Questioni di filosofia. La penultima parola

Domanda

L’occasione di questo incontro è data dalla pubblicazione del libro “La penultima parola e altri enigmi” in cui il professor Veca, che è ordinario di filosofia politica all’università di Pavia, presidente della Fondazione Feltrinelli, nonché preside della facoltà di Scienze Politiche, ripropone, a me sembra con una particolare originalità, il tema di che cos’è filosofia. E dà a questa domanda una risposta quantomeno paradossale: la filosofia è una penultima parola. Bene, professor Veca, perché la filosofia è e deve essere solo una penultima parola ?

Risposta

Vorrei cercare di spiegare nel modo più semplice possibile, e se volete anche un po’ironico, perché ho scritto questo libro e perché ho cercato nella prima parte di rispondere a questa domanda. Il libro è composto di tre parti: nella prima cerco di dare un resoconto di quale sia la natura dell’attività filosofica, in altre parole di quel tipo particolare di attività intellettuale di esplorazione, di ricerca, di tentativo di soluzioni di problemi, di tentativo di elaborare modi di guardare noi stessi e il mondo che usiamo chiamare filosofia. Nella seconda parte affronto, sulla base delle risposte date alla prima domanda, un tema che è al centro della mia ricerca da molti anni, che è in sintesi: quale idea di giustizia noi possiamo avere al giro di boa tra il XX e il XXI secolo. La terza parte è, invece, dedicata ad un esplorazione del rapporto delle radici delle nostre risposte etiche o morali al fatto che vi siano altri nello spazio delle nostre emozioni.

Vorrei rispondere a questo punto alla domanda. Partiamo dalla considerazione che è molto difficile che un matematico o un chimico o un astrofisico o un biologo perda tempo a scrivere articoli per affermare che cosa vuol dire fare il biologo molecolare e così via, e questo è interessante. Non c’è attività intellettuale come la filosofia, in cui alla fine gli attori non s’impegnino nel tentativo di chiarire, a se stesso e agli altri, qual è la natura dell’attività che svolgono. E’ difficile trovare un filosofo o una filosofa che non abbiano cercato di porsi questo problema e di fornire una risposta.

Un altro modo di porre la questione più ironico è quello che pongono le mogli e i mariti dei filosofi o delle filosofe, gli amici o le fidanzate, e soprattutto i figli quando ti domandano cosa fa il filosofo. E’ piuttosto bizzarro, e non è così semplice. Come mai ci sono persone che prendono terribilmente sul serio, come una vocazione, l’idea di effettuare ricerca filosofica nel XXI secolo? Si può capire che uno voglia fare ricerca sui quark o sul DNA, ma non si capisce allo stesso modo perché uno debba fare ricerca filosofica.

Legata a queste considerazioni è la domanda ricorrente sul perché occorra finanziare i dipartimenti di filosofia, problema di cui mi occupo anche troppo per le mie responsabilità accademiche,

Ecco tre modi per porre la questione dall’esterno.

Il mio tentativo permette di giungere alla spiegazione della curiosa espressione “penultima parola”.

Quando qualcuno s’impegna nell’indagine filosofica, quale che sia lo scopo che si prefigge, prende terribilmente sul serio l’idea di arrivare a poter comunicare agli altri come stanno veramente le cose, ciò che è vero, ciò che è giusto, cosa vale la pena di perseguire, chi noi siamo. Voler arrivare a dire come stanno veramente le cose, vuol dire voler arrivare ad avere l’ultima parola.

Quando voglio rispondere a domande sul significato che hanno, ad esempio, le nostre vite mortali, parto dalla tradizione che ho alle spalle per dimostrare il carattere fallace di una tesi, con ragionamenti che mirano a costruire una comunità che condivida queste ragioni; l’ambizione è di arrivare ad aggiungere qualcosa che suggerisca modi di vedere noi stessi e il mondo più perspiqui, più coerenti, più ricchi, più importanti di quelli che le tradizioni, le tue controparti passate o altri propongono. Questa è la motivazione non è molto diversa da quella dello scienziato che lavora sulla stringa del DNA o vuole scoprire l’eziologia di qualche patologia.

Qual è però la differenza rispetto tra chi si proponga l’esplorazione per avere l’ultima parola nell’ambito dell’impresa scientifica piuttosto che nell’ambito della ricerca filosofica. C’è questa particolarità: non esiste nessun biologo molecolare che perda tempo ad occuparsi della disputa tra vitalisti e meccanicisti di 70/80 anni fa, non c’è nessun fisico che sia interessato – a meno che non sia uno storico della fisica – al fatto che Newton e Einstein sostenevano che siccome Dio non gioca a dadi, non si poteva accettare la tesi della rilevanza osservato / osservatore propria della fisica quantistica; non è affatto interessante per chi fa fisica oggi. Noi filosofi o filosofe invece prendiamo sul serio dei tipi come Platone, Aristotele, Pascal, Montaigne, Nietzsche, Marx, Agostino: come mai? E’ curioso. Perché chi fa filosofia non può sfuggire in qualche modo all’enorme repertorio, alla tradizione millenaria entro cui si situa il suo goffo tentativo di filosofare.

Quando mi impegno in una ricerca sulla teoria della giustizia, ho l’obiettivo di arrivare a dire ciò che vale la pena di accettare, svolgendo l’onesto mestiere del filosofo, come diceva Giulio Preti. E tuttavia, consapevole di essere intrinsecamente erede di una tradizione che non può sfuggire al tempo, so che vi sarà un momento in cui la mia ultima parola sarà la penultima. La tensione, la ricerca seria su che cosa voglia dire verità, che cosa voglia dire giustizia, che cosa voglia dire bellezza mira a sostenere una tesi che funzioni, che dimostri gli errori di altre argomentazioni; ma, al tempo stesso, il far parte di questa tradizione fa sì che io sappia che il destino inevitabile dei migliore degli esiti che raggiungerò sarà quello di conversione nella penultima parola, perché altri presenteranno nuove tesi, modi alternativi di vedere noi stessi e il mondo.

Se da un lato sarebbe fatuo intellettualmente, una forma di alessandrinismo di lusso e di irresponsabilità intellettuale, iniziare una ricerca con una sorta di indifferenza intorno all’esito finale, sarebbe altrettanto ottuso da parte di chi s’impegna in quest’attività intellettuale non rendersi conto che è intrinsecamente erede e debitore di una tradizione di controparti passate, di sguardi passati sul mondo, di modi e tentativi di rispondere alle ricorrenti domande sulla verità, sulla giustizia, sul senso della vita, sulla bellezza, sulla morte per esseri finiti quali noi siamo, che costituisce un’enorme eco alle sue spalle. Ci sono degli ambiti dell’attività intellettuale che hanno degli esiti cumulativi e degli ambiti che non hanno esiti cumulativi; la filosofia è nel secondo ambito e in questo sembra assomigliare più a quella creazione di mondi che è propria di ciò che usiamo chiamare la creazione artistica.

A nessuno verrebbe in mente di dire che è cumulativo il barocco rispetto al rinascimentale piuttosto che il gotico rispetto al romanico, oppure l’attico rispetto al dorico e nemmeno che Mozart è cumulativo rispetto a Bach. Pensate al repertorio dei modi di costruire mondi musicali, poetici, iconici o al repertorio dei modi di costruzione dei mondi letterari. Nella costruzione della poesia noi siamo eredi di un gran repertorio che esemplifica stili diversi, testi diversi, ricorrenti tentativi in tempi e spazi diversi, con riferimento anche ad altre tradizioni rispetto alla nostra, in cui si è cercato di dire l’ultima parola.

L’attività filosofica, a mio parere, evoca esempi musicali. Allora questa buffa considerazione è il primo enigma, che ha implicazioni interessanti, tra le quali ne vorrei citarne due che mi stanno a cuore.

La prima è questa: uno potrebbe pensare che questo repertorio alle nostre spalle, quello che Paul Ricoeur ha detto essere un immane patrimonio che conserva nel tempo la capacità di meraviglia e di stupore nei confronti di ciò che fa problema per noi, è un patrimonio pasticciato. Avete Aristotele ma avete Epicuro, avete Descartes ma avete Pascal, avete Montaigne e avete i Libertini, avete Diderot e avete De Maistre: un pasticcio infernale, di cui ad esempio Kant era molto irritato.

Newton fa avanzare cumulativamente alla scienza; i filosofi metafisici fanno battaglie sconfinate e non arrivano a nulla. Assenza di convergenza e capacità di cumulazione caratterizzano l’ambito dell’elaborazione di teorie filosofiche. Con una battuta dico che in realtà il multiculturalismo è interno alla nostra tradizione. Il meticciato non è il futuro, il meticciato è il passato. Un gran pasticcio. Un repertorio pasticciato di modi alternativi di vedere le cose.

Questo che sembra essere un vizio ad alcuni, in realtà è un’elusiva virtù del lavoro filosofico e della tradizione filosofica. Perché adottare questa prospettiva vuol dire impegnarsi in una resistenza e in una lotta contro qualsiasi forma di riduzionismo, un male intellettuale contro cui ha senso impegnare battaglie filosofiche, mantenendo la libertà filosofica di pensare il mondo in modi alternativi. Il riduzionismo tecnicamente dice: questa situazione, questo fenomeno, questo stato del mondo, per esempio tutte le persone in questa sala, non sono altro che …, e la seconda parte che riempie i puntini non è altro che qualcosa che spiega senza resti la prima. E’ riduzionismo, per esempio, affermare che noi siamo solo delle macchine chimiche. Naturalmente è difficile sostenere che noi non siamo macchine chimiche, come potremmo non esserlo. Quello che trovo sbagliato non è sostenere che siamo delle macchine chimiche, ma che tutto ciò che c’è da dire e pensare su di noi debba essere ridotto al fatto che siamo macchine chimiche. Il riduzionismo seleziona i modi alternativi di guardare noi stessi ed il mondo. Riduce, sfronda, manda al macero, elimina e, in qualche modo, se ottiene l’ultima parola, esclude dai modi di pensare la possibilità e ci condanna alla contrazione dei modi con cui noi possiamo pensare noi stessi, gli altri, la convivenza, le istituzioni, ciò che vale nella vita.

Contro questa riduzione, il pasticciato repertorio dei molteplici esempi multiculturali dell’esercizio filosofico è uno dei possibili antidoti culturali.

La seconda idea può essere così sintetizzata: dal momento che persistono e sembrano essere in un certo senso ricorrenti alcune grandi domande che noi ci poniamo, quali sono le circostanze per cui certe domande mettono in moto la ricorrente esplorazione filosofica? La mia idea è questa: noi siamo delle creature di abitudini, cioè nella buona sostanza ci aggiriamo nel mondo, ci orientiamo nel mondo, traffichiamo nel mondo, facciamo imprese goffe, losche o sublimi, disponendo di un certo sfondo relativamente stabile. La stabilità delle nostre aspettative genera la stabilità delle nostre credenze. Quando qualcosa scompagina la stabilità delle nostre aspettative, qualcosa di inaspettato, si apre una specie di corpo a corpo con la stiva delle credenze, dei modi di pensare e dei modi di interagire cui siamo abituati. I nostri valori tradizionali sono sottoposti a pressione dall’incertezza e questo genera domande, richieste di risposte filosofiche. Per esempio, pensate al vasto campo delle domande nell’ambito della gamma di questioni che per convenzione usiamo chiamare bioetica, che generano una domanda di giudizio. Si tratta di difficili questioni nelle quali si riduce via via lo spazio delle circostanze e aumenta lo spazio delle responsabilità.

Noi viviamo sempre con una partizione relativamente stabile tra certezza e incertezza; quando questa linea si altera, si genera un conflitto anche dentro di noi: non ci sono solo conflitti interpersonali, ci sono guerre civili dentro di noi. Noi stessi siamo incerti nel giudizio e allora cerchiamo risposte. Quando vi sono crepe, quando vi sono tensioni tra le nostre credenze, a quel punto la vecchia talpa filosofica si rimette in moto perché non troviamo risposte entro gli ambiti tradizionali.

Credo che la scienza costituisca una delle poche glorie che dei tipi così goffi come noi possiamo vantare, però la risposta alla domanda “che cosa è giusto fare?” in casi del tutto nuovi, come quelli posti dalla bioetica, ben difficilmente può venire dall’interno di un sapere scientifico. I più avvertiti nell’ambito dell’impresa scientifica sottolineano sempre come ad un certo punto deve entrare in gioco un altro tipo di capacità di interrogare e di rispondere. Ebbene, anche se non in via esclusiva, certamente la filosofia lavora negli interstizi quando le nostre credenze, entro di noi o tra loro, sono in tensione.

Domanda

Un altro enigma che lei tocca nel libro è il problema propriamente di filosofia politica di che cosa è giustizia, tema al quale ha dedicato vari studi. Però nella seconda parte del libro affronta, per la prima volta mi pare in modo analitico, il problema dell’estensione della giustizia, da un ambito locale cioè all’interno di un territorio, di uno stato, a quello globale, internazionale. E qui la faccenda si fa ancor più complicata dopo l’11 Settembre.

Risposta

Ho lavorato, negli ultimi vent’anni e passa, nell’ambito della teoria politica normativa, cioè di prospettive filosofiche che mirano a offrirci buone ragioni per il giudizio politico dal punto di vista etico. È questo l’ambito di ricerca che per convenzione chiamo delle teorie della giustizia, quelle che per Ricoeur devono darci le regole che governano il predicato «giusto». Quando è giusta la risposta militare, quando è giusta la finanziaria, è giusto o meno affidare al mercato la salute, e così via.

Sono domande in cui usiamo il predicato giusto. Se cerchiamo di dare coerenza a questi impieghi del predicato «giusto», cerchiamo di fare, alla grande o terra terra, teorie della giustizia; questa idea è molto semplice. Ora, sono state impegnate grandi energie intellettuali negli ultimi trent’anni a partire dall’opera di Rawls Una teoria della giustizia, che è del ’71, per rispondere alla domanda: quali sono i principi, i requisiti di una società eticamente accettabile, decente, meno ingiusta? Ci sono vari modelli, varie risposte. Tutte però, esplicitamente o implicitamente, si basano sul riferimento a comunità politiche definite da una stabilità di confini che include una certa popolazione, escludendo ovviamente tutte le altre. Come si dice in teoria politica, sono tutte sul versante interno, di quello che per convenzione chiamiamo «la costellazione degli Stati nazione», alcune per ragioni interne alla teoria stessa, altre per ragioni contingenti. A me sembra che il problema principale, il quale chiama in gioco la responsabilità intellettuale della filosofia politica e morale, è quello di misurarsi con questa domanda: è possibile estendere i criteri di giustizia dal versante interno al pianeta, all’arena internazionale? E se è possibile, come?

Ora, per chiarire la natura della questione, la mia idea è che in primo luogo bisogna dimostrare che è possibile l’estensione contro il divieto che viene dalla grande tradizione, vecchia e nuova, del realismo politico. Da Tucidite ad Hobbes fino a Carl Schmitt, mentre si può risolvere la questione del conflitto e quindi generare le condizioni di pace interna, cioè i modi durevoli di convivere nel tempo, basati su una qualche forma di patto di società, di contratto sociale, questa soluzione non la si può estendere sul versante esterno, perché è strutturalmente proprio della comunità internazionale il carattere, come si usa dire, anarchico o di stato di natura. E questo perché, come diceva Hobbes che scriveva molto bene, i leviatani sono tra loro in postura gladiatoria, il che vuol dire che non c’è la necessità di avere guerra ma probabilità di guerra, per cui le aspettative sono incerte. Le sovranità statuali hanno una sola logica, che è quella della massimizzazione del proprio interesse e, siccome gli interessi sono divergenti, si va allo scontro o si trovano equilibri dovuti, come si diceva nel modello Westfalia, ad un modus vivendi. Risultato della guerra è un riequilibrio degli assetti di potenza, sul quale si fonderà una pace precaria.

Chiunque, come me, sia convinto che si deve superare lo scoglio costituito dalla grande questione dell’esclusione, ha come primo dovere intellettuale quello di cercare di indebolire il divieto hobbesiano. Chi mi può dare una mano?

Un filosofo ritornato con grande prestigio alla ribalta negli ultimi dieci anni, è Kant, e in particolare lo scritto Per la pace perpetua, che alla fine del diciottesimo secolo definiva, con i suoi celebri tre articoli del trattato di pace immaginario, le condizioni per l’estensione. Ora come molti sanno, le tre condizioni devono essere soddisfatte come si suol dire lessicalmente, cioè prima una dell’altra, per cui non puoi passare a quella successiva se non hai soddisfatto la prima.

La prima condizione perché si minimizzino le probabilità di guerra e si massimizzino quelle di pace riguarda le caratteristiche del regime politico interno dalle comunità politiche, cioè è la condizione della costituzione repubblicana. L’opposto della costituzione repubblicana, che semplificando possiamo chiamare democrazia, era per Kant il dispotismo, l’autocrazia, e quindi con linguaggio moderno il totalitarismo. Dunque, perché sia possibile minimizzare le probabilità di guerra, è previamente richiesto che il regime interno di qualsiasi comunità politica, definita da confini, sia repubblicano, cioè in qualche modo preveda un patto sociale non con degli schiavi ma con dei cittadini che esprimono consenso, selezionano i governanti e autorizzano a governare.Se questa condizione è soddisfatta, allora si può passare al secondo articolo che è quello del federalismo, del cosiddetto fedus pacificum.

Si giunge poi alla grande novità del terzo articolo, che utilizzando la vecchia storia del diritto internazionale che riguardava in realtà il problema del commercio dei pirati, introduce la novità straordinaria del diritto cosmopolitico (come sempre in filosofia si mette vino nuovo in botti vecchie e poi lo si chiama progresso filosofico). Così accanto al diritto pubblico interno, repubblica, e al fedus pacificum, la federazione, diritto pubblico esterno, il terzo articolo prescrive il diritto cosmopolitico.

Quest’ultimo non è in capo a Stati, ma in capo a individui, per cui c’è un dovere di ospitalità indipendentemente dal fatto che una persona faccia parte di una comunità piuttosto che di un’altra. Sembra una cosa ovvia, ma l’idea di ascrivere diritti a persone indipendentemente dal fatto che siano membri di comunità politiche, è un’idea esplosiva; perché mentre per Hobbes è insensato dire che qualcuno ha dei diritti se non li definisci entro l’assegnazione statuale, Kant pensa che, soddisfatta la condizione della repubblica e la condizione della federazione, si potranno ascrivere diritti a esseri umani indipendentemente dal fatto che facciano parte dell’una o dell’altra comunità politica.

Se voi guardate a tutti i modelli delle cosiddette priorità relativamente ai diritti umani nelle forme di cooperazione internazionale, la prospettiva kantiana – sia pure in modo precario – torna fuori dopo la prima guerra mondiale del secolo scorso, e in una parte nella dichiarazione dei diritti dell’Onu dopo la seconda guerra mondiale. Questa prospettiva in sostanza è basata sull’idea che le condizioni della pace dipendano dalla democratizzazione estesa dei regimi; vuol dire che la natura dell’arena internazionale ha come sua variabile indipendente la natura dei regimi interni. È il contrario della visione di Hobbes. Quindi tra Hobbes e Kant, eredi di Hobbes e Kant, ci misuriamo a volte anche entro noi stessi quando ci poniamo tra queste due alternative.

Il secondo argomento riguarda l’estensione dei criteri di giustizia. Abbiamo bisogno di un criterio di valutazione etico, che sia il meno possibile dipendente da una particolare concezione sostanziale di valore politico, se si vuol prendere sul serio la pluralità delle concezioni sostanziali di valore politico che esistono qua e là per il pianeta. Per guadagnare più universalismo quanto a giustizia, è evidente che non si può partire con la proposta di un criterio valutativo che dipenda dai nostri modi di vedere che cos’è una buona vita, perché questo è bloccato immediatamente da chi trova altre ragioni per ritenere una vita degna di essere vissuta. La mia idea è di usare un criterio valutativo basato sulla concezione della duplicità tra la nostra dimensione di essere pazienti morali e la nostra dimensione di essere agenti morali. Questo permette di sostenere che l’idea dello sviluppo umano come libertà, un idea proposta da Amartya Sen, combinata con la dimensione paziente–agente può funzionare in modo relativamente indipendente rispetto a concezioni sostanziali di vita buona. Si tratta di tirar via quello che dipende dalla mia tradizione per dire se una vita è migliore o peggiore, e mettersi dal punto di vista di chi la vive; in questo modo rispettiamo la varietà delle ragioni per cui una vita è degna di essere vissuta, dal punto di vista di chi la vive e non dal punto di vista di chi impone o propone uno standard di vita. Questo criterio è stato applicato a problemi di indicatori di povertà, di benessere o malessere, di indici comparati di sviluppo umano.

L’altro punto consiste nel trovare una procedura che consenta di arrivare a esiti possibili di convergenza, tenendo conto che partiamo dal fatto del pluralismo, che non è un problema di relativismo. Ci sono nel mondo esseri umani che hanno ragioni per scegliere un modo di vivere diverso da quelle che abbiamo ereditato o a cui noi siamo leali; comprendere cosa vuol dire vivere una vita dettata da altre ragioni, che noi non condividiamo ma che altri condividono, non è relativismo. A nessuno si chiede di rinunciare alle ragioni di lealtà nelle proprie convinzioni, ma a guardare alle proprie convinzioni come le convinzioni di qualcuno. Ora, se dobbiamo trovare una procedura che possa generare esiti, passo dopo passo, di convergenza, non possiamo di nuovo offrire principi che dipendono da concezioni sostanziali di giustizia. L’idea che propongo è quella, come dire, di una giustizia procedurale di base o minima, che ha un solo assioma, che è molto debole rispetto ad altre teorie che, pretendendo troppo, si bloccano in partenza. L’assioma è semplicemente quello che nessuno, in una pratica qualsivoglia mirante a esiti di deliberazione e arbitrato su ciò che è giusto o ingiusto, deve essere escluso. Qualsiasi pratica che mira a deliberare dovrà dare ascolto a tutte le voci, senza nessuna esclusione. È un criterio elementare di inclusione/esclusione che mi dà un grado minimo di accettabilità e di decenza, e un grado minimo di civiltà.

C’è infine una terza idea: la prima è lo sviluppo come libertà, la seconda è la giustizia procedurale minima, la terza è l’idea che noi non dovremmo rinunciare a tentare ricorrentemente di costruire utopie. Sebbene l’utopia sia assolutamente impopolare e fuori moda, sono convinto che la serietà della filosofia politica, con tutti i suoi limiti, sia basata sull’idea di offrire mondi vivibili possibili, entro lo spazio che il mondo ci concede naturalmente; e questo consente di indebolire la ferrea presa riduzionistica del realismo politico. Perché vi è tanto discredito nei confronti dell’utopia? Siamo eredi di un secolo, quello che si è chiuso da quasi due anni e ci ha lanciati dentro il ventunesimo «alla grande» tra antrace e Bin Laden, siamo eredi di un secolo in cui abbiamo conosciuto gli orrori e il male politico assoluto, generato dalla credenza nelle utopie nel costruttivismo politico delle società perfette. Ne abbiamo viste di cotte e di crude, quindi sarebbe bene evitare che si continui nell’esercizio di modellare società basate su ideali impersonali in nome dei quali si fanno a pezzi le persone.

L’idea della priorità e del comando politico sulla società, l’idea di modellare le società grazie all’esercizio dell’autorità politica ha generato il male e ha gettato nel discredito le utopie.

Quel modo di pensare è caratterizzato da due clausole: la prima, che invita a pensare alle istituzioni e alle forme di convivenza come esse potrebbero essere, va bene, mentre la seconda dice: pensa agli esseri umani come dovrebbero essere. Quest’ultima è pessima, e congiunta con la prima produce il male. Ma rinunciare alla seconda clausola, cioè all’idea che uno debba in qualche modo impiegare le persone come arnesi in funzione di un ideale impersonale, anche il migliore del mondo, non vuol dire rinunciare alla prima, cioè a saggiare le possibilità politiche con un solo vincolo, il rispetto nei confronti delle persone così come esse sono. È questa l’idea che chiamo di utopia ragionevole, nel senso che prende sul serio le ragioni delle persone ma non rinuncia a prospettare, a saggiare possibilità politiche alternative rispetto a quelle date sotto il vincolo del rispetto delle persone; le istituzioni come possono essere, gli esseri umani come sono. Se si adotta questa terza idea, che è un modo di guardare le cose, allora la severità dei vincoli posti dal realismo politico si indebolisce.

Io prendo molto sul serio il realismo politico ma non accetto la versione riduzionistica che lo caratterizza. I realisti politici trovano spesso delle terribili sorprese: avevano escluso dall’ambito delle possibilità certe opzioni e allora arriviamo ai dilemmi dell’11 settembre, per quello che riusciamo a capire. Una delle percezioni e delle forme reattive immediate, quel giorno, fu l’idea che avesse luogo qualcosa che era inimmaginabile, non era pensabile. Cosa vuol dire che era una cosa inimmaginabile o impensabile? Vuol dire che è escluso dall’ambito del menu di alternative alle quali siamo abituati. Ora i realisti politici in questo caso avevano escluso possibilità demoniache, quelle che io chiamo le possibilità non del disvalore ma dell’antivalore. Se però riflettiamo in maniera fredda sulle ragioni di più lungo termine o sui processi che hanno fatto fare questo salto di soglia nella crudeltà, nell’antivalore dell’attacco terroristico o di guerra, ci rendiamo conto che non era poi così impensabile, molte tessere si possono ricomporre.

È chiaro che il mondo uscito dal sisma geopolitico degli anni ’90 del secolo scorso era un mondo completamente sbilanciato negli equilibri di potenza, un mondo unipolare con un’enorme ingiustizia e con forme reattive nei confronti della forza intrinseca nei processi di mondializzazione, globalizzazione. Un mondo in cui entro quello che si usa chiamare Islam era da tempo in atto una guerra, un corpo a corpo per chi ottenesse devozioni politiche e controllo sulle risorse petrolifere. Non sono i dannati della terra che hanno scatenato questo terrorismo internazionale, non sono gli oppressi. La mia tesi è che c’è solo una connessione indiretta fra il fatto della oppressione ed il fatto della così proclamata guerra religiosa.

Noi siamo molto esperti delle guerre di religione, perché il meglio o il poco di civiltà che noi abbiamo ereditato, per la quale alcuni di noi più anziani di me si sono anche battuti, è un esito postumo delle terribili soluzioni dei conflitti per la verità che hanno posto in essere le nostre controparti passate. Sono i trattati di pace per sfinimento dopo le guerre religiose europee che generano i modus vivendi precari, che insegnano la virtù elusiva della tolleranza, che mettono in moto la capacità di convivere mantenendo lealtà diverse ed interpretando in altro modo il significato della vita o la salvezza. Sappiamo benissimo che i conflitti cosiddetti identitari, di cui per esempio il conflitto religioso è un esempio classico, non sono mai totalmente puri. I conflitti identitari si intersecano con pezzi di conflitti relativi a interessi. È il grado che varia. Non accetto la l’idea di scontro di civiltà. È analiticamente insoddisfacente. Sono otto le civiltà censite da Huntinton, e inoltre non accetterei l’offerta di interpretazione che gli attori criminali danno dei loro atti criminali. Perché mai dovremmo accettarla.

In conclusione vorrei raccontare una cosa buffa. In agosto ho messo insieme nove lezioni sull’idea di giustizia, un librettino nella cui lunga introduzione ripercorro un po’ la vicenda della ricerca e della politica e come il fatto della globalizzazione scompagina i discorsi bene ordinati delle teorie della giustizia. Quindi bisogna rimettersi al lavoro, bisogna cercare di rispondere, trovare i criteri del giusto e dell’ingiusto in un mondo in cui hai un pianeta spezzato tra ricchezza e povertà. L’ho consegnato a Feltrinelli Editore pochi giorni prima dell’11 settembre. E la sera dell’11 settembre, come sarà successo a tanti di noi mi sono detto: «Madonna santa, che senso ha fare un libro che tenta di ragionare sulla possibilità della giustizia internazionale in un mondo in cui conosciamo l’esperienza di questi orrori?». Poi ci ho ripensato e mi son detto che non bisogna cedere anche nel piccolo. Credo che sia importante resistere alla tentazione di ridurre, di contrarre il proprio modo di vivere e occorra imparare a convivere sotto la pressione inevitabile del rischio e dell’incertezza che probabilmente saranno piuttosto lunghe. Allora ciascuno deve fare quello che può. Il mio piccolo contributo è quello di andare avanti, di seguire il mio dovere intellettuale che non è poi così costoso. Cerchiamo di fare meglio ciascuno la sua parte, sperando non debba diventare troppo onerosa o preziosa in tempi difficili.

Domanda

Nel terzo ed ultimo capitolo Lei affronta un’enigma non da poco: il problema della fondazione della morale, e avanza una tesi insieme suggestiva e che pone grossi interrogativi. Parla di una priorità delle emozioni nelle nostre condotte morali, nel nostro agire morale. Ecco, ci vuole chiarire il senso di questa affermazione: che le emozioni ci orientano ci guidano nel rapporto con le credenze con i saperi e nello stesso giudizio morale. Cosa significa questa priorità delle emozioni? Perché quando dico:”sento che qualcosa non va”, questo è l’antecedente di un giudizio morale che fonda il possibile giudizio?

Risposta

In modo molto semplice si può dire che ci sono due idee.

La prima idea è che tutti possiamo trovarci nello stato in cui sentiamo qualcosa, in cui sappiamo qualcosa, in cui crediamo qualcosa. Sappiamo che tra emozioni, credenze e valutazioni c’è una connessione. Provate ad effettuare un esperimento che si chiama “contro fattuale”, cioè a cancellare una di queste condizioni, a pensare noi stessi sconnessi, per cui certe emozioni o sentimenti non hanno alcun effetto con le credenze che abbiamo. La struttura delle emozioni è una struttura tripartita: voi credete a certe cose, assegnate ad esse un peso positivo o negativo e credete e sentite qualcosa. Se mi dicono che mia moglie era vicino a Linate la mattina dello spaventoso incidente, io ho una credenza, valuto il pericolo, sento. Che vi sia connessione tra emozioni, credenze e valutazioni sembra essere un fatto difficilmente controvertibile.

La seconda idea è che in fondo l’etica o la morale io (li uso come sinonimi) possa consistere nella varietà delle risposte giuste che ciascuno di noi dà o deve dare a sé ed agli altri. Noi rispondiamo agli altri in certi modi. Se io prendo mia zia per aprire quella finestra e poi la butto giù, questo comportamento lo consideriamo ingiusto sulla base di quanto affermava Kant, per il quale non bisogna mai trattare gli altri solo come mezzi ma sempre anche come fini. In tutte le nostre transazioni con gli altri, noi in qualche modo rispondiamo agli altri. Le forme dell’umiliazione degli altri, della degradazione, dello sfruttamento, del disprezzo, dell’intolleranza come le forme del rispetto nei confronti delle persone, della generosità, del donare, tutte queste cose, dalla forma angelica a quella diabolica, sono risposte che noi diamo agli altri.

Se uno risponde, qualcuno dovrà pur domandare. Ma che cosa possono chiederti gli altri ? A questo riguardo ci sono dei modelli, delle teorie del ‘900 nell’ambito della filosofia morale, per le quali ciò che altri ti domandano sono una sorta di blocchi compatti. Faccio un esempio: etica del rispetto; la mia doverosa risposta agli altri è quella di vincolare le mie scelte, le mie condotte al rispetto degli eguali diritti di ciascun altro. Questa è una possibile domanda degli altri ed è molto importante saper rispondere in modo giusto, ma non è l’unica forma in cui gli altri ti interrogano. L’etica del rispetto è basata sull’idea del valore e dell’impersonalità delle persone; famosa è la frase di Kant di rispettare negli altri l’umanità che è in te, per cui io rispetto in lui nel mio interlocutore una sua caratteristica astratta, e non la sua biografia, la sua storia, il suo volto, la sua personalissima vicenda, che sono invece contingenti, particolari. Nell’etica del rispetto dei diritti è viene rispettata negli altri l’immagine di chiunque, non l’immagine di una determinata persona.

E’ questa la radice delle nostre risposte etiche agli altri? Io credo di no, perché noi possiamo pensare che gli altri non ci chiedano la distanza del rispetto ma ci chiedano la cura, la quale comporta una risposta nei confronti di quella persona, di quel volto, non in termini impersonali. Le radici di tutto questo stanno nei modi in cui a noi può accadere di sentire che l’altro domanda, di sentire che l’altro soffre, di sentire che l’altro chiede. Vi è allora da assegnare una priorità agli stati del sentire.

Questa conclusione mi permette di compiere un’ultima conclusione su un punto che mi sta molto a cuore: sono convinto che una delle ragioni per cui ci dobbiamo qualcosa l’un l’altro e, in qualche modo, ciascuno di noi deve qualcosa a ciascun altro, affondino nella condivisione della nostra incompletezza e contingenza, cioè nel fatto che ci accade di nascere. Questa è una tesi che avevo presentato qualche anno fa e su cui mi sono state fatte molto obiezioni che così sintetizzo: riconosciamo tutti che nessuno di noi ha scelto di nascere, ma il semplice fatto che tutti possiamo tranquillamente riconoscere che le nostre vite sono prima un evento e dopo una scelta, che – come si dice – siamo gettati nel mondo, perché mai dovrebbe implicare che sono tenuto a rispettare la vita, di un altro che è contingente come la mia. Se non basta la ragione della contingenza, la mia risposta – notate l’ironica e patetica forma con cui tento di avere l’ultima parola – è questa: non basta sostenere che noi accettiamo di descriverci come esseri che non hanno scelto di nascere e a cui è accaduto di aver una vita da vivere, dobbiamo aggiungere che vi sono dei casi in cui a noi può accadere di sentire la nostra contingenza. Sono convinto che lo stato del sentire la nostra contingenza fa la differenza con le credenze ed è alla radice di un possibile modo di un fiorire insieme e di ridurre il disvalore e, in questi tempi, l’antivalore.

NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conversazione tenuta a Brescia il 25.10.2001 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura. Le domande sono state poste da Ilario Bertoletti.