Popper, un’alternativa al fanatismo

Solo da pochi lustri circola in Italia il pensiero epistemologico di Karl Raimund Popper. Nato a Vienna nel 1902, il suo nome divenne celebre quando pubblicò la sua prima grande opera, Logica della ricerca scientifica, nel 1935. Due anni dopo, essendo d’origine ebraica, Popper emigrò in Nuova Zelanda, e qui, come “fatica di guerra” scrisse i due volumi di filosofia politica La miseria dello storicismo e La società aperta e i suoi nemici. Nel 1946 Popper si trasferì in Inghilterra e da allora il suo fecondo lavoro di filosofo della scienza è attestato da opere singolari e perspicaci, quali Congetture e confutazioni del 1963, Conoscenza oggettiva del 1972, Il profilo autobiografico, La ricerca non ha fine e Repliche ai miei critici del 1974, e nel 1977, in collaborazione con J.C. Eclles, L’io e il suo cervello. Qui si vogliono evidenziare alcune linee del pensiero politico di Popper, perché questo aspetto è ancor oggi poco conosciuto, nonostante che molte delle argomentazioni addotte in difesa della democrazia siano strettamente legate alle sue riflessioni sulla scienza. In altre nazioni si è sviluppato un vasto dibattito sul pensiero politico popperiano; nel nostro Paese il momento di maggior attenzione al Popper politico è stato il seminario di Assisi e il bel volume, La sfida di Popper, che ne raccoglie le relazioni, pubblicato dall’editore Armando. Tuttavia è difficile sottrarsi all’impressione che soprattutto il Popper filosofo della politica sia da noi vittima di una oggettiva congiura del silenzio, non importa se intenzionale o no, e per ragioni non difficili da individuare: i pensatori critici seri mettono a disagio perché rompono troppi schemi mentali e troppi idoli; gran parte della cultura universitaria è passata da uno storicismo all’altro e da una dialettica all’altra, ma ben pochi sono quelli che si sono affrancati dalla soggezione alla filosofia tedesca dell’Ottocento egemonizzata da Hegel e Marx; infine, e bisogna dirlo a chiare lettere, funzione in Italia una specie di autocensura quando si devono mettere in discussione lo storicismo e il marxismo.

L’impostazione popperiana del problema politico ci fa toccare con mano come avesse colto nel segno il grande fisico Niels Bohr quando scriveva che il conflitto fondamentale del nostro tempo – quello che oppone il totalitarismo comunista alla democrazia pluralistica – ha una matrice epistemologica. È il conflitto fra due incompatibili concezioni della verità: la verità come disvelamento del senso della storia e la verità come congettura falsificabile. La storia, l’economia, il divenire sociale, le relazioni tra le diverse attività dell’uomo sono realtà altamente complesse; eppure c’è chi crede di averne afferrato e formulato le leggi nella loro “bronzea necessità” e inconfutabilità. Popper obietta semplicemente che noi tutti, come individui e come umanità, “siamo ricercatori di verità ma non siamo i suoi possessori” e ci invita a concepire la scienza come “una costruzione su palafitte” sempre fallibile, sempre precaria e che tuttavia realmente progredisce per approssimazioni successive alla verità oggettiva. Di qui l’affinità elettiva profonda tra la concezione fallibilistica della scienza e le democrazia. Nella scienza la soluzione necessita di creatività, di ipotesi nuove da sottoporre a critica; nella democrazia occorrono di continuo soluzioni alternative da vagliare e da scartare se non portano ai risultati desiderati. Nella scienza non è importante da dove venga fuori una teoria, ma che questa teoria sia controllabile; nella democrazia, quel che conta non è chi deve governare, ma come e con quali strumenti istituzionali perché sia reso sempre più efficace il controllo da parte dei cittadini. Possono ben mutare maggioranze e minoranze, ogni legge può venir proposta o abrogata o perfezionata e possono mutare alleanze e programmi; ma il mutamento sarà democratico solo a patto che vi siano rispettate le regole della democrazia. Senza istituzioni democratiche non vi è democrazia. “ Se la comprensione dei principi della democrazia non è ancora sufficientemente sviluppata, bisogna promuoverla”, ammonisce Popper. E bisogna promuoverla per la ragione che “ la linea politica opposta può riuscire fatale: essa può comportare la perdita della battaglia più importante, che è la battaglia per la stessa democrazia.”

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L’affinità tra scienza e democrazia può essere dimostrata, esaminando la dèbàcle delle epistemologie assolutistiche sul piano scientifico e sul piano storico. L’indicazione che ci viene dalla scienza è, al contrario, l’umiltà socratica, l’umiltà di chi è consapevole che la ricerca non ha mai fine, ma l’esatto opposto, l’antitesi più rigorosa di tale indicazione è la gnòsis, che caratterizza nettamente le teorie di Hegel, di Marx, di Comte. La gnosi è per sua natura holistica, storicistica, utopistico-messianica. La gnosi è holista (dall’inglese wohle e dal greco olon, l’intero, il tutto) perché ha la pretesa di possedere una dottrina del sapere assoluto e di disporre del segreto stesso della storia, conoscendo la totalità degli aspetti del processo storico e specialmente dei rapporti esistenti tra le parti. La scienza, invece, sceglie per la ricerca solo certi aspetti di un problema e possibilmente quelli che meglio riescano a far emergere una qualche struttura organizzata; ma essa nega nel modo più radicale l’idea stessa, che ai suoi occhi è pura fantasticheria, che il cosiddetto “intero” possa mai diventare l’oggetto di un’indagine scientifica. “Noi – scrivono Marx ed Engels nell’Ideologia Tedesca – conosciamo solo un’unica scienza: la scienza della storia.” Come meravigliarsi che gli gnostici di quell’intero che è la storia siano inebriati dalla loro certezza, la sola a rilevare il senso degli eventi, la concatenazione e la ineluttabilità dei passaggi dialettici che si succedono inesorabilmente gli uni agli altri, la struttura di base matrice di ogni attività umana? Ed ecco allora il prepotente impulso della gnosi a farsi utopia messianismo terrestre. La conoscenza delle leggi immanenti al farsi dialettico della storia diventano profezie non condizionali, certezze oracolari. Di qui la psicologia tipica del portatore di miti: il senso di sicurezza e di superiorità che deriva dalla consapevolezza privilegiata – propria di coloro che Gramsci designa in Sotto la mole come i “dominatori che nella fatica quotidiana preparano il dominio del mondo”- di avere in tasca la chiave di tutto ciò che avviene, il sentimento edificante di essere legati a un processo assoluto, “la gioiosa aggressione contro chi la pensa diversamente e che non può quindi che esprimere stupidaggini o tesi al servizio del nemico di classe”(W. Theimer). Per chi si è insediato nella gnosi esiste infatti un’asimmetria, che Marx per primo aveva enfatizzato in maniera drastica, fra la sua dottrina e le altre: quella è “scientifica” e conferisce la “giusta coscienza” che libera dalla duplice alienazione religiosa e borghese; queste ultime sono invece mere ideologie, tipici prodotti della “falsa coscienza”.

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Allora chi accetta la gnosi è per decreto immunizzato da ogni critica capace di investire non punti periferici ma questioni essenziali del sistema. Emanuele Samek Lodovici, amico fraterno, scomparso troppo presto, scriveva in quel suo memorabile libro Metamorfosi della gnosi (Ed. Ares, Milano): “Chi è illuminato non ascolta più perché ha già visto”. E le cose stanno così innanzitutto per i massimi leaders del marxismo: Lenin dichiara il marxismo “la dottrina onnipotente”(Opere scelte, Editori Riuniti, 1970, p.475) e il nostro Gramsci “un metodo infallibile” (La costruzione del Partito Comunista, Einaudi, 1971, p.13). Il Partito (la maiuscola è di Gramsci) e l’edificazione dello Stato socialista diventano allora gli strumenti della renovatio mundi.
Nella società chiusa del totalitarismo comunista, il Partito s’è fatto Stato e pertanto deve “tutto correggere, designare e costruire in base a un criterio unico” (Lenin, Opere complete, Editori Riuniti, vol.30°, pag.351). Né le cose vanno diversamente per il Lenin italiano, Gramsci. È ben lui che ha scritto: “Il moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità e dell’imperativo categorico”. (Quaderni dal carcere, Einaudi, 1975, p.1561). E il moderno Principe è il Partito.
In un’intervista rilasciata nel 1971 Popper sintetizzò felicemente le tesi di fondo delle sue riflessioni di filosofia politica. “In tutti gli ordinamenti sociali di cui abbiamo conoscenza – egli affermò – sono esistite ingiustizie e oppressioni, povertà e miseria; anche gli ordinamenti delle nostre società democratiche occidentali non costituiscono un’eccezione. Ma le nostre società combattono questi mali e io credo che in esse vi siano meno ingiustizie ed oppressione, povertà e miseria che in qualsiasi altro tipo di società di cui ci sia nota l’esistenza. Gli ordinamenti delle nostre società democratiche occidentali sono assai imperfetti e abbisognano di correzioni, ma sono i migliori che siano esistiti fino ad oggi. Di ulteriori miglioramenti vi è urgente bisogno. Tra tutte le idee politiche il desiderio di rendere gli uomini perfetti e felici è forse la più pericolosa. Il tentativo di realizzare il paradiso sulla terra ha sempre prodotto l’inferno”.
E poi aggiunge: “Io credo nella ragione. Non che gli uomini siano sempre ragionevoli; anzi, lo sono di rado. Non credo nella violenza della ragione. Credo piuttosto che noi abbiamo la scelta fra ragione e violenza, che la ragione sia l’unica alternativa all’uso della violenza e che sia delittuoso un impegno della violenza evitabile”. La società deve cambiare ed esistono ovviamente gradi diversi di apertura in una società e di possibilità operative per l’intreccio di molteplici fattori: i precedenti storici, la tradizione, le istituzioni politiche, metodi di educazione, la disponibilità di risorse; e infine gli uomini che conferiscono alle istituzioni il loro contenuto vitale. È troppo facile per i nostalgici dei “sistemi oracolari” insinuare che Popper vuole in fin dei conti “conservare il vecchio macinino, introducendo qualche innovazione qua e la”. (Edward H. Carr) e “attuare solo quelle riforme che possono essere compiute senza mettere in pericolo gl’interessi della classe dominante” (Maurice Cornforth). Tutt’altro. L’ingegneria sociale popperiana esclude tanto la idealizzazione del passato e del presente quanto la fuga in avanti nella nebbia fitta della profezia utopistico-messianica.

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Popper ha finalmente tolto dall’indice delle parole proibite, solo perché irrise dal marxismo, il termine riformismo. Riformismo non significa affatto l’interesse per i problemi più gravi e urgenti, senza i veleni della demagogia irresponsabile e ingannatrice, senza i miti della felicità e della perfezione su questa terra realizzata grazie allo Stato totalitario.
Alla domanda: e allora che cosa fare? Popper risponde con la consueta lucidità e con un malcelato pathos. Egli infatti sembra rivolgersi in primo luogo a coloro che da quella domanda sono assillati, i giovani, ai quali va riproposta la scelta di fondo, senza infingimenti e mimetismi, fra democrazia e totalitarismo, fra società aperta e società chiusa. “Agisci per l’eliminazione dei mali concreti – scrive Popper – piuttosto che per realizzare dei beni astratti. Non mirare a realizzare la felicità con mezzi politici. Tendi piuttosto ad eliminare le miserie concrete. Fa tutto quello che puoi per l’eliminazione della miseria. Combatti l’ignoranza al pari della criminalità. Ma fa tutto ciò con mezzi diretti. Individua il male più urgente della società in cui vivi e cerca pazientemente di convincere la gente che è possibile eliminarlo. Ma non cercare di realizzare questi obiettivi per via indiretta, concependo e cercando di attuare un ideale remoto di società in tutto e per tutto valido. Non permettere che i sogni di un mondo perfetto ti distolgano dal servire gli uomini che soffrono qui ed ora”. La scelta è tra un metodo ragionevole di migliorare la sorte dell’uomo e un metodo che, se realmente attuato, porta a un’intollerabile accrescimento della sofferenza umana. La libertà è il fine da non mettere mai in discussione. Essa è innanzitutto un valore. E si può perdere.

Giornale di Brescia, 30.3.1984. Articolo scritto in occasione dell’incontro con Marcello Pera su “La sfida di Popper ai nemici della società aperta”.