. Questi calcoli si stanno dimostrando sbagliati. La popolazione sulla sponda sud cresce assai meno rapidamente, per effetto dell’alfabetizzazione, soprattutto delle donne. Purtroppo ci sono dei ripensamenti: ricordiamo l’Afghanistan, dove le donne col regime attuale non possono più andare a scuola. L’altro elemento che vorrei sottolineare è quello dell’allungamento della vita media, che nei paesi in via di sviluppo dal 1960 al 1994 è passata da 46 ai 62 anni. Nello stesso periodo da noi si è allungata di 6 anni, anche perché era già ad un livello elevato. Come credo sappiate, l’allungamento della vita media non viene tanto dal fatto che la gente viva più a lungo, ma dalla diminuzione della mortalità infantile. Questo significa che l’arco diventa più completo, quindi il progetto di Dio sulla vita di ogni uomo e di ogni donna si avvicina a quello che è il normale ciclo della vita. L’Italia è uno dei primi posti nel mondo come lunghezza della vita media.

Rimangono enormi compiti da svolgere, e quindi le ombre sono ancora tantissime. Anche perché io ho parlato di medie, e come sapete la media è quella grandezza statistica in base alla quale se uno ha la testa nel forno e i piedi nel freezer in media sta bene. Oppure, nella tematica di oggi, se tre persone hanno, una tre polli da mangiare, e le altre due muoiono di fame, in media ne hanno uno ciascuna. Proprio per evitare queste cose, nel rapporto sullo sviluppo umano si cerca oggi di non fare tante medie di questo tipo, ma calcoli elaborati assai più sofisticati, che tengano conto appunto della vita media, dell’alfabetizzazione, del numero di bambini denutriti o che mangiano a sufficienza, proprio per non avere delle cifre aride che nascondono troppe cose al proprio interno. Avevo promesso che ci sarebbe stato un terzo punto, ma ho già parlato a lungo, quindi lo accenno solo schematicamente. Quando noi parliamo di povertà nel mondo ci rifacciamo alle informazioni che riceviamo. In particolare io mi occupo di carta stampata, un po’ il simbolo della comunicazione, a cui oggi si aggiunge evidentemente la radio e più ancora la televisione. Sono strumenti indispensabili per farci conoscere questi problemi e credo siano cose molto positive. Vorrei solo sottolineare il fatto che sono strumenti deformati. Anzitutto perché l’80% di tutte le informazioni che riceviamo, anche su questo campo, vengono da 5 agenzie, 4 occidentali più la Tass, che ci dicono solo quello che vogliono e nella formulazione che vogliono. Anche i paesi poveri hanno informazioni su sé stessi solo dai paesi del nord. Praticamente, in fatto di notizie, i paesi in via di sviluppo fanno come nell’industria, cioè forniscono le materie prime: i fatti. Ma chi li legge, chi li traduce in notizia e li divulga sono i paesi del nord; e fanno tutto questo con una visione tipicamente nostra. Ciò non toglie che la funzione delle notizie sia indispensabile. Un economista indiano, dice ad esempio che non può esistere una carestia di massa laddove c’è una stampa libera, perché nessun governo resisterebbe a una campagna di stampa che lo accusa il di non saper neanche dare da mangiare ai suoi figli. E dice del suo paese, l’India, che i morti di fame ci sono stati solo durante l’epoca della colonizzazione, e che anche oggi possono esistere solo nei paesi dittatoriali, come la Corea del nord, o dove la stampa è inesistente oppure rigidamente controllata. Quello che succede se noi ascoltiamo i nostri telegiornali o apriamo i nostri giornali credo si veda subito: la parte del leone la fa la politica italiana, seguita dai paesi industrializzati. In Italia si parla poco dell’estero, anche dei paesi ricchi; e dei paesi poveri, poi, se ne parla soltanto se ci sono catastrofi o guerre civili, o terremoti, o un traghetto carico di passeggeri che va a fondo. C’è sempre l’idea dello spettacolare, e soprattutto del pessimistico: quando in un paese di questi scoppia la pace, scompare dai nostri schermi. Pensate all’Angola, all’Africa del sud, al Libano, di cui per anni non c’era telegiornale che non parlasse. Da quando c’è un po’ di pace e questi paesi si ricostruiscono dopo la guerra civile, non se ne parla più. Dico questo perché la nostra attenzione andrebbe tenuta sempre sveglia, anche con stampa diversa: sto pensando per esempio alla stampa ONG, dei gruppi di volontariato, la stampa missionaria, e soprattutto proveniente da gente che sia a contatto con le persone. In questo senso, penso che non dobbiamo fidarci della così detta grande stampa, perché non ci dice come vive la gente di solito. E anche tutte le mie statistiche possono essere interessanti per avere una certa idea, ma non devono mai far dimenticare che dietro ai numeri ci sono le persone; a chi sta morendo di fame, o non ha acqua potabile, o non ha casa, interessa poco sapere che il 98% della popolazione del suo paese sta bene. Fa piacere sapere che, per fortuna, a livello globale sembra che qualcosa migliori, anche se con distanze, pare, sempre maggiori, ma non bisogna mai perdere di vista la persona. E aggiungerei, per concludere, che questo aspetto della lotta alla povertà si può riassumere nel più generale problema dello sviluppo. Credo che ci voglia molta attenzione alla cultura della gente, e al rispetto dei tempi, perché noi europei abbiamo sempre molta fretta e vorremmo subito vedere i risultati. In natura, lo dico spesso, in un battibaleno avvengono solo le catastrofi: terremoti, frane, alluvioni. Ma le cose belle, che crescono, hanno bisogno dei loro tempi. La natura si può aiutare: si può seminare, bisogna innaffiare quotidianamente, ma bisogna dare alle piante anche il tempo di crescere. Il presidente della repubblica Ceca, Havel, in un famoso discorso diceva: “Non si può ingannare una pianta, così come non si inganna la storia; ma se non si può ingannarla, si può almeno cercare di conoscerla”. La storia poi è più grande di noi e non sempre ne agevoliamo il corso positivo, ma credo che su drammi umani così grossi ciascuno di noi abbia un impegno da svolgere. Abbiamo poche forze, ma se le mettiamo insieme, non è poco quello che si riesce a fare. E anche davanti alle tragedie della povertà, che esistono tuttora nel nostro mondo, possiamo fare qualcosa che perlomeno ha il colore della speranza.

Domanda:

Sono molto grato a Padre Salvini per la lezione che ci ha dato. Ha tracciato un quadro di insieme, ragionato, preciso, appassionato. Questo è il modo serio di affrontare i problemi. Noi ci sentiamo in particolare sintonia con questo metodo e con questa sensibilità. Avete sentito quali sono le potenzialità straordinarie che la civiltà e la tecnologia del nostro tempo offrono, quali sono stati i progressi compiuti negli ultimi 50 anni. Ma avete anche dinanzi agli occhi il quadro di ciò che rimane da fare, i compiti enormi affidati alla nostra responsabilità e alla nostra iniziativa. Io darei subito la parola ad Agostino perché siamo già avanti nell’ora.

Intervento:

A padre Salvini il mio ringraziamento va per i messaggi che divulga. I messaggi funzionano quando sono veri ma soprattutto quando sono diffusi, anche per dare voce a chi non ha voce, per dirla con padre Albanese. Ho predisposto due documenti che sono in distribuzione: uno è la sintesi di quello che tenterò di dire stasera, l’altro è composto da alcune pagine scritte dall’onorevole Pedini, che è stato parlamentare europeo e sottosegretario agli esteri. Il 23 maggio ci sarà  un convegno importante nella nostra città, con la presenza di notevoli relatori; tutti sono invitati. Vi chiederei di leggere o di rileggere quanto è scritto sul retro di questo volantino, con l’appello per la raccolta delle firme. Il tentativo che posso fare con la vostra pazienza è quello di indicare un progetto di soluzione per i problemi che ancora una volta Padre Salvini ci ha indicato stasera: il divario crescente, per certi aspetti, tra  nord e  sud del mondo, la forbice che si allarga tra ricchi e poveri.

Allora, cosa fare?

La solidarietà di tutti è la prima cosa che viene in mente; la cooperazione internazionale, se fosse fatta con più risorse e con più impegno, potrebbe dare qualche frutto in più; è certamente importante anche l’accoglienza di quelli  che arrivano da noi: non sono persone che viaggiano per turismo, arrivano qui quasi sempre perché a casa loro stanno male, al punto tale che scappano via; sono degli sradicati, scappano dal loro paese, dalle loro famiglie perché sono costretti. Ci sono milioni di persone che si svegliano la mattina e non sanno se vivranno sino a sera. Questo li spinge a migrare; e dove vanno? Dove si sta meglio, in occidente. Noi siamo sempre stati un paese che li vedeva transitare; adesso si fermano qui. L’Italia è sempre stata caratterizzata dalla migrazione verso l’esterno: cinquanta milioni di italiani, in un secolo, se ne sono andati all’estero. Adesso vediamo dei migranti che arrivano da noi, e magari ci meravigliamo che questo avvenga. E’ un fenomeno del tutto naturale e tutto ciò che dobbiamo fare è essere disponibili ad accoglierli, magari con leggi diverse dall’ultima uscita, che mi sembra voglia soprattutto salvaguardare le posizioni di coloro che stanno mediamente meglio di quelli che arrivano, più che preoccuparsi veramente degli immigrati. Dovremmo riuscire a considerarci tutti quanti fratelli, non tanto per riempirci la bocca di questa bella parola, ma perché è così, perché loro hanno più bisogno di noi, perché loro sono più poveri di noi. Il povero non va trattato come un essere inferiore, non va nemmeno servito. Occorre interagire con il più povero, portarlo alla nostra dimensione; l’accoglienza non deve essere di un livello differenziato. Potrà sembrare utopistico, ma potremmo cominciare a immaginare un accordo politico; secondo me è necessario cominciare dalla politica, perché, quando è fatta bene, la politica è la dimensione giusta per risolvere i grandi problemi. Penso ad un accordo politico che veda in prospettiva la realizzazione di una unione tra paesi europei e paesi africani, sulla falsa riga di ciò che si sta realizzando tra gli stati europei. Oggi diamo per scontato che l’unione europea sia un fatto relativamente facile da realizzare, perché siamo ormai vicini al completamento di questo progetto. Ma, tanto per dare una dimensione all’enunciazione che ho fatto un attimo fa, che potrebbe sembrare talmente grande e utopistica da non reggere, pensiamo alle difficoltà che ci sono state negli anni 50, quando si firmò il primo trattato di Roma per l’unificazione europea. Erano gli anni immediatamente seguenti la seconda guerra mondiale, e i paesi che si riunivano avevano combattuto fra loro e si erano odiati a morte per anni. C’erano cinquanta milioni di morti e altrettanti feriti permanenti a testimoniare le barbarie di un conflitto che aveva sconvolto soprattutto l’Europa. Nonostante questo, alcuni cervelli illuminati, fra i quali Adenauer, Schuman, Monet, De Gasperi, portarono i popoli di cui avevano la responsabilità a firmare un trattato che aveva, come ha tuttora, una base unica, solida, assoluta: la pace. Certamente il trattato dell’unificazione europea ha  finalità che mirano allo sviluppo dell’economia e dei commerci, all’integrazione dei settori, all’abolizione delle frontiere; ma, di fatto, l’aspetto fondamentale è la pace, bene supremo, assoluto, e premessa unica per ogni realistico progresso e sistema di sviluppo. Bisogna tentare di trasferire in Africa queste premesse, perché l’Africa è il continente più disastrato del mondo. In Africa noi popoli europei siamo stati colonizzatori; abbiamo quindi grandi responsabilità,  e  non da molti anni l’abbiamo lasciata. L’Africa è vicina, pochi chilometri di mare; c’è una cultura, soprattutto nel bacino del Mediterraneo, antica, che vede la sponda sud legata alla sponda nord. Cinquanta anni fa, quando si pensò all’unione europea, a mio avviso  c’era più distanza tra un danese, uno svedese  e un italiano o un greco, o uno spagnolo, o un portoghese, che non oggi tra un cittadino europeo e un cittadino del centro Africa, visto che in questi decenni molti africani sono arrivati in Europa, e non solo perché disperati o in fuga. Sono arrivati nelle università occidentali, si sono laureati, stanno studiando qui con noi. Molti si sono stabiliti qui, portando le prime briciole della loro cultura, ed ora stanno diventando una comunità consistente. Molti europei sono andati in Africa, non più da colonizzatori. Spesso, è vero, ci sono andati col criterio del mordi e fuggi, per prendere ciò che potevano e poi andarsene. Ma alcuni ci sono andati per fermarsi, e per portare aiuto. I mezzi di comunicazione, non solo gli aeroplani, le automobili, le navi, ma anche il telefono, il fax, il satellite, la televisione, la radio, hanno avvicinato le distanze. Questo pianeta sta diventando un villaggio globale, sempre più piccolo, e le distanze si sono annullate. Voglio dire di più,  perché non sembri solo un discorso di solidarietà, pure importante, necessario e doveroso. L’interesse: questa è l’altra molla che va considerata. Noi siamo qui a pensare alle nostre miserie,  tante volte facciamo fatica a respirare l’aria che abbiamo, con le nostre centraline che spesso impazziscono per il biossido di azoto. Ci sono spazi immensi che avrebbero bisogno della nostra presenza costruttiva; non una presenza colonizzatrice, ma una presenza autentica. Nel contempo, un trasferimento meglio organizzato,  da parte di popolazioni  africane qui da noi, potrebbe essere un utile rinsanguamento di questa nostra società che sembra sprofondare sempre di più in una dimensione di inedia culturale.  Un percorso come questo, che magari vedranno i nostri figli, i nostri nipoti, va immaginato in anticipo. Perché a 50 anni di distanza, l’unione europea non l’abbiamo ancora realizzata; e un’unione europea-africana bisogna cominciare ad immaginarla adesso per vederla maturare fra qualche decennio, perché per fare maturare una unione di stati e di popoli con la pace soltanto, è necessario un lavoro di continua mediazione, persuasione, propaganda. Conosco le obiezioni ad un progetto del genere; sulla sponda sud, ci sono regimi pseudo dittatoriali, nazioni dove sembra trionfare quello che viene chiamato integralismo islamico, così lontano dalla nostra cultura. Cosa fare? Abbiamo visto dei regimi anche molto più forti, più coalizzati,  più armati, sgonfiarsi dalla sera alla mattina. Il crollo del muro di Berlino, non è stato conseguenza di una guerra;  eppure ad un certo punto il sistema che rappresentava uno dei due grandi blocchi,  è crollato su se stesso. Ma dietro questo crollo, se proviamo  a ricordare, c’è stata tutta una serie di situazioni, di propaganda, di presa di coscienza. E allora cominciamo a mettere  satelliti che trasmettano programmi in lingua, cosicchè  possa cominciare un’azione di propaganda. Se l’Europa ritiene che vada a suo vantaggio per mille e una considerazione, anche economica, purché  inteso in maniera equa e solidale, cominciamo a tentare con l’Africa un’azione di penetrazione finalizzata a questo scopo. Ci saranno anche i tiranni, ci saranno anche coloro che invece di aiutare il loro popolo sono i primi nemici dello Stato. Ma può anche darsi che qualcuno si convinca, e da persona ragionevole cambi idea. Con qualche paese dell’Africa, abbiamo già accordi commerciali molto avanzati. E poi c’è, a livello istituzionale, quell’assemblea ACPCEE, ed ecco il motivo per il quale vi ho lasciato delle pagine scritte su questo argomento, che è un fatto istituzionale importante. ACP sta per Africa, Carabi, Pacifico. In questa assemblea sono rappresentati 71 paesi tra i più poveri del mondo, quasi tutti africani. A livello di capi di Stato l’assemblea è paritetica: ci sono 70 parlamentari europei, espressi dal parlamento europeo, e 70 capi di Stato. E’ un’assemblea che si riunisce già da parecchi anni, 2 volte all’anno; ha 2 co-presidenti, uno europeo e uno africano, e ha sempre più poteri. Fino a qualche anno fa era un’associazione, adesso è diventata assemblea. Gestisce i fondi della convenzione di Lomè. Ma sempre più si vede attribuiti  poteri che, se non sono ancora quelli di un parlamento,  basterebbe poco per dare una struttura parlamentare sul tipo del parlamento europeo prima del 1979, cioè prima che diventasse a suffragio universale. Con un percorso di questo tipo davanti, l’importante è pensare oggi ad una operazione che possa, evitando gli errori commessi nel tracciare il percorso dell’unione europea, fare la sua strada. E basando tutto questo disegno sulla pace, perché la pace è il mezzo attraverso cui si può costruire un autentico sviluppo. Quando leggiamo sulle cronache che ci sono state in un  paese piuttosto che in un altro dell’Africa, centomila o cinquecentomila persone che sono morte di fame, o che non si sa dove siano finite, è vero, in qualche caso, che può essere stata una carestia provocata da annate particolarmente non piovose, o da fenomeni naturali di altro tipo. Ma in genere, le popolazioni locali, questi fenomeni li prevedono, sanno adattarsi. La verità è che la gente muore di fame quando non è riuscita a seminare, quando c’è stata la guerra che ha impedito la semina; e se non si semina non si raccoglie. O magari la guerra è intervenuta mentre il raccolto diventava maturo e non si è potuto mietere, perché la gente è dovuta scappare via. Gli eserciti, quando passano, distruggono. Anche da noi la guerra ha distrutto, ma con la forza del progresso dietro le spalle, in un paio di decenni abbiamo ricostruito. Laddove non c’è sviluppo, la guerra distrugge allo stesso modo, ma non c’è poi la possibilità di ripartire. Ecco perché la pace è fondamentale. Infine, vorrei dire un paio di cose. Gli interventi gestiti per far sì che questi paesi dell’Africa, possano realizzare tra di loro le premesse di una unificazione per unirsi con noi, e cioè i soldi che spendiamo per la cooperazione, secondo me, potrebbero essere meglio spesi per far sì che ciò avvenga tra paese e paese africano. Se ci sono cento tonnellate di caffè da vendere, e si mettono insieme 2 paesi africani che vendono caffè, fanno 200 tonnellate; e forse nei confronti delle multinazionali, hanno un po’ più di forza, rispetto a quando si presentano come singoli. Le multinazionali in genere operano con un potere sul mercato, che spesso e volentieri è superiore al potere di un singolo stato. Noi, come occidente, se volessimo credere in un progetto di unificazione, dovremmo incentivare il fatto che gli stati africani si uniscano. Invece, oggi succede che spesso e volentieri, con il retaggio e con il ricordo della nostra politica coloniale, tentiamo di dividerli. La politica dell’Occidente cerca di condurre l’uno contro l’altro i paesi africani, facendo in modo che si odino e si combattano. Questa logica è stata attribuita ai romani, ma è vecchia da sempre: dividere e comandare. Non sappiamo, noi occidentali, fino a quando questo atteggiamento potrà continuare, fino a quando ci potrà essere questa possibilità di prevaricare gli altri e di  consumare l’80% delle risorse del pianeta, noi che rappresentiamo il 20% della popolazione mondiale. Ecco allora il progetto di tracciare un percorso simile a quello che siamo riusciti a fare in Europa. Ognuno di noi, come singolo, può dare il suo contributo. Siamo in una sede dove c’è da un tempo un bel gruppo di scout, e se ricordo bene i lupetti hanno questo motto: la forza del lupo sta nel branco e la forza del branco sta in ogni singolo lupo. Significa che se vogliamo paragonare il branco alla nazione, al nostro paese, all’intera popolazione, ogni singolo aggiungendo qualcosa può rafforzare l’idea del branco, l’idea del gruppo. E se questa può essere un’idea, non essendocene una migliore, portiamola avanti, nella speranza che possa servire. Del resto, come diceva padre Salvini nel chiudere il suo intervento, il nostro obbligo è di dare speranza.

NOTA: Testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 18.3.1998 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.