Socrate e Nietzsche

Permettetemi di esprimere il mio vivo ringraziamento al Professor Matteo Perrini, alla Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura e all’Assessorato alla Cultura della Provincia di Brescia per l’invito a tenere in questo Auditorium la relazione su Socrate e Nietzsche. Il ricordo del mio maestro Alberto Caracciolo, del mio amico Giovanni Moretto, entrambi legati alla città di Brescia, alle sue associazioni culturali e alle sue case editrici, in particolare alla Morcelliana, il desiderio di incontrare vecchi e nuovi amici mi hanno spinto ad accettare con gioia un invito e una sollecitazione davvero troppo benevoli

Ma veniamo al tema Socrate e Nietzsche, che già una volta ha sollecitato il mio interesse[2]. Da quale punto iniziare il discorso? E’ una nota caratteristica e costante della vicenda spirituale di Nietzsche misurarsi con quei grandi nei quali egli riconosce una parte di sé, in genere quella parte con la quale deve combattere per assolvere il suo compito e per diventare, solo così, se-stesso. I più vicini a Nietzsche, si chiamino Socrate o Gesù o Paolo, sono sempre coloro che, in quanto parte di lui, impersonano di volta in volta i suoi antagonisti e i suoi antipodi.

Il tentativo di restituire l’immagine di Socrate da lui genialmente schizzata non è privo di difficoltà, perché nel corso del tempo – dalla Nascita della tragedia dallo spirito della musica (1872) al Crepuscolo degli idoli (1888) – le linee che compongono il ritratto di Socrate sono in alcuni punti corrette, in altri più profondamente scavate. Nonostante le correzioni apportate al disegno il ruolo decisivo di Socrate, in quanto per ironia egli segna il punto di svolta della storia universale, resta però inalterato, e solo appunto per questo, perché è il culmine della storia, il momento in cui tutto si rovescia, Socrate è al centro dei pensieri di Nietzsche, fino ad essere il suo grande rivale: il più grande, se si eccettua Gesù.

In un breve frammento postumo dell’estate del 1875, raccolto da Karl Schlechta, insieme ad altri appunti coevi, sotto il titolo “Scienza e sapienza in lotta”, Nietzsche lascia trasparire la vicinanza e l’ostilità, l’affinità e l’antagonismo che contraddistinguono il suo rapporto con Socrate: «Socrate – lo confesso – mi è così vicino che quasi sempre sono in lotta con lui»[3]. Delle due affermazioni contenute nel frammento la seconda – la lotta con Socrate – si riferisce all’aspetto più manifesto del rapporto, a una contesa che si svolge sotto gli occhi di ogni lettore di Nietzsche; la prima – la vicinanza a Socrate – all’aspetto più segreto, che può rivelarsi solo al lettore e all’interprete più simpatetico e più recettivo. Mai Nietzsche è così vicino a Socrate come nel pensiero e nella pre-meditazione della morte. Un secondo frammento, che risale anch’esso agli appunti stesi nel 1875 per lo scritto Noi filologi[4], rivela, in modo che più conciso non si potrebbe, perché Nietzsche sia «quasi sempre» in lotta con Socrate: «Socrate rovesciò tutto nel momento in cui ci si era massimamente avvicinati alla verità; ciò è particolarmente ironico»[5]. Quale sia la verità cui Nietzsche allude non è facile dire. Certo essa è in relazione col tragico, è il tragico. In questi frammenti i sintetici cenni di Nietzsche non rinviano però solo all’interpretazione di Socrate e del socratismo svolta nella Nascita della tragedia, ma iniziano anche a rettificarla.

  1. Socrate come «tipo dell’uomo teoretico».

Socrate impersona «il tipo dell’uomo teoretico»[6]: è questa più evidente determinazione che il lettore dell’opera giovanile di Nietzsche coglie immediatamente. In Socrate l’abilità discorsiva e la sottigliezza dialettica tradiscono la natura profondamente anti-musicale, lo spirito che esercita una nefasta influenza sull’arte e sugli istinti fondamentali della vita. In lui tutto è simbolico: Socrate, «il primo grande greco che sia brutto», sarebbe una creatura abnorme anche sotto l’aspetto spirituale. Lo prova, ad avviso di Nietzsche, il meraviglioso fenomeno della voce del demone, un richiamo che si fa udire scaturendo dalla profondità dell’inconscio e che è il segno di una strana inversione: mentre negli uomini creativi l’istinto è la forza incosciamente produttiva e la coscienza l’istanza critica, in Socrate, al contrario, la coscienza sarebbe la forza produttiva e l’istinto svolgerebbe il ruolo del critico, intereverrebbe come voce del démone, sempre per dissuadere, solo nelle particolari circostanze in cui quel prodigioso intelletto vacilla – «una vera mostruosità per defectum[7].

L’ipertrofia della coscienza logica, che agisce come forza istintiva e relega l’istinto al ruolo non suo di coscienza critica e ammonente, è per Nietzsche il segno di «un mostruoso defectus di ogni disposizione mistica», così che Socrate gli appare come «l’individuo specificamente non mistico, in cui la natura logica, per una superfetazione, è sviluppata in modo tanto eccessivo, quanto lo è la sapienza istintiva nel mistico»[8]. Se Socrate rovesciò tutto è dunque perché sono rovesciati in lui i ruoli dell’istinto e della coscienza; perché Socrate è quel caso, così interessante per lo psicologo, nel quale la coscienza agisce con la spontaneità irrefrenabile propria dell’istinto e l’istinto con la forza riflessiva e inibitoria propria della coscienza. In questa sorprendente inversione di ruoli Nietzsche individua il compendio del male che intossica l’albero della vita, il principio di cui muoiono l’intuizione tragico-ilare del mondo e il dramma musicale greco, sbocciato dall’«impulso primaverile» della natura ogni volta nuovo, dall’«ebbrezza» e dalla misteriosa necessità della festa, della danza e del canto, dal traboccare dell’elemento vitale nell’estasi dello stato dionisiaco. Con Socrate tramonta la sapienza tragica, che nel linguaggio della musica, nelle intuitive figure di Dioniso, di Prometeo, di Edipo, ci parla del mistero dell’unico duplice mondo che è vita-morte, gioia-dolore, notte-giorno, eccesso-misura.

«Ecco l’enorme perplessità che ci prende ogni volta di fronte a Socrate e sempre di nuovo ci sprona a riconoscere il senso e il fine di questa problematicissima apparizione dell’antichità. Chi è costui che osa, lui solo, negare la natura greca, la quale attraverso Omero, Pindaro ed Eschilo, attraverso Fidia e Pericle, la Pizia e Dioniso, nel più profondo abisso e nella più alta vetta, è sicura della nostra stupefatta adorazione? Quale forza demonica è questa, che osa rovesciare nella polvere un tale filtro incantato? quale semidio è, cui il coro degli spiriti più nobili dell’umanità non può non gridare: ‘Ahi! ahi! Tu l’hai distrutto, con polso possente, il bel mondo; ed esso rovina, va in frantumi’»[9].

In quella strana inversione di ruoli – cosa ancor più notevole – Nietzsche vede riflesso il destino storico dell’Occidente. Socrate, in quanto «tipo dell’uomo teoretico», è una figura generale che significa più di Socrate stesso; il suo nome sta per ciò che passa attraverso di lui, e che solo dopo di lui si attua compiutamente. Con Socrate inizia l’età della ragione e della scienza. Ciò che noi, tardi epigoni del socratismo, siamo soliti salutare come un acquisto, sembra a Nietzsche una perdita enorme, un segno dell’esaurimento delle forze mito-poietiche dell’uomo, della sua incapacità di sostenere il tragico, la tensione e l’unità degli opposti. Mediante Socrate e la tragedia gli interpellati non sono i Greci, ma siamo noi uomini moderni; o meglio: interpellata è la fiducia riposta dall’uomo occidentale nella potenza, nemica del tragico, di cui Socrate è eletto rappresentante, la fiducia nella scienza come guida della vita umana. E tuttavia le cose sono più complicate di come qui appaiono: la determinazione di Socrate come «tipo dell’uomo teoretico» che, nella Nascita della tragedia, lo innalza al ruolo di antagonista e nemico di Dioniso, anzi di vincitore del dio, non solo non fa di lui il modello dell’uomo di scienza – i Frammenti postumi dell’estate 1875 lo mostrano con tutta evidenza -, ma esaurisce così poco la sua enigmatica natura che potrà alla fine rivelarsi come una maschera ironica.

Socrate rovesciò tutto: non solo l’autorità del mito, alla cui luce poteva fiorire e risplendere la vita dei Greci[10], ma anche il giusto orientamento della scienza. Con Socrate Dioniso non è cacciato solo dalla scena del teatro, ma anche da quella della filosofia, dove pure abitava, nelle vette del pensiero pre-socratico; Socrate interruppe la catena dei grandi filosofi dell’epoca tragica; impedì ai Greci di trovare «il loro filosofo e il loro riformatore»; sviò Platone.

«Evidentemente i Greci erano sul punto di trovare un tipo d’uomo ancora superiore a quelli precedenti, ma intervenne allora un colpo di forbici»[11].

«Con Empedocle e Democrito i Greci erano giunti sulla strada migliore per valutare esattamente l’esistenza umana, la sua irrazionalità e il suo dolore: ma a questo scopo essi non sono mai giunti, grazie a Socrate»[12].

Se nella Nascita della tragedia il brutto e plebeo Socrate, come personificazione e «tipo dell’uomo teoretico», è responsabile della morte del dramma musicale, ora il capo d’accusa non viene certamente meno, ma è precisato sotto un ulteriore e forse inatteso profilo: Socrate ha impedito lo sviluppo della scienza, ha traviato e sviato anche la scienza. Socrate non è abbastanza coraggioso, spregiudicato, radicale nella conoscenza, come lo sono per esempio Empedocle, Democrito e Anassagora, il cui nous – definito significativamente da Nietzsche «un atheos ex machina»[13] – è da Socrate e da Platone completamente frainteso[14]. Perciò, tra gli effetti negativi della sua azione, rientra non solo l’avere annientato l’autorità del mito e della poesia, ovvero l’autentica profondità religiosa dei Greci, ma anche il fatto che Socrate «annientò la scienza».

«Azione di Socrate: 1) Egli distrusse la spregiudicatezza del giudizio etico. 2) Annientò la scienza. 3) Non ebbe alcun senso artistico. 4) Strappò l’individuo dai suoi legami storici. 5) Favorì le chiacchiere e le ciarle dialettiche»[15].

In sintesi:

«Con Socrate si compie l’autodistruzione dei Greci»[16].

  1. La scienza socratica al servizio della comprensione morale del mondo.

Se «l’azione di Socrate» è sotto ogni profilo negativa, tanto più inesplicabile è la seduzione, enigmatico il fascino esercitato dalla filosofia socratica. Come essi si spiegano? Per Nietzsche, che non rinunzia al tentativo di comprendere questo evidente paradosso, questa ironia della storia, per il fatto che l’esistenza socratica appare, in un momento di sovrastante rovina, come l’àncora della salvezza a un naufrago in mare. Socrate è la trave cui l’uomo si aggrappa[17]. Con lui, l’antigreco che «attribuisce al sapere e alla conoscenza la virtù di un rimedio universale (Universalmedizin) e risolve il male in sé nell’errore»[18], sembra assumere una nuova figura uno dei lati essenziali della grecità, la chiarezza apollinea, trasferita dal mondo intuitivo degli dèi dell’Olimpo, della poesia omerica, delle arti figurative e plastiche, a quello concettuale del pensiero filosofico. Questa trasposizione dell’apollineo dalla sfera dell’arte a quella della filosofia, non lascia le cose immutate, ma è una trasformazione carica di effetti. Infatti, per quanto l’artista apollineo possa essere più o meno consapevole del sogno, dalla sua visione, tradotta in immagini o in parole, traspare chiaramente il carattere dell’illusione, e proprio per questo essa può essere posta, nella tragedia, in relazione col dionisiaco. Al contrario, nell’inizio socratico-platonico della filosofia, la visione, la teoria, avanza la pretesa della verità, vuole valere come lo svelamento dell’essere. Il sole platonico, la trascendente idea del bene, è sogno del sogno, ma si concepisce come verità, e appunto per questo il balsamo di Apollo si trasforma alla fine in veleno. Nietzsche s’inoltra ancora nel sentiero aperto dalla Nascita della tragedia quando, nella terza Dissertazione della Genealogia della morale (1887), denuncia l’ideale ascetico, in quanto convertirebbe il bisogno di giustificare la vita in condanna della vita, in nichilismo; segue ancora la traccia della critica del socratismo quando scrive che il naturale antagonista dell’ideale ascetico non è la scienza, ma l’arte,

«nella quale la menzogna si santifica e la volontà d’illusione ha dalla sua la tranquilla coscienza. Platone contro Omero: ecco il totale, autentico antagonismo – là il volontario ‘uomo della Trascendenza’, il grande calunniatore della vita, qui il suo volontario divinizzatore, la aurea natura»[19]

Non so se prima di Nietzsche fosse mai stata espressa con tanta forza, e con tanta consapevole tendenziosità, la convinzione che la filosofia, come s’inizia a concepirla da Socrate e da Platone, non è rivolta alla verità; proprio essa, per rovesciare polemicamente contro Platone la formula della condanna platonica della poesia, è invece di tre gradi lontana dal vero[20].

Ma l’aspetto più seducente è che quel dominante impulso logico, che fa di Socrate «il tipo dell’uomo teoretico», è al servizio di un fine che travalica ogni sapere teoretico. La natura del rapporto che ha unito Socrate e Platone mostra infatti che la logica e l’ironia non sono mai, in Socrate, fine a se stessi, ma sorreggono un nuovo ideale etico-religioso e servono una nuova comunità educativa. Solo con Socrate la preoccupazione per l’individuo è diventata «l’anima della filosofia»[21]. L’intellettualismo socratico prima, e la dialettica platonica poi, sono il veicolo della comprensione morale del mondo, dell’apprendimento del bene che dovrebbe essere altrettanto esercizio del bene, se nessun uomo è per Socrate intenzionalmente malvagio. Anche quelle famose formule socratiche che segnano la morte della tragedia, la catena causale tra la conoscenza e la virtù, la virtù e la felicità – per Nietzsche «l’equazione più stravagante che esista, contro la quale insorgono, in particolare, tutti gli istinti dei Greci più antichi»[22] -, viene riferita alla straordinaria abilità di Socrate nel dominare l’anarchia degli istinti, nel prospettarsi come medico e come terapeuta. Da allora in poi

«penetrare negli abissi dell’essere e sceverare la conoscenza vera dall’apparenza e dall’errore sembrò all’uomo socratico la più nobile, anzi l’unica vocazione veramente umana: e così pure quel meccanismo di concetti, giudizi e sillogismi fu, da Socrate in poi, apprezzato sopra ogni altra capacità, come l’attività più alta e il dono più straordinario della natura. Persino le più sublimi azioni morali, i moti della compassione, dell’abnegazione, dell’eroismo e quella quiete dell’anima, così difficile da raggiungere, che il greco apollineo chiama sophrosyne, furono fatte derivare, da Socrate e dai suoi seguaci sino ai giorni nostri, dalla dialettica del sapere e si disse perciò che si potevano insegnare»[23].

Solo in questa ampia connessione di rapporti scopriamo, con l’infinita attrattiva della scienza socratico-platonica, lo scopo al quale essa serve ed è subordinata: la morale. Non a caso, nella tarda Prefazione (1886) di Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, Nietzsche, che a suo modo prosegue il programma della critica kantiana della ragione, abbracciando il corso della filosofia europea, da Socrate e Platone fino a Kant ed oltre, può scrivere:

«Sempre, fino ad oggi, per tutto il tempo che si è parlato e si è persuaso sulla terra, la moralità si è dimostrata la più grande maestra di seduzione – e, per quanto concerne noi filosofi, la vera e propria Circe dei filosofi»[24].

E nei Frammenti postumi dell’autunno 1887, denunciando il nichilismo intriseco alla morale europea, torna a dire:

«La morale, l’ho già detto una volta, è stata finora la Circe dei filosofi. Essa è la causa del pessimismo e del nichilismo … la sua più alta formula formulata»[25]

Invero, proprio in quella conoscenza di se stessi che concerne l’ottica morale, ma rinvia insieme a una profondità inconscia, non toccata da nessuno scandaglio umano, così che la conoscenza di sé è sempre al contempo ignoranza e lontananza da se stessi, Nietzsche pensa di scendere più a fondo di Socrate e Platone. Egli svela la perfidia inclusa nel gnothi seauton, sa che la conoscenza di sé sconfina di continuo per diverse vie nella scoperta che il se-stesso è una costruzione illusoria, provvisoria, un necessario errore prospettico, così che proprio l’impossibilità di conoscersi mai perfettamente è l’indispensabile premessa della sua critica alla morale socratico-platonica, cristiano-europea in generale.

Significativo, in un aforisma di Aurora, un cenno alla credulità di Socrate e Platone. Nonostante la più generale affermazione socratica di non-sapere, i primi grandi innovatori nel campo della morale non soltanto ammettevano una conoscenza pratica dell’uomo, ma anche cadevano, per ingenuità, nel «fatale pregiudizio» e nel «profondissimo errore» di ritenere che «alla retta conoscenza non possa non seguire la retta azione»: «e nondimeno è proprio questo contrario la nuda realtà dimostrata ogni giorno e ogni ora da tutta l’eternità»[26]. Per Nietzsche, che vuole andare oltre l’introspezione cristiana, la «terribile verità» non è però nemmeno questa, che lui stesso ha appena enunciato, e che potrebbe incontrare anche sulle labbra del detestato Paolo[27]. La «terribile verità» è piuttosto l’infondatezza, l’inconsistenza della pretesa assolutezza della conoscenza morale. Le azioni scaturiscono da molle e motivi che non affiorano alla superficie della coscienza che in minima parte, affondano nel «mondo sconosciuto del soggetto», e come «tutte le azioni sono essenzialmente ignote», così anche sarebbe sconosciuto a se stesso il portatore delle azioni, il ‘cosiddetto io’, il ‘soggetto’[28].

«Siamo ignoti a noi medesimi, noi uomini della conoscenza, noi stessi a noi stessi […] per noi vale in eterno la massima: ‘ognuno è a se stesso il più lontano’ – non siamo, per noi, ‘uomini della conoscenza’»[29]

La morale, i suoi fondamentali presupposti, sono diventati per Nietzsche il problema. Il suo compito critico consiste nel minare la fiducia nella morale (Vertrauen zur Moral). La formula ambigua, l’ossimoro cui egli ricorre per indicare il luogo del suo pensiero, suona: autosoppressione della morale (Selbtsaufhebung der Moral)[30].

Al contrario Socrate, come innovatore, ha esercitato tutta la sua forza seduttiva e la sua capacità illusiva solo in quanto, attirando l’istinto agonistico dei Greci sul nuovo terreno della gara dialettica, ha posto al tempo stesso la conoscenza logica al servizio della comprensione morale del mondo e dell’ideale ascetico. Vero è che il non-sapere di Socrate, il suo interrogare e il suo confutare, il suo chiedere ragione di tutto ciò che è, e di tutto ciò che un uomo fa e fa così e non altrimenti, costituiscono per allora un’inebriante novità, la prima apparizione della libertà individuale, e che Socrate stesso è per questo aspetto uno «spirito libero», un critico del costume e dell’etica tradizionali, che non hanno altro fondamento che li sorregga se non il tempo e l’autorità[31]. Vero è anche che la cura delle cose più vicine non è affatto estranea a Socrate, sicché riesce difficile, anzi impossibile sovrapporre la sua figura a quella dell’asceta[32]. Ma sotto un altro profilo, in quanto la vera vita è posta al di là di questa che noi ora viviamo, e il mondo vero al di là di quello apparente in cui siamo, l’ideale ascetico non solo agisce in Socrate, ma appartiene alla sua arte della seduzione (erotica) e rivela compiutamente il carattere negativo, nichilistico della sua filosofia. In questo senso l’intellettualismo socratico, e ancor più la fiducia platonica nelle idee come fiducia nell’essere immutabile e inalterabile, sono il velo che copre una prima trasvalutazione dei valori, l’abito di cui si veste una morale che, non trovando il proprio telos in questa vita, lo trasferisce nella trascendenza. Nietzsche mostra di comprendere alla perfezione se stesso quando, nella conclusione dell’ultimo capitolo del Crepuscolo degli idoli, intitolato Quel che devo agli antichi, presentandosi come «l’ultimo discepolo del filosofo Dioniso» e come «il maestro dell’eterno ritorno», giudica la Nascita della tragedia la sua «prima trasvalutazione di tutti i valori»[33] – ovvero il suo primo tentativo di compiere il movimento opposto a quello attuato da Socrate e Platone. La genuina conversione si configura in lui non come passaggio dal male al bene, ma come fedeltà al corpo e alla terra, consapevole ritorno alla cura e consacrazione delle cose terrene[34].

  1. Socrate morente. Dalla «Nascita della tragedia» al Socrate pessimista.

Mai Nietzsche è così vicino a Socrate come quando disegna la figura di Socrate morente. Nella Nascita della tragedia, nel momento di prendere commiato da Socrate e di intraprendere il cammino che porta all’annuncio della morte di Dio e dell’eterno ritorno, egli avverte ancora il richiamo assoluto e il fascino inesplicabile che provengono da questa immagine platonica. Dinanzi alla morte Socrate testimonia di non essere soggetto alla legge della phyisis né a quella della polis, ma solo e unicamente al logos. Perciò va incontro ad essa con una nuova forma di serenità, fiducioso d’essere destinato a quella vita non-mortale che il filosofare stesso gli schiude. Come l’eroe della tragedia, così anche Socrate conosce nella morte il gioiosissimo, e come i cigni intona il suo canto più bello quando è preso dalla letizia d’andarsene al dio del quale è devoto[35]. Anche nella sua fine si stringono in lega fraterna Dioniso e Apollo, ma in modo che Dioniso parla dell’Ade nella lingua di Apollo. D’allora in poi la fede filosofica, unita all’idea della libertà intelligibile e alla comprensione morale del mondo, ha sostituito la sapienza tragica e realizzato, sul piano del pensiero e dell’eros radicale, l’appartenenza della psyche a un eteros topos. Nel Fedone platonico, quasi novello Edipo conciliato col Fato, Socrate insegna quindi ai discepoli che la filosofia, nella sua genuina natura, è desiderio ed esercizio anticipato di morte (melete thanatu), testimoniando per l’ultima volta, come davanti ai giudici del tribunale ateniese, la sua vocazione divina.

«Contraddirlo su questo punto era tanto impossibile quanto lo era approvare la sua influenza dissolutrice degli istinti. Per questo insolubile conflitto s’offriva, una volta che egli era stato tratto dinanzi al tribunale dello Stato greco, un’unica forma di condanna: avrebbero potuto cacciarlo oltre i confini, come un essere del tutto enigmatico, non catalogabile, inesplicabile, senza che perciò dovessero essere accusati dai posteri, a giusto titolo, d’avere compiuto un atto infame. Ma che per lui fosse sentenziata la morte e non solo l’esilio, si può dire lo abbia voluto in perfetta chiarezza e senza il naturale orrore di fronte alla morte Socrate stesso. Le andò incontro con quella quieta calma con cui, secondo la descrizione di Platone, lasciò il simposio ultimo dei bevitori, al primo albeggiare, per cominciare un giorno nuovo, mentre dietro di lui rimanevano, sulle panche e in terra, i convitati addormentati, per sognare di Socrate, il vero erotico»[36].

Al ritratto abbozzato nella Nascita della tragedia, dove Socrate morente è «l’insegna che, sulla porta d’ingresso della scienza, ne ricorda a ognuno la destinazione: di fare apparire l’esistenza comprensibile e pertanto giustificata»[37], si sovrappone in seguito l’immagine del Socrate pessimista, e questa correzione porta a considerare in modo infinitamente più problematico anche il rapporto di Socrate con la scienza. In effetti la serenità di Socrate è troppo serena, se in ogni circostanza è legata all’ottimismo insito nella natura della dialettica e alla ingenua fiducia socratica di poter attingere il vero seguendo il filo d’Arianna dei logoi. La figura di Socrate è priva di contrasti, di ombre, di chiaroscuro se Socrate, contro l’insorgenza del pessimismo pratico, è presentato sempre come «il prototipo dell’ottimista teorico»[38]. Forse Socrate non è per se stesso il «puro e trasparente raggio di luce» che è per tutti i socratici; non è così ingenuo ed illuso riguardo alla scienza come Nietzsche ha dapprima creduto[39]. Se la finalità dell’uomo teoretico non è di conseguire la verità[40], ma di proteggersi «contro l’etica pratica del pessimismo» appagandosi dell’infinità di un processo di disvelamento, che non è mai compiuto, è probabile allora che Socrate abbia penetrato per primo il segreto della scienza[41] e che diverso sia anche il suo rapporto col pessimismo.

Quindici anni più tardi, negli interrogativi raccolti nel Tentativo di autocritica unito alla terza edizione (1886) della Nascita della tragedia, ovvero grecità e pessimismo, Nietzsche non solo afferma che quel libro impossibile presenta in ogni caso «un problema nuovo: oggi direi che era lo stesso problema della scienza – la scienza concepita per la prima volta come problematica, come discutibile (fragwürdig)», ma anche rivendica di nuovo il compito «cui osò accostarsi per la prima volta quel libro temerario – di vedere cioè la scienza con l’ottica dell’artista e l’arte invece con quella della vita»[42]. E mentre il suo sguardo retrospettivo individua nel socratismo «un segno di declino, di stanchezza, di malattia, di istinti che si dissolvono anarchicamente», egli rettifica la sua prima interpretazione di Socrate: se l’astuzia e il segreto di Socrate consistono nel celare che «l’impulso alla scienza» è una via di fuga «di fronte al pessimismo», l’origine (Ursprung) del concetto socratico di “conoscenza” potrebbe essere la paura (der Instinkt der Furcht)[43], e a Socrate stesso andrebbe attribuita l’ironica consapevolezza del divario tra scienza e verità, per cui la prima, come difesa e come finzione, serve solo da schermo:

«Già, che mai significa, considerata come sintomo di vita, ogni scienza? a che scopo la scienza? ancor peggio, da che deriva ogni scienza? come? l’impulso alla scienza è forse nient’altro che paura e scampo di fronte al pessimismo? una sottile, legittima difesa contro – la verità? Per parlare in termini morali, qualcosa come viltà e falsità? per parlare in termini immorali, un’astuzia? O Socrate, Socrate, fu forse questo il tuo segreto? o misterioso ironico, fu forse questa la tua – ironia?»[44].

Ora l’ottica della vita si è impadronita completamente non solo dell’arte, ma anche della figura di Socrate e l’interpella in modo più diretto di quanto abbia mai fatto, perché «lo stesso problema della scienza» – di ogni scienza che tragga il proprio decisivo orientamento dalla filosofia socratico-platonica – riconduce all’emblematica figura di Socrate, e solo da essa attende una risposta: che mai significa, come sintomo di vita, la comparsa di Socrate? salute o malattia, ascesa o declino, fioritura o tramonto? Ora la figura di Socrate appare davvero nella sua sconcertante ambiguità e nella sua insondabile profondità: Nietzsche non richiama più la Naivität e l’ottimismo insito nella dialettica del sapere, ma il nascosto pessimismo di Socrate, il gusto di scoprire, che è altrettanto unito al piacere e più spesso alla necessità di celare.

Sotto questo profilo suonano soprattutto eloquenti, ancora prima dei brani del Tentativo di autocritica, le meditazioni lucide e profonde, tormentate e ardite, inquietanti e ambigue, presentate nel celebre aforisma Socrate morente, che per una interna necessità precede, verso la fine del quarto libro (1882) della Gaia scienza, il primo annunzio nietzscheano dell’eterno ritorno[45].

«Ammiro la forza d’animo e la saggezza di Socrate in tutto quello che egli fece, disse – e non disse. Questo ateniese, spirito maligno e ammaliatore, beffardo e innamorato, che faceva tremare e singhiozzare i giovani più tracotanti, non fu solo il più saggio chiacchierone che sia mai esistito: fu altrettanto grande nel tacere. Avrei voluto che anche nell’ultimo momento della vita fosse rimasto silenzioso: allora avrebbe forse fatto parte d’una categoria di spiriti ancora più elevata. Fosse la morte o il veleno, la religiosità dell’animo o la malvagità – certo è che qualcosa, all’ultimo momento, gli sciolse la lingua facendogli dire: ‘Critone, sono debitore di un gallo ad Asclepio’. Queste ridicole e terribili ‘ultime parole’ significano per chi ha orecchie: ‘O Critone, la vita è una malattia!’ Possibile? pessimista un uomo come lui, che visse serenamente sotto gli occhi di tutti come un soldato? Non s’era preoccupato d’altro che di fare buon viso alla vita, e per tutta la sua durata aveva tenuto nascosto il suo giudizio ultimo, il suo più intimo sentimento. Socrate, Socrate ha sofferto della vita! E se ne è anche vendicato – con quelle parole velate, atroci, pie e blasfeme!»[46]

Questa ardita interpretazione di Socrate morente, le cui ultime parole significano: la vita è una malattia, la morte è la guarigione – questo splendido aforisma, che è anche una dissimulata confessione personale, fornisce la chiave per comprendere il senso migliore dei brani, più febbrili che malvagi, del Crepuscolo degli idoli (1888). In essi «Il problema Socrate» è inscritto nella prospettiva della décadence, anzi è identificato con il problema stesso della décadence e della trasvalutazione dei valori. In essi Nietzsche tenta di raggiungere in modo nuovo il punto da cui il suo cammino è iniziato; cerca, tornando su se stesso, di chiudere l’anello della sua esistenza: così nella Nascita della tragedia come nel Crepuscolo si tratta, in definitiva, di comprendere il «problema Socrate» come sintomo di vita. Ma, in quest’ottica, decisivo è quello che Socrate ha sempre taciuto e che solo alla fine si è lasciato sfuggire.

E’ significativo che, tra i brani dedicati a Socrate nel Crepuscolo, sia il primo che l’ultimo accennino al giudizio sulla vita di Socrate morente, e che da questo dipenda l’interpretazione di Nietzsche. L’allievo di Dioniso, che come filosofo si è misurato di continuo col grande interrogativo sul senso e il valore della vita, tanto più quanto più ha creduto di scorgerne l’irrazionalità, deve dapprima precisare:

«Giudizi, giudizi di valore sulla vita, in favore o a sfavore, in ultima analisi non possono mai essere veri; hanno valore soltanto come sintomi, soltanto come sintomi sono presi in considerazione […]»[47].

Che cosa significa allora, come sintomo, il giudizio di Socrate? Adottato il punto di vista esplicativo generale della fisiologia, Socrate è una malattia. E’ uno tra i saggissimi che in ogni tempo hanno giudicato la vita, manifestando così la loro crepa e la loro insipienza. Il suo significato storico-epocale deriverebbe da questo, che Socrate è il segno della vita declinante, il sintomo di una malattia da cui la storia europeo-occidentale non è ancora guarita.

«Uno straniero che s’intendeva di volti, allorché venne ad Atene, disse in faccia a Socrate che egli era un monstrum – che nascondeva in sé tutti i vizi e le peggiori bramosie. E Socrate si limitò a rispondere: ‘Lei mi conosce, signore!’[48].

«Quando quel fisionomista ebbe rivelato a Socrate chi egli fosse, un covo di ogni malvagio appetito, il grande ironico aggiunse ancora una parola che fornisce la chiave per comprenderlo: ‘Questo è vero – disse – ma io sono diventato il signore di tutti»[49].

Con quale apparente terapia? facendo della ragione un tiranno, un estremo, forzato e innaturale rimedio contro il monstrum in animo, che non era solo un’esperienza interiore e una possibilità esistentiva di Socrate, ma la condizione e il pericolo generale – «… la vecchia Atene andava verso la fine […]». Con Socrate, la cui ironia e la cui dialettica sembrano a Nietzsche un’espressione di risentimento plebeo, una forma di vendetta[50], inizia allora, contro il rischio incombente della dissoluzione, la subordinazione della vita alla morale come contronatura[51].

«Socrate fu un equivoco […] Dover combattere gli istinti – questa è la formula della décadence; fintanto che la vita è ascendente, felicità e istinto sono eguali»[52].

Quanti, tra filosofi e moralisti, dipendono da Socrate e si affidano al suo rimedio – «la razionalità a ogni costo» -, ingannano se stessi, «trasformano l’espressione della décadence, ma non la eliminano». Tra essi Socrate è il più consapevole di tutti, lui, che a differenza di Gesù – il quale non sa nulla di sé -, è secondo l’oracolo del dio «il più saggio tra gli uomini»[53]; lui, che abbindola se stesso solo perché è più che mai vicino, nel suo non-sapere, a conoscere se stesso. Un brano di Al di là del bene e del male (1886) richiama, riferendosi a Socrate, non più l’ingenuità, ma il talento che cresce al punto da raggirar se stesso, creandosi l’apparenza dell’ingenuità. Socrate, che si prendeva gioco della «goffa inettitudine dei suoi nobili ateniesi», incapaci di «dare ragione del loro operare», «silenziosamente e in segreto rideva anche di se stesso»:

«Ma a che scopo – diceva a se stesso – liberarsi perciò degli istinti! Bisogna rendere giustizia a essi e anche alla ragione … Fu questa la caratteristica doppiezza di quel grande ironista pieno di mistero; portò la sua coscienza al punto di tranquillizzarsi raggirando in certo modo se stessa: in fondo egli aveva ben visto l’irrazionalità insita nel giudizio morale»[54].

Quel sommo sofista sapeva, in altri termini, che della concezione morale del mondo e della fede nel compimento trascendente dell’esistenza non si può fornire una piena giustificazione razionale; e conosceva insieme il pericolo racchiuso nella nuova valutazione della vita che deriva dalla sua posizione. In definitiva, come nel Socrate morente della Gaia scienza, così anche nel Crepuscolo il silenzioso pessimismo di Socrate è la chiave per comprenderne il mistero.

«Socrate volle morire – non fu Atene, ma lui stesso a darsi la coppa del veleno, egli costrinse Atene a dargliela … ‘Socrate non è un medico’ – disse piano a se stesso: ‘In questo mondo solo la morte è il medico … Quanto a Socrate, fu semplicemente a lungo malato’»[55].

  1. Socrate e Nietzsche.

Dalle considerazioni svolte sin qui possiamo forse capire in che cosa consistono la vicinanza e la lotta con Socrate. Se, nell’antagonismo, Nietzsche avverte d’essere paradossalmente vicino a Socrate, è per la strettissima analogia delle rispettive vocazioni. Dover essere empi per rispondere all’invito del dio cui si è devoti, è la strana contraddizione che avvicina Socrate e Nietzsche. Come una volta fu compito dell’attività missionaria di Socrate smascherare l’ignoranza nell’uomo ‘sapiente’, così ora è compito di Nietzsche scoprire l’immoralità nell’uomo ‘morale’; e come Socrate, accusato di non venerare gli dèi della città, fu condannato per empietà, così anche Nietzsche può esserlo, in base alla sua critica della religione e dell’esistenza cristiana e al suo conclamato ateismo. Socrate gli è «così vicino» perché anche l’azione di Nietzsche è in prima istanza negativa, ed è destinata a diventarlo sempre più in base alla propria sapienza dionisiaca, al proprio illuminismo e alla propria gaia scienza. Ma dalla lotta emerge anche l’immagine più vera: quella dionisiaco-apollinea di un Socrate cultore della musica (der musiktreibende Sokrates) con la quale Nietzsche si identifica, e dalla quale Socrate è sfiorato nel sogno che, secondo il racconto del Fedone[56], lo visitava talvolta, rivelandogli non so quale mancanza, il desiderio di una filosofia musicale, di una scienza socratica la cui chiarezza apollinea è espressione della verità dionisiaca: la gaia scienza appunto …

E’ significativo che le pagine ispirate alla figura di Socrate morente si prestino più di altre ad essere interpretate in chiave autobiografica, quasi stesse per compiersi quel processo d’identificazione che si ha più volte motivo di sospettare. Non sono forse entrambi, Socrate e Nietzsche, malato e medico nella stessa persona? tutti e due educatori che conoscono l’arte della dissimulazione e il privilegio del silenzio? educatori condannati come corruttori? La vita, celebrata da Nietzsche nella forma di un’adesione incondizionata, di un’affermazione che coinvolge i suoi lati più oscuri, problematici e atroci, non era anche e soprattutto per lui malattia? e l’esaltazione ‘dionisiaca’ una forma di vendetta? Un modo per celare «il suo più intimo sentimento» e per tacere ciò che Socrate si lasciò sfuggire? Soccorre il ricordo di un passo che il pensatore tragico ha posto a conclusione, quasi, della terza parte (1884) dello Zarathustra – un brano in cui la vita, peccatrice innocente, rimprovera sottovoce il suo amante:

«Oh Zarathustra, non mi sei fedele abbastanza! Non mi ami tanto quanto dici di amarmi; lo so che mediti di lasciarmi presto … quando odi questa campana battere l’ora a mezzanotte, tra il primo e il dodicesimo rintocco tu mediti questo – pensi a questo Zarathustra; io lo so che vuoi lasciarmi presto! Sì, risposi esitante, ma sai anche… »[57].

L’ultimo allievo di Dioniso filosofo spartisce con la vita un mistero. Sa che la morte non è la conclusione, che la vita e la morte si legano in un’unità panica, si stringono nel circolo dell’eternità – sicché entrambi, Socrate e Nietzsche, se ne vanno col loro ultimo segreto: l’eterno ritorno contro i miti escatologici; l’amor fati contro la fede filosofica. Ma in scorcio si vede dappertutto che il rifiuto, e perfino l’odio opposto a Socrate, sono odio e rifiuto opposto da Nietzsche al proprio alter ego. Se il Socrate platonico è la vera figura e l’antitesi dell’eroe tragico, Nietzsche è la vera figura e l’antitesi del filosofo. Se Nietzsche, scoperto il significato recondito del sogno del Fedone, si consacra a Dioniso nella veste di un Socrate cultore di musica, Socrate, sacro come i cigni ad Apollo, prospetta la propria fine come la morte di un Dioniso convertito alla filosofia. Se Socrate insegna agli amici e ai discepoli che la filosofia è melete thanatu, Nietzsche s’appella all’amor vitae. E se l’importanza di Socrate deriva dall’essere l’attimo in cui tutto si rovescia, il punto di svolta tra due età della storia universale poste rispettivamente sotto il segno del tragico e della fede filosofica, Nietzsche non può che interpretare se stesso come nuovo inizio: incipit tragoedia.

[1] Testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 4.2.2005 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.

[2] D.Venturelli, Etica e tempo, Parte seconda, capitolo terzo: «Il Socrate di F. Nietzsche», Morcelliana, Brescia, 1999, pp. 151-176. La relazione ripropone alcune delle considerazioni svolte nel saggio indicato.

[3] F. Nietzsche, Werke, hrsg. von K. Schlechta, III, p. 333; Frammenti postumi (1875-76), in ‘Opere di F. Nietzsche’, edizione diretta da G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano, 1964 ss., vol. IV, t. I, 6 [3], p. 159.

[4] Lo scritto avrebbe dovuto costituire, nell’intenzione di Nietzsche, la quarta «Considerazione inattuale». Ma il progetto fu accantonato nel settembre 1875 [«Opere», IV, I, pp. 348-349]; come quarta «Considerazione Inattuale» apparve, ai primi di luglio del 1876, il saggio Richard Wagner a Bayreuth [Ivi, p. 353].

[5] Frammenti postumi (1875-76), cit., 6 [7], p. 160.

[6] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, in ‘Opere’, cit., vol. III, t. I, 1965, p. 99.

[7] Ivi, p. 91. Sul demone di Socrate: Apologia, 40 a ss; Fedro, 242 b. Un tentativo di spiegazione del fenomeno è già nella conferenza Socrate e la tragedia (1870), in “Opere”, cit., vol. III, t. II, p. 37. Qual è il rapporto tra il demone di Socrate e la voce della coscienza etico-religiosa (Gewissen), non della coscienza riflessiva (Bewusstsein)? Fino dal primo approccio al fenomeno Nietzsche lega il demone di Socrate alla sfera d’azione dell’istinto e dell’inconscio, evitando ogni diretto riferimento al richiamo della coscienza etico-religiosa (Gewissen). Nondimeno la voce del demone (dell’istinto) si fa udire come silenzioso richiamo interiore e svolge il ruolo non solo della coscienza riflessiva, ma in primo luogo della coscienza ammonente. Nel Crepuscolo degli idoli Nietzsche allude a «quelle allucinazioni acustiche che sono state interpretate in senso religioso come il demone socratico», lasciando così intendere che la comprensione religiosa del fenomeno non ha per lui un carattere di originarietà. Si intuisce un rapporto tra l’interpretazione del demone come voce dell’istinto e la prospettiva genealogica, che comprende il fenomeno della coscienza (Gewissen) partendo dal lungo processo di interiorizzazione, metamorfosi, sublimazione dell’istinto (della crudeltà). Ma niente di più. Adottando l’ottica psico-fisiologica di Nietzsche il demone di Socrate resta soprattutto il sintomo che rivela una natura abnorme e malata.

[8] La nascita della tragedia, cit., pp. 91-92.

[9] Ivi, p. 91. Cfr. Goethe, Faust, I, vv. 1607-1612.

[10] «Soltanto là dove cade il raggio del mito, vediamo risplendere la vita dei Greci: altrove essa è tenebrosa»; Frammenti postumi (1875-76), cit., 6 [7], p. 160.

[11] Ivi, 6 [18], p. 166.

[12] Ivi, 6 [25], p. 168.

[13] Ivi, 6 [46], p. 174.

[14] Per l’interpretazione socratico-platonica del nous come causa finale: Phaed., 97 c – 99 d. Già nella conclusione dello scritto La filosofia nell’epoca tragica dei Greci l’interpretazione del nouj di Anassagora ha il senso di una severa critica dell’orientamento impresso alla scienza da Socrate e da Platone: «Essi non riconobbero quale senso avesse la rinunzia d’Anassagora, suggerita dal più puro spirito del metodo scientifico, una rinunzia che in ogni caso e innanzitutto si propone d’indagare ciò mediante cui qualcosa è (causa efficiens) e non per quale ragione qualcosa è (causa finalis)»; F. Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci, in ‘Opere’, cit., vol. III, t. II, p. 347. Per questo motivo cfr.: D. Venturelli, Etica, metafisica e principio teologico, in Id., Etica e tempo, cit., in particolare pp. 143-145. Riferendosi agli appunti stesi da Nietzsche per lo scritto Noi filologi R. Safranski svolge considerazioni analoghe in relazione a Democrito, che ‘il mondo pone a caso’: «Effettivamente Democrito, con un’audacia senza pari, la fa finita con l’antropomorfismo ed estrae tutte le proiezioni morali dall’immagine del mondo […] Tutto accade certamente con causalità, a seconda di come gli atomi si muovono, si urtano reciprocamente e si concatenano, ma queste sono cause agenti e non cause finali […] Nell’universo democriteo non esiste uno spirito che tiene tutto coeso, che guida e che ha un qualsiasi significato morale. Il bene e il male non sono una realtà cosmica, bensì compaiono soltanto nelle fantasie morali degli uomini […] Mentre Nietzsche, intorno al 1875, difende la volontà di sapere contro intenzionali autoincantamenti, re-mitizzazioni e pathos religioso, la sua critica a Socrate si trasforma. Socrate è criticabile non perché voleva conoscere, ma perché non voleva conoscere in modo sufficientemente radicale e ‘freddo’ […] »; R. Safranski, Nietzsche. Biografia di un pensiero, Longanesi, Milano, 2000, pp. 154-158.

[15] Frammenti postumi (1875-76), cit., 6 [26], p. 168.

[16] Ivi, 6 [23] p. 167.

[17] «Novella ironica: tutto è falso. Come l’uomo si aggrappa a una trave»; Ivi, 6 [6], p. 160.

[18] La nascita della tragedia, cit., p. 102.

[19] F. Nietzsche, Genealogia della morale, in ‘Opere’, cit., vol. VI, t. II, p. 358.

[20] I cenni alla critica platonica della poesia si riferiscono più direttamente a Resp. 607 b; 599 a; 599 d. Sono in gran parte dedicate alla Umdrehung des Platonismus e alla contesa tra arte e verità le lezioni che Heidegger ha rielaborato nel primo dei due volumi dedicati a Nietzsche, raccogliendole sotto il titolo Der Wille zur Macht als Kunst (1936-1937). Cfr. Nietzsche, Pfullingen, 19613, 2 voll (corsi e saggi degli anni 1936-1946; tr. it.: Nietzsche, Adelphi, Milano, 1995). Sul significato della critica di Platone ai poeti cfr.: H. G. Gadamer, Plato und die Dichter (1934), raccolto e tradotto in Id., Studi platonici, a cura di G. Moretto, Marietti, Casale Monferrato, 1983, I, pp. 185-215.

[21] Frammenti postumi (1875-76), cit., 6 [21], p. 167.

[22] F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, in ‘Opere’, cit. vol. VI, t. III, p. 64. «L’equazione più antica di questa suona: virtù=istinto=inconscio radicale»; Ivi, p. 492. Cfr. anche la conferenza Socrate e la tragedia (1870), in ‘Opere’, cit., vol. III, t. II, p. 43 e la Nascita della tragedia, cit., p. 96.

[23] Ivi, cit., p. 102.

[24] F. Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, in ‘Opere’, vol. IV, t. I, Prefazione (1886).

[25] Id., Frammenti postumi 1887-1888, in ‘Opere’, cit., vol. VIII, t. II, p. 36.

[26] Aurora, cit., af. 116, Il mondo sconosciuto del ‘soggetto’ (Die unbekannte Welt des ‘Subjekts’).

[27]«In verità non comprendo quel che faccio. Difatti non quel che voglio io faccio, ma ciò che odio, questo faccio» (Rm 7, 15); «Sicché non il bene che voglio io faccio, ma il male che non voglio, questo faccio» (Rm 7, 19); «Così io scopro questa legge in me quando voglio fare il bene: il male mi è accanto» (Rm 7, 21).

[28] Aurora, cit., af. 115, Il cosiddetto ‘io’ (Das sogennante ‘Ich’) e af. n.116.

[29] Genealogia della morale, cit., p. 213. Nell’esordio della ‘Prefazione’ alla Genealogia della morale l’ironico capovolgimento della formula proverbiale di Terenzio: «ognuno è a se stesso il più vicino» [Andria, IV, I, 12] in quella di significato diametralmente opposto: «ognuno è a se stesso il più lontano», esprime una paradossale riflessione sulla possibilità della conoscenza morale dell’uomo. Le considerazioni di Nietzsche, sul cui sfondo è la domanda: «chi siamo noi in realtà?», se suonano come rinnovata esortazione alla più profonda e disillusa conoscenza di se stessi, come la permettono la storia naturale e la genealogia della morale, non escludono, ma implicano che il gnothi seauton contenga un’ironia, comporti un pericolo tanto maggiore quanto più seriamente si svolge il tentativo di esaudirlo, e che una conoscenza esaustiva dell’uomo, in definitiva, non si dia. Per questi motivi cfr., nel quinto libro della Gaia scienza, «Opere», vol. V, t. II, la conclusione dell’af. 355, L’origine del nostro concetto di «conoscenza».

[30] Aurora, cit., «Prefazione» (1886).

[31] Una valutazione più equanime s’incontra, naturalmente, nelle opere del secondo periodo (Umano, troppo umano, Aurora, La gaia scienza), ovvero del cosiddetto «illuminismo» di Nietzsche. Ora sembra che Nietzsche capovolga le posizioni, che abbassi ciò che aveva venerato e che innalzi ciò che aveva disprezzato; ora egli afferma la priorità del pensiero razionale e della scienza: cfr. E. Fink, La filosofia di Nietzsche, Marsilio, Padova, 1973, pp. 101-118. Il mutamento è però, al tempo stesso, uno sviluppo più profondo e più personale, più libero e più coerente, dell’intuizione iniziale. Il giudizio su Socrate, in ogni caso, è più benevolo, più positivo. Si veda per esempio l’af. 72, Missionari divini, de Il viandante e la sua ombra: «[…] il vero compito religioso che Socrate si sente assegnato, di mettere alla prova il dio in cento modi, per vedere se ha detto la verità, fa concludere a un atteggiamento ardito e libero, con cui il missionario si pone qui a fianco del suo dio. Quel mettere alla prova il dio è uno dei più sottili compromessi fra religiosità e libertà di spirito che siano mai stati ideati»; Umano, troppo umano II, in «Opere», cit., vol. IV, t. III, af. 72. O si veda, per l’apprezzamento positivo del pensiero razionale e del ruolo esercitato da Socrate nei confronti dell’eticità, l’af. 544 di Aurora: «Chi non sente il continuo tripudio che pervade ogni battuta e ogni replica in un dialogo platonico, il tripudio sulla nuova invenzione del pensiero razionale, che cosa comprende di Platone, che cosa dell’antica filosofia? Quando si praticava il gioco asciutto e rigoroso del concetto, della universalizzazione, della confutazione, dello strozzamento dialettico, allora le anime si sentivano colme d’ebbrezza – di quell’ebbrezza che forse hanno conosciuto anche gli antichi grandi contrappuntisti della musica, così asciutti e rigorosi […] quello antico era un pensiero stregato dall’eticità, un pensiero per il quale esistevano giudizi saldamente stabiliti, fatti stabiliti, e nessun altro fondamento tranne quello dell’autorità: sicché il pensare era un ripetere il già detto e ogni piacere del discorso e del dialogo doveva consistere nella forma […] Socrate fu colui che scoprì l’incantesimo antitetico, quello della causa e dell’effetto, del fondamento e della conseguenza: e noi uomini moderni siamo così abituati alla necessità della logica e così educati ad essa, che essa rappresenta per la nostra lingua il sapore normale, necessariamente spiacevole agli ingordi e ai boriosi».

[32] Cfr. la conclusione dell’af. 6, La fragilità terrena e la sua causa principale, de Il viandante e la sua ombra (1880), in Umano, troppo umano II: «Già Socrate si difendeva con tutte le forze contro questa altezzosa trascuratezza dell’umano a favore dell’Uomo e soleva, con un detto di Omero, richiamare al vero ambito di tutte le cure e i pensieri: ‘è ciò solo’ – diceva -‘che mi accade a casa di bene e di male’»; Cfr. Odissea, 4, 391 ss.

[33] Crepuscolo degli idoli, cit., p. 161.

[34] «Rimanete fedeli alla terra, fratelli, con la potenza della vostra virtù! Il vostro amore che dona e la vostra conoscenza servano il senso della terra! Così vi prego e vi scongiuro»; Così parlò Zarathustra, in ‘Opere’, cit., vol. VI, t. I, p. 90 [«I Discorsi di Zarathustra», “Della virtù che dona”]; “mancava la volontà per uomo e terra”, è detto nel paragrafo conclusivo della Genealogia.

[35] Phaed., 84 e – 85 b.

[36] La nascita della tragedia, cit., p. 92. Per la definizione della filosofia come melete thanatu, Phaed., 81 a, 64 a, 67 e. Sulla filosofia come esercizio anticipato di morte e come catarsi, e sulla concezione platonica del corpo: A. Caracciolo, Sul significato dell’antitesi philosomatos-philosophos nel «Fedone» platonico, in Id., Religione ed eticità, Morano, Napoli 1971, pp. 139-179.

[37] La nascita della tragedia, cit., p. 101.

[38] Ivi, p. 102.

[39] Come potrebbe essere vittima di una «rappresentazione illusoria» della scienza Socrate, che nel momento cruciale si vede sempre costretto – lui, nemico della poesia – ad abbandonare il linguaggio del logos per adottare quello del mythotos? Si pensi all’articolazione interna del Fedone, concluso da un mito escatologico. Ma in modo analogo il Gorgia e poi la Repubblica, X, terminano necessariamente la loro parabola sulla giustizia coi miti sui destini delle anime dopo la morte.

[40] «Non ci sarebbe nessuna scienza, se a essa importasse solo quell’unica dèa nuda e nient’altro»; La nascita della tragedia, cit., p. 102. Per scoprire «il segreto fondamentale della scienza» Nietzsche si rivolge qui a Lessing, «il più onesto uomo teoretico», per il quale il pregio della scienza consiste, per noi uomini, nell’aspirazione e nella ricerca infinita, non nella scoperta del vero. «Se Dio tenesse nella sua destra ogni verità e nella sua sinistra l’unica e sempre mobile aspirazione alla verità, sia pur con l’aggiunta di sbagliare sempre e in eterno, e mi dicesse: scegli, io mi getterei umilmente in ginocchio alla sua sinistra e direi: Padre, dammi questa! La verità pura è riservata a te soltanto»; G. E. Lessing Eine Dupplik, 1778; trad.it. in: Id., Religione e libertà, a cura di G. Ghia, Morcelliana, Brescia 2000, p. 33. Se Nietzsche allude al brano famoso di Lessing, Kierkegaard lo cita letteralmente nella Postilla conclusiva non scientifica alle Briciole di filosofia. Per un confronto tra le posizioni di Kierkegaard e di Nietzsche: K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino, 1971; Id., Kierkegaard und Nietzsche (1933), in Sämtliche Schriften, 6, p. 75 ss.

[41] Günter Figal ha efficacemente illustrato il carattere critico e negativo della teoria. Si tratta infatti di un compito infinito, che non porta al possesso stabile della verità, e consiste invece ogni volta nella negazione di ciò che in quel momento vale come svelato. Non il sapere, ma il non-sapere domina di conseguenza l’intero processo. Nella teoria «vive la convinzione per cui l’affermarsi dell’illusione costituisce il vero svelamento e, nel respingere ogni volta dei modi determinati di manifestazione, si mette in luce “la cosa stessa” […] La teoria, come la intende Nietzsche, non è tuttavia un semplice fare non chiarito, intrappolato nel mito del disvelamento totale […] è un negare, un dire di no silenzioso ed espressivo. In tal modo viene già articolata l’esigenza teoretica: la si eleva, negando e discutendo il sapere degli altri; quello che è da loro visto e presentato sarebbe la cosa quale è “in verità”. Qui non deve essere innanzitutto in gioco alcuna chiara rappresentazione della cosa e della sua verità. E’ sufficiente supporre che qualcuno si sia orientato fin troppo ingenuamente a ciò che si manifesta direttamente o, in generale, a ciò che appare ovvio […] In questo senso non è teoretica l’affermazione del sapere, bensì la messa tra parentesi di tutto ciò che si ritiene tale, dunque l’affermazione del non sapere». «Socrate, come lo vede Nietzsche, è il genio del dire di no»; Günter Figal, Nietzsche. Un ritratto filosofico, Donzelli editore, Roma, 2002, pp. 72-73. La verità, in quanto mobile verità esistentiva, non astratta verità logica, potrebbe però trovarsi proprio nel transito dell’esistenza, manifestarsi negando ogni volta ciò che si dà come svelato. Contro la reificazione e la sostantificazione della verità sarebbe allora all’opera in Nietzsche un concetto esistentivo della verità.

[42] La nascita della tragedia, cit., p. 5 e p. 6.

[43] Cfr. l’af. 355, L’origine del nostro concetto di «conoscenza», del libro quinto (1887) de La gaia scienza, significativamente intitolato «Noi senza paura».

[44] La nascita della tragedia, cit., p. 4.

[45] La gaia scienza, cit., af. 341, Il peso più grande.

[46] Ivi, af. 340, Socrate morente.

[47] Crepuscolo degli idoli, cit., p. 63

[48] Ivi, p. 64.

[49] Ivi, p. 67. Si può accostare all’aneddoto narrato da Nietzsche il dubbio espresso da Socrate nel Fedro, il timore di celare in sé un mostro più superbo e più vano, più fumigante e tortuoso di Tifone. Cfr. Fedro 229 d – 230 a. In apparenza il brano platonico è costruito sul rifiuto socratico d’indagare il mondo dei mostri (centauri, chimere, gorgoni …), sull’opposizione tra la necessità di conoscere se-stesso e l’indagare cose estranee. Ma il significato del discorso è più sottile: seguire il motto delfico è infatti la via per incontrare davvero il mondo dei mostri, non come cosa estranea, ma come cosa che alberga in noi stessi: vado indagando me stesso «per scoprire se per caso sono un mostro complicato e travolto da passioni molto più di Tifone, oppure un animale più mite e più semplice, partecipe per natura d’una qualche sorte divina, capace di modestia e di dominio sulle passioni». La vera ermeneutica del mito è la conoscenza di se stessi. Ma proprio di questa Socrate si dice paradossalmente incapace: «non riesco ancora a conoscere me stesso come vuole il motto delfico». Si ricordi in proposito Kierkegaard: il paradosso è la vera passione del pensiero e «i pensatori privi di paradosso sono come amanti senza passioni: mediocri compagni di gioco»; S. Kierkegaard, Briciole di filosofia, in ‘Opere’, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze, 1972, pp. 219-220.

[50] Ivi, pp. 65-66.

[51] «Riduco in formula un principio. Ogni naturalismo nella morale, vale a dire ogni morale sana è dominata da un istinto della vita – un certo imperativo della vita viene adempiuto con una determinata regola del “tu devi” e del “tu non devi”, un certo intralcio e una certa ostilità sul cammino della vita vengono in tal modo tolti di mezzo. La morale avversa alla natura, vale a dire quasi ogni morale che sia stata insegnata, venerata e predicata fino a oggi, si volge viceversa proprio contro gli istinti della vita – è una condanna ora segreta, ora aperta e sfrontata, di questi istinti. Dicendo “Dio guarda al cuore”, essa dice no alle infime e alle supreme bramosie della vita e considera Dio un nemico della vita…» (Crepuscolo, cit., pp. 80-81). Poco prima: «attaccare le passioni alla radice significa attaccare la vita alla radice» (Ivi, p. 78).

[52] Ivi, p. 68.

[53] Apologia di Socrate, 21 a sgg.

[54] F: Nietzsche, Al di là del bene e del male, in «Opere», vol., VI, t. II, p. 89.

[55] Crepuscolo degli idoli, cit., p. 68. Già nel primo paragrafo de Il problema Socrate si legge: «Persino Socrate, sul punto di morire, diceva: “Vivere – vale a dire essere lungamente malati: sono debitore di un gallo ad Asclepio salvatore”»; Ivi, p. 62.

[56] Fedone 60 e – 61 b. La nascita della tragedia, cit., pp. 97-98. Su «Socrate cultore della musica»: E. Bertram, Nietzsche. Versuch einer Mythologie, 1918 (trad. it.: Id., Nietzsche. Per una mitologia, Il mulino, Bologna, 1988, pp. 396-397).

[57] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Parte terza, «La seconda canzone di danza», cit., pp. 276-277. Il sovrapporsi delle figure di Socrate morente e di Zarathustra è stato sottolineato da E. Bertram, op. cit., pp. 391-426.