Presentazione del film “Il villaggio di cartone”

Autori: Olmi Ermanno
Tematiche: Testimoni

Dialogo con Ermanno Olmi.

Intervengono:
Adolfo Conti, documentarista, Jacopo Barigazzi, capo-redattore del quotidiano on-line www.linkiesta.it e Gregorio Gitti, amico del regista.

Olmi: Credo che la terra della Serenissima, che da Venezia andava fino all’Adda, sia stata una terra di accoglienza, dove andavano tutti coloro che ritenevano di potersi realizzare in un determinato contesto, considerando la Repubblica di Venezia un luogo ideale. Nel 1500 Venezia era infatti la capitale del mondo. In questa terra, tutti coloro che contribuivano attraverso il loro lavoro alla sua crescita, erano accolti come fratelli e avevano la possibilità di raggiungere le alte vette delle responsabilità istituzionali. Considero queste terre un esempio altissimo di come l’umanità dovrebbe coltivare le premesse di una civiltà, senza la quale la convivenza sarebbe una tragedia. L’accoglienza non è soltanto un atto di generosità verso chi ha bisogno di trovare un luogo dove potersi realizzare. L’accoglienza è anche una questione di convenienza. Verona è l’esempio di un crocevia culturale ed economico in cui i mercanti portavano non soltanto la merce da vendere, ma anche la loro cultura. Cosa c’è di meglio per una cultura che arricchirsi della conoscenza di quella dell’altro?
Ho voluto fare questo film non per realizzare semplicemente un’opera cinematografica, ma ho voluto usare il cinema per raccontare un apologo, cioè una storia non realistica, volutamente denunciata come rappresentazione dell’apologo. La drammaturgia che la televisione offre ogni giorno, non si realizza attraverso le fiction, ma attraverso l’eccezionalità della cronaca. Ciò che accade nel mondo è una drammaturgia non paragonabile a nessun’altra. Cosa può fare oggi un artigiano che vuole rappresentare la realtà? Non può far altro che rivolgersi all’apologo. Esso serve a capire le ragioni per cui i conflitti avvengono. Le parabole di Cristo erano delle storie nelle quali, alludendo alla realtà quotidiana conosciuta da tutti, l’apologo diventava un esempio di vita da cui trarre delle conclusioni come insegnamento.

Conti: Gli ultimi decenni della nostra storia sono stati caratterizzati da tempi lenti ed avvenimenti improvvisi che hanno portato dei cambiamenti, i cui effetti saranno visibili soltanto a lungo termine. Nel suo film si vuole raccontare l’evoluzione della nostra società. Come sta cambiando la società italiana?

Se osserviamo ciò che accade intorno a noi in questo momento, troviamo moltissimi motivi per inquietarci. Non siamo più sull’orlo della catastrofe: ne siamo dentro, anche se ce lo tengono nascosto. Non possiamo ancora razionalizzare quello che accadrà tra poco, né inquadrarlo nella sua reale entità di crisi. Questo non ci deve affatto impaurire, ci può solo inquietare, in quanto non abbiamo ancora un progetto per quando saremo guariti. In questa crisi, infatti, c’è una sorta di malattia, che noi abbiamo “accumulato” in questi anni attraverso scelte che consideravamo buone, ma che in realtà non hanno soddisfatto le nostre aspettative. In questo momento non dobbiamo accelerare i tempi, ma rallentare addirittura le nostre pulsazioni e i nostri bioritmi, per renderci conto di cosa sta accadendo, del perché sta accadendo e di cosa potremo fare quando la fase acuta del male volgerà alla guarigione. Senza un cambiamento del modello di vita, senza un modello di riscatto, allora la fase critica, quella del dolore, diventa una tragedia. Se invece qualcuno dice a noi, malati gravi, di tener duro, di aver fede e di mettere in atto un nuovo modello di vita, con la promessa della guarigione, non solo troveremo l’esito non tragico della malattia, ma troveremo anche le ragioni per ricominciare con un nuovo entusiasmo, perché abbiamo capito la lezione e vogliamo che il mondo non sia più quello di prima. I giovani di oggi rifiutano questa realtà che non consente loro di proiettarsi nel futuro con un proprio disegno di vita. Nelle grandi capitali degli Stati avanzati è evidente un disagio che i giovani esprimono con rabbia.
Voi giovani dovete diventare protagonisti del nuovo progetto di vita. Noi adulti non siamo più in grado di compiere questo salto in avanti con la mente e con il cuore. Prepariamoci al momento in cui il fiume potrà riprendere un corso vivace, adesso lasciamo che si allarghi nelle sponde e che crei delle zone in cui l’acqua sembra ferma. Rallentiamo i nostri tempi, diamo ad essi lo spazio per pensare.
Gitti: In questo libro, che racconta con immagini e parole il tuo film, hai scritto “Sono arrivato ai miei ottant’anni, non penso più alla durata, ma all’intensità.” Cosa trovi in questa intensità e qual è il rischio estremo che pensi di poter coltivare?

Fellini, quando ricevette la visita di Enzo Biagi in clinica, gli sussurrò nell’orecchio: “Ah, potessi innamorarmi ancora una volta!”. È chiaro che, a ottant’anni, l’innamoramento non è mai soltanto “lui per lei” o “lei per lui”, ma può anche essere quello che ci lega ad un motivo musicale, ad una pagina letta o a situazioni in cui ci troviamo così bene da farci sentire innamorati di quell’istante. Quell’istante diventa poi un ricordo che ti ringiovanisce. Tra i vostri sentimenti, ragazzi, e quelli di un ottantenne non c’è alcuna differenza. L’unica diversità sta nell’oggetto dell’innamoramento. Io ho avuto la fortuna di avere una vita matrimoniale felice, nonostante abbia avuto con mia moglie dei grandi battibecchi. Tuttavia questi litigi erano parte del nostro amore e per questo motivo effimeri. Pur ripetendo sempre gli stessi gesti, il sentimento che li muove è ogni volta nuovo, vivo. A ottant’anni si scopre che sono moltissimi i motivi per innamorarsi. Per voi giovani, come è giusto che sia, il primo fra tutti è l’amore tra di voi, il guardarvi e il sentire che vi piacete, che insieme volete fare le scoperte belle, gioiose e intense della vita.
La mia nonna materna, di origini contadine, era di Treviglio. Ricordo che, dopo che ebbe avuto dodici figli, numero non insolito all’epoca, mi raccontava storie e mi cantava delle canzoncine dove l’amplesso amoroso diventava la sublimazione del sentimento. L’unione sessuale, se non c’è dietro un’idea di sentimento, diventa una sorta di ginnastica più o meno ritmica, che non lascia nulla. Non abbiate paura di vivere il sesso, di praticarlo, ma fatelo con amore. Basta poco e sarà bellissimo.

Barigazzi: Uno dei temi principali di questo film è il dubbio. Il dubbio nella nostra società è sempre stato un elemento caratterizzante del pensiero scientifico; qui, però, è analizzato all’interno di un contesto religioso. Perché proprio la scelta del dubbio? Da dove viene e dove ci porterà?

Il dubbio, nella costituzione ideologica di un cattolicesimo rigido, non è ammesso per chi ha fede. Ma che cos’è la fede se non il risultato di aver affrontato il dubbio? Senza di esso la fede non ha alcun senso. Non è un’iscrizione a un partito, per il quale dichiaro di avere fede e per cui mi viene consegnata una tessera, lasciando poi spazio all’ipocrisia della persona. Prima parlavo del sentimento di amore che provo per mia moglie. Guardando al passato posso vedere quante volte ho avuto dei dubbi su questo amore. Eppure non si trattava di una fede trascendente: l’oggetto del mio amore stava lì davanti ai miei occhi. Cosa c’è infatti di più immanente di una coppia? Qual è stata l’espressione di questa una reciproca fede se non superare quotidianamente il dubbio? Durante la notte spesso mi sveglio e colgo sempre una o due ore per riflettere riguardo allo svolgimento della scena di un film o allo sviluppo della sceneggiatura. Quante volte, svegliandomi, guardo il volto di mia moglie nel sonno. Il sonno è una sorta di morte, nel senso che non si ha coscienza di sé. L’espressione del volto quindi cambia completamente, un po’ come l’espressione della morte. Quante volte nel silenzio della notte mi chiedo: “Ho davvero voluto bene a questa persona? Se mi dovesse mancare mi toglierei un peso o proverei quel senso di vuoto e solitudine che solo l’amore che viene profanato dalla distanza tra chi è vivo e chi morto può dare?”
Quando mi sono sposato mia moglie aveva diciotto anni, io trentuno. La mattina in cui mi stavo preparando per andare a celebrare le nozze, mi sono guardato nello specchio e mi sono detto che questo sarebbe stato il mio ultimo giorno da uomo “libero”. Se in questo momento mi avessero detto: “Se noi ti diciamo che tutto ciò che tu hai creduto di vivere come un sentimento di amore per Loredana non è esistito, che è stato tutto un sogno e che quindi Loredana adesso non c’è più, saresti contento?” Dissi: “No, voglio che questo sogno continui”. E mi sono sposato.
Conti: In una scena del film il prete protagonista dice: “Non c’è bisogno della fede per fare del bene”. Quali sono le sue riflessioni in merito al rapporto fede-bene?

Questa frase non è stata gradita da quel cattolicesimo un po’ regimentato. Considero Cristo, con totale libertà di giudizio, una delle testimonianze di umanità più alte della storia del mondo. Indro Montanelli, che non era nemmeno uomo di fede in quanto non credente, disse: “La rivoluzione cristiana è l’unica vera rivoluzione portata a termine dall’umanità.” Tutte le altre rivoluzioni, quella francese, quella russa, ecc. non sono niente paragonate a quella cristiana, perché quest’ultima ha introdotto nell’uomo il concetto di bene e di male. Quindi l’uomo che si auto-giudica, si inganna se pensa di poter risolvere la cosa assolvendosi; egli si deve assumere la responsabilità dei propri comportamenti.
Analizzando la frase del prete possiamo notare una parte propositiva: “Ho fatto il prete perché volevo fare del bene, ma per fare del bene non c’è bisogno della fede”. Perché dice questo? Si introduce quindi la parte risolutiva: “Perché il bene è più della fede”. La fede riguarda il tuo intimo e il tuo anelito verso la trascendenza. Il bene è qui in mezzo a noi: il bene è guardarci negli occhi e sapere che il tuo comportamento può procurare sollievo o sofferenza agli altri. In nome di quale fede? Di quella che preferite, purché sia il bene.
Gitti: Il nostro presidente della Repubblica, Napolitano, dopo aver visto il tuo film, ha detto: “E’ una follia non dare la cittadinanza a chi vive con noi, a chi lavora con noi e a chi condivide il destino del nostro Paese”. Che cosa chiederesti a coloro che sono venuti nel nostro paese con una grande speranza ma anche con una grande voglia di costruire?

La frase di Napolitano mi ha colpito ma non sorpreso. La sua considerazione è giusta in un momento come questo, in cui emerge in maniera sempre più rude il problema dell’accoglienza. Sappiamo bene come abbiamo sfruttato le terre africane e i loro popoli. Basta prendere un libro di storia degli ultimi secoli per vedere come le società cosiddette avanzate hanno approfittato di questi popoli, che là vivevano pacificamente e secondo un concetto di reciprocità, oggi andata perduta. Se noi, società avanzate, ci poniamo il problema dell’accoglienza, dobbiamo considerare che l’accoglienza è un dovere, così come ci dicono il Papa e tutte le organizzazioni mondiali a difesa dei popoli, soprattutto verso quelli che per secoli abbiamo sfruttato in maniera criminale. Le pagine della storia ormai non tacciono più, non è più possibile nascondere certi comportamenti delle nazioni europee, le quali andavano nelle terre africane portando batteri che i loro corpi non conoscevano e creando tassi di mortalità da genocidi. Adesso questi popoli chiedono non solo un po’ di respiro, ma anche di potersi muovere, Esattamente come noi ci siamo mossi, per arricchirci e aprire nuovi mercati, senza guardare i problemi che il nostro prodotto avrebbe potuto arrecare. Ora invece arricciamo il naso perché essi bussano alla nostra porta. Se non possiamo tirarci indietro per accogliere questi popoli, vogliamo tirarci indietro quando nasce un bambino qui? Chi è disposto ad andare nel luogo dove nasce un bambino negro e dire: “Questo bambino rimandatelo indietro perché non è italiano”. Chi è disposto a fare ciò, quando il Vangelo della nostra religione comune dice: “Quando la madre partorisce è felice, dopo il dolore, perché un nuovo uomo è venuto al mondo.” E noi non lo accogliamo? Non lo riconosciamo? Con le battaglie che dovrete combattere per realizzare i vostri progetti, tenete conto di questo: ogni uomo che viene al mondo è motivo di gioia per tutti. E vi auguro una Brescia piena di bambini: bianchi, neri, gialli, ma bambini.
NOTA: Testo non rivisto dal regista Ermanno Olmi della conversazione tenuta a Brescia il 23.11.2011 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.