Creaturalità e resurrezione. La finitezza della morte

Premessa

Nel pensare la resurrezione testimoniata dai Vangeli e in generale dalla tradizione cristiana si presenta interiormente il dissidio tra due impulsi. Da una parte il disincanto dinanzi a una verità che ha tutta l’aria di essere, più che inafferrabile, inesistente. Il sospetto di volervi credere solo per lenire l’angoscia della mortalità accomuna, in qualche misura, increduli e credenti. D’altra parte, se ci sfiora invece l’idea che sia tutto vero, sorge l’autoironia di chi all’improvviso si rende conto di stare in questa situazione: un Dio si rivela e la prima cosa che ci viene in mente è di prendergli le impronte, di fotografarlo, di chiedergli il certificato di esistenza in vita. Oltre le pretese incrociate del positivismo credente, per cui la resurrezione è un fatto scientificamente dimostrabile, e del positivismo incredulo, per cui è dimostrabile la sua falsità, e anche oltre l’appello all’indimostrabilità della cosa, per cui ognuno può continuare a credere ciò che preferisce, mi sembra che in un approccio filosofico a tale questione sia in gioco la verità della condizione umana.
Da parte mia proporrò una correlazione tra la prospettiva cristiana della resurrezione e un’ermeneutica della creaturalità, considerate come due chiavi di comprensione irriducibili eppure illuminanti l’una per l’altra, cercando di mostrare le ragioni per cui l’interazione tra esse è, a mio avviso, non solo filosoficamente legittima[2], ma anche rivelativa sul piano antropologico ed esistenziale. Il percorso della mia relazione si sviluppa in tre momenti: 1. l’esplicitazione del metodo per una riflessione filosofica sulla resurrezione; 2. la riconfigurazione sintetica della semantica della resurrezione nella Scrittura cristiana; 3. la ricomprensione dei tratti costitutivi della condizione umana, interpretata secondo la semantica della creaturalità, e l’indicazione della prospettiva emergente all’incrocio tra i due universi di senso.

 Ragione e resurrezione

Lo spazio del cammino di un’ermeneutica incrociata che correli la condizione umana e la rivelazione cristiana si dischiude solo congedandosi da due tesi filosofiche, avanzate rispettivamente da Wittgenstein e da Heidegger. Il primo stabilisce che “di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”[3]; il secondo ammonisce a considerare inautentica e dispersa un’esistenza che non sia orientata dall’essere-per-la-morte[4]. Il divieto di Wittgenstein va infranto non per superficiale superbia, ma perché il senso stesso si sposta, non si lascia dislocare secondo un confine rigido che separi il visibile e l’invisibile, o l’accertabile, l’imponderabile e l’incredibile. La filosofia è nata per riconoscere il senso invisibile delle cose, dunque non per effettuare l’inventario dei fatti o per levigare l’incastro logico dei concetti, bensì per pensare il mistero della verità prendendolo così sul serio da cercare in esso la chiave per orientare l’esistenza. A sua volta l’invito a identificare tale chiave con l’essere-per-la-morte induce a non scorgere più presenze, relazioni, valori, verità che alla morte non sono riconducibili. Tanto più che così proprio il limite della mortalità – che sia il fatto della morte, oppure l’anticipazione o l’evento stesso del morire come atto di libertà e “poter-essere più proprio[5] dell’individuo – perde ogni elemento di mistero.

Il significato della presa di distanza da queste tesi, del resto relativizzate poi nel percorso stesso di questi autori, è quello di portare l’attenzione sul legame fecondo e costitutivo che esiste tra pensiero e mistero. Quest’ultimo non è semplicemente un vuoto di conoscenza, una fine del senso, una notte permanente o un muro invalicabile. Esso ci raggiunge nell’incontro con una verità irriducibile a percezioni, oggettivazioni e definizioni, eppure reale e sovrabbondante di senso. Perciò pensare filosoficamente significa non solo tentare di partecipare a un mondo di significati che non abbiamo costruito, ma anche accettare che il mistero rimandi paradossalmente la sua luce sulla nostra condizione. Sono misteri, in questa prospettiva, la singolare incompiutezza dell’essere umano[6], la libertà nella sua incalcolabile trascendenza, la persona e la sua dignità, Dio o il divino, l’amore e le sue sorgenti, l’infinito ma anche la finitezza, nonché la morte stessa, purché sia intesa non come distruzione biologica, ma come soglia del mai esperito. Un mistero così concepito – che pertanto non va confuso con un problema per ora irrisolto ma risolvibile in the long run – ci restituisce una prospettiva su noi stessi, è come una chiave ermeneutica per comprendere qualcosa di ciò che siamo e sperimentiamo. Paolo scrive che “ora vediamo come in uno specchio” (1 Cor 13, 12); di solito si sottolinea che questo implica un vedere confuso, incerto. Ma è un vedere reale[7]. Ammettere questo valore simbolico[8] ed euristico dell’incontro con il mistero impegna a “mantenere il confronto disperato tra l’interrogazione umana e il silenzio del mondo”[9]. Proprio pensando il nucleo di verità del mistero possiamo sperimentare come ricevere una prospettiva significhi, nel contempo, aprire gli occhi e mettersi in cammino, impegnandosi a verificare la ragionevolezza e la plausilibilità esistenziale dello sguardo in cui siamo entrati.

Questa dinamica è evidente nel desiderio e nella speranza[10]. Entrambi sarebbero azzerati se fossimo nella condizione di chi possiede un sapere totale e un completo controllo sulla realtà. Essi invece sprigionano la loro tensione essenziale grazie a un’intenzionalità che si lascia attrarre dal mistero perché non solo ne siamo interpellati, ma lo patiamo in noi stessi come una ferita e come un seme. Diversi percorsi filosofici[11], oltre alla riflessione teologica[12], hanno sottolineato l’apertura rivelativa che ha il suo luogo nel desiderare e nello sperare, ricordando che essa non esclude affatto la ragione, anzi ha bisogno del suo discernimento e della sua conferma. Mentre l’ottimismo parte da sé e arbitrariamente s’inventa un happy end, “risolvendo”[13] tutto senza neppure distinguere tra minuzie e questioni cruciali, il desiderio e la speranza vengono suscitati come risposte a un appello – inevidente, eppure profondamente comunicativo – che ci raggiunge. Per questo, come si fa con un seme, ambedue si coltivano, non si possono fabbricare.

Attraverso la parabola della resurrezione, che può dirsi tale in quanto il racconto di questo evento ci riguarda inducendo la nostra vita a specchiarvisi, si presenta una speranza ultima, nel senso che è ricapitolativa di tutte le autentiche speranze che possiamo nutrire. L’annuncio cristiano della resurrezione prefigura la salvezza nella pienezza dei suoi significati: liberazione dalla morte e dal male, pace e felicità in una verità che sia comunione degli indistruttibili. Per pensare la resurrezione si deve guardare al cuore dell’esistenza umana, senza soffocare la ricerca in un sistema metafisico già dotato di tutte le risposte a ogni questione. Perciò entrare nell’universo dei significati della resurrezione di Gesù conduce sino a un passaggio inusuale, che schiude un ampio orizzonte a chi provi a pensare oltre la religione e l’ateismo[14]. Il difetto dell’una e dell’altro, in quanto visioni già definite di una verità ritenuta nota, non sta tanto nella parzialità rivestita di conclusività, quanto nell’orientamento di fondo che inavvertitamente li accomuna. Religione e ateismo si presentano infatti come due universi simbolici che tendono a riconfigurarsi attraverso il pensare secondo la morte. Nell’ateismo metafisico l’incredulità verso il divino si volge in credito sistematico offerto alla morte stessa come destinazione dell’uomo. Nella religione il destino dei dannati è immaginato come una morte eterna. Nella teologia sacrificale la croce di Gesù è intesa come una morte che diventa in sé redentiva. In generale, è tipicamente religiosa la credenza degli uomini nella potenza. Immaginando in Dio la potenza suprema, credono nella sua sovranità. Dunque non amano il volto di Dio, né credono in una piena comunione con Lui[15]; amano la Potenza e credono in essa. Tutta la vicenda di Gesù, compresa la sua resurrezione, rivela invece un Dio di libertà e d’amore. Questo mutamento di prospettiva è già riassunto nella visibilità della croce e nell’invisibilità della resurrezione come evento. Una resurrezione esibita a tutti come magica onnipotenza avrebbe conferito alla via aperta da Gesù il sigillo di una potenza incontrovertibile che interpella non la libertà e l’amore umano, ma la mera percezione empirica e il sentimento d’inferiorità della creatura.

Nella ricerca delle condizioni di legittimità della conferma razionale a ciò che possiamo sperare, un punto prospettico irriducibile a religione e ateismo è stato raggiunto da Kant lì dove considera la ragione come la facoltà di incontrare l’incondizionato. Essa è autonoma precisamente perché non si lascia vincolare da una visione religiosa, né da una metafisica atea[16] e non è neppure incatenata ai fenomeni scientificamente determinabili, perché piuttosto ha scoperto che può avere fondata cognizione del confine, e dunque della relazione, tra l’esperienza fenomenica e le verità che il pensiero riconosce come incondizionate[17]. Si tratta non già di verità puramente informative, che lascino indifferente il soggetto umano, ma di verità essenziali per prefigurare un compimento del nostro agire e del nostro sperare: che ci sia vita oltre la morte, che si dia per noi l’unità di un mondo, che esista Dio come sommo bene[18]. E che in questo agire e sperare, conforme alla legge morale posta nella coscienza, noi assumiamo la nostra libertà.

Ricoeur ha evidenziato che in Kant la ragione discerne le condizioni dello schiudersi della speranza in modo che quest’ultima sollecita da parte sua l’opera ermeneutica della ragione stessa e della libertà nel decifrare i segni di una verità irriducibile alla morte[19]. Proprio quando l’incondizionato si qualifica come l’indistruttibile, il riferimento alla resurrezione dispiega una sua logica specifica cui la ragione può riconoscere cittadinanza. Ricoeur formula questa indicazione parlando di una duplice “struttura di accoglimento”[20] della speranza e della verità cui essa tende. La prima è data dalla ragione teoretica con il suo riconoscimento di quelle verità incondizionate che, intese come orizzonte di senso, non sono eliminate dalla conoscenza fenomenica, poiché piuttosto sono tali verità, nella loro pensabilità, a delegittimare le indebite pretese di oggettivare quel senso, oppure di negarlo.

Questo punto è dirimente proprio rispetto al rapporto tra ragione e resurrezione. Ricoeur evidenzia che qui non sono i fatti empirici a poter stabilire preliminarmente ciò che è razionale e ciò che non lo è. Cade allora l’illusione trascendentale sia dello scetticismo ateo, sia del dogmatismo teologico che punta tutto sulla resurrezione come fatto dimostrabile. Per Kant, da un lato, è la ragione a dare il criterio per stabilire i diversi ambiti di legittimità che distinguono una verità empirica da una verità pensabile e regolativa per il cammino della ragione e della libertà. Dall’altro lato, grazie a questa distinzione, la ragione sa di non essere la misura ultima della verità noumenica, poiché è questa a dare a noi il criterio della sua irriducibilità al sapere fenomenico, demistificando nel contempo un sapere metafisico che voglia oggettivare l’incondizionato. Anziché neutralizzare la speranza umana in Dio e nella resurrezione quali proiezioni ingannevoli, la ragione punta a mantenere la sua indivisibile facoltà di autocritica e di legittima ospitalità all’ulteriorità della verità[21].

Ricoeur porta poi l’attenzione sulla seconda struttura di accoglimento, quella offerta dalla ragione pratica che, nel suo tendere al compimento del bene, riconosce l’idea di un sovrappiù che trascende l’agire umano, “un ordine in cui questa compiutezza possa essere effettiva”[22]. La ragione chiamata a stare sul confine, e insieme a verificare senso e verità dell’attrazione che invita la speranza a superarlo, non resta indifferente. S’incarna nella libertà, che è sempre in cammino verso la pienezza del bene “anche oltre questa vita”[23]. L’apertura pratica al bene e al dono[24] del suo compimento è la seconda via di assunzione ragionevole della speranza. Ciò mostra che, se davvero la ragione vuole esercitare il suo discernimento, non può isolarsi, ma deve fare lo stesso viaggio della libertà e della speranza impegnandosi a comprendere e a vagliare le loro indicazioni.

Credo che in una riflessione filosofica sulla resurrezione non si debba risolvere la prima struttura di accoglimento indicata da Ricoeur nella seconda, come se il pensare dovesse semplicemente lasciare il passo all’agire[25]. Infatti la ragione teoretica continua il suo specifico cammino pervenendo a quella logica dei “doppi pensieri”[26] che è impegnata a seguire due direzioni divergenti senza smettere di considerare l’unità della verità implicata in esse. Così, appena ha in qualche modo chiarito un ordine di significati, per comprenderne il senso la ragione deve guardare a un ordine diverso che non si lascia spiegare dal primo. E’ quanto accade nel rapporto tra ragione e resurrezione: per pensare quest’ultima la ragione deve cercare di tenere sensatamente insieme una qualche analogia con la nostra esperienza e l’unicità straordinaria dell’evento annunciato dalla fede cristiana[27].

La logica dei doppi pensieri non sfocia nello strabismo o in una scontata dialettica di coincidentia oppositorum. Sollecita invece l’adozione di un metodo in grado di cogliere le connessioni di senso interne a una verità che, nel suo mistero, ci interpella da direzioni opposte. I frammenti di senso che riusciamo a individuare vanno pensati in una correlazione che non padroneggiamo. In questa prospettiva si chiarisce che, in filosofia, il metodo dell’ermeneutica[28] non è una speciale filologia che sostituisca il testo alla verità, ma il percorso dell’interpretazione come riconoscimento, conferma e preservazione dell’unità trascendente del mistero[29] che in quanto verità interpella il pensiero e l’esistenza di chi si espone a essa.

Che cosa comporta, nel nostro caso, questo metodo del “tenere insieme” analogia e unicità straordinaria ? Ogni relazione è prossimità e distanza; così il nesso di analogia e unicità è tipico di ogni conoscenza per partecipazione, quella che sa giungere al riconoscimento nella relazione con l’alterità. Infatti sono la ragione e l’amore a poter tenere insieme analogia e unicità, giacché desiderano la sintonia con la vita della verità cercata e con la sua libertà. La filosofia sa, per quanto possa dimenticarlo nelle sue involuzioni positiviste o razionaliste, che la verità da essa cercata non chiede tanto di essere informati della sua identità, quanto di essere riconosciuta e scelta. La relazione con la verità chiede una ragione capace di amare. Un amore per nulla arbitrario o cieco, perché è anzi partecipazione appassionata che rende conto di quello che impara a riconoscere e a scegliere. La ragionevolezza dell’analogia non potrà mai esentare l’essere umano dal rispondere da unico all’unicità della verità, dall’appassionamento della libertà che nella singolarità personale dice il suo “sì”.

Riassumo i passaggi necessari, secondo me, per impostare una filosofia della resurrezione. Essa prende inizio da una generale apertura alla verità come mistero e si sviluppa con metodo ermeneutico chiarendo le prospettive che il mistero stesso, come uno specchio, ci rimanda sulla nostra condizione. In tale percorso interpretativo, insieme metafisico e antropologico, la ragione critica viene attratta oltre religione e ateismo in quanto sistemi di senso conchiusi e inclini a pensare secondo la morte. Così la ragione trova, secondo la lezione kantiana, la sua autonomia, tanto che nega a qualsiasi rappresentazione puramente fattuale della realtà il diritto di fungere da criterio della verità. La ragione come pensiero dell’incondizionato indistruttibile e, nel contempo, la libertà orientata alla pienezza del bene dispiegano un’intenzionalità che riconosce come sensato lo spazio dell’eventuale autorivelazione di Dio. Autorivelazione che, a sua volta, è pensabile come liberamente disposta a esporsi alla conferma della ragione e della libertà umane. La pensabilità della verità si delinea così come spazio d’incontro possibile. A partire da questo riconoscimento la ragione approfondisce una sua cognizione della relazione tra noi e l’incondizionato, scoprendo l’esigenza di tenere insieme l’analogia e l’unicità straordinaria. Non per virtuosismo dialettico, non per totalizzazione, ma perché lucidamente attratta da una verità la cui unità supera lo stesso orizzonte che prefigura per la ragione, sollecitandola da versanti opposti. Provocandola, per così dire, a tentare di chiarire l’incredibile, anziché a liquidarlo. Sino a che non solo la fede o il sentimento, ma la ragione stessa possa dare o negare il suo consenso.

Ma che cosa annuncia l’autorivelazione del Dio di Gesù ? Il metodo ermeneutico-critico può valere dinanzi all’annuncio, a noi noto eppure forse esistenzialmente inaudito, della resurrezione del Figlio dell’Uomo ?

  1. La semantica cristiana della resurrezione

Nelle grandi religioni del mondo ricorrono immagini e speranze riguardanti la sopravvivenza alla morte[30]. Già nella Scrittura ebraica[31] compare la credenza nella resurrezione dei morti, inserendosi in una prospettiva legata all’esperienza dell’Esodo[32]. Nella tradizione cristiana degli ultimi secoli l’attenzione al valore della resurrezione è stata alquanto flebile, tanto che ancora nel Catechismo della Dottrina Cristiana di Pio X essa non figura tra i misteri principali della fede[33]. Questo fenomeno può essere ricompreso in quella che Metz ha denunciato come “la perdita della dimensione escatologica nella teologia”, la quale “va di pari passo col nascondimento del futuro in quella filosofia che ha esercitato un forte influsso nell’elaborazione concettuale della teologia”[34]. Buona parte della teologia contemporanea ha invece riconsiderato la resurrezione come l’autentica chiave di fondazione e di comprensione del cristianesimo[35].

In un nuovo ascolto delle indicazioni della Scrittura cristiana intorno alla resurrezione, tentando una ricapitolazione ermeneutica che attinga sia alle fonti esegetiche[36], sia a quelle teologiche[37], credo si debba in primo luogo ricordare che “Dio non ha creato la morte” (Sap 1, 13) e non ha posto nelle creature alcun seme di distruzione[38]. Questa verità viene costantemente testimoniata e tradotta nella vita di colui che si presenta come suo Figlio. Tutte le scelte, le parole e gli atti di Gesù, nei Vangeli, sono apertamente e continuamente contro le logiche della morte, della potenza e del denaro, così come contro gli idoli religiosi (la tradizione, il tempio, il sacrificio). Dall’insieme dei testi della Scrittura cristiana – dai Vangeli agli Atti degli Apostoli, dalle lettere di Paolo a quelle pastorali[39] – ci viene tramandata non già la descrizione dell’evento della resurrezione, ma la narrazione teologica dei suoi primi segni (il sepolcro vuoto, gli uomini in vesti luminose che invitano a cercare Gesù altrove) ed effetti (le apparizioni del Risorto, la nuova fede dei suoi discepoli). Non abbiamo una descrizione, ma una teologia testimoniale della resurrezione. Le diverse voci che attestano questo evento convergono in un orizzonte teologico unitario non perché ripetano tutte l’identica cosa nello stesso modo, ma perché per vie differenti dischiudono una peculiare costellazione policentrica che intreccia tre prospettive, secondo la logica trinitaria che è paradigmatica nel cristianesimo. La difficoltà epistemologica nell’orientarsi in questa costellazione sta nel salvaguardarne l’ampiezza rinunciando a scorciatoie di gerarchizzazione semantica che sfociano facilmente nel riduzionismo[40].

La prima prospettiva è quella teocentrica in cui la resurrezione appare come atto creativo di Dio che libera Gesù dalla morte, mantenendo la sua promessa[41] e confermando l’identità del Figlio[42] nell’integrità trasfigurata del suo essere[43]. E’ una nuova creazione[44]. Un atto di liberazione, di conferma e di creazione che è l’ulteriore rivelazione di Dio[45] stesso come Persona incondizionatamente amante che ridona e trasfigura la vita del Figlio, ponendo una comunione definitiva al posto di un destino di morte. Ma ciò che qui viene detto “rivelazione” non va inteso come se fosse una manifestazione tramite apparizione o invio di messaggi, né come un intervento completamente esterno a Gesù. Non è solo un agire comunicativo, poiché più radicalmente è coinvolto l’essere comunicativo di Dio. “Nella risurrezione di Gesù non si tratta solo di un agire divino, ma dell’essere divino”[46] che ha attraversato la morte in quanto Padre incarnato e crocifisso nel Figlio[47]. Perciò Dio non è colui che ha abbandonato Gesù sulla croce, ma colui che in Gesù è entrato sin nella condizione del completo abbandono: quello che l’uomo riserva al proprio fratello, facendone una vittima e un torturato; quello che l’uomo, nel suo delirio di onnipotenza, riserva non tanto a un dio qualsiasi, ma precisamente al Dio dell’amore[48]; quello che l’essere umano, nel mistero della sua solitudine nella storia, vive sentendosi abbandonato da Dio stesso.

Proprio su questo punto si presenta la necessità di una precisazione fondamentale. L’abbandono, espresso nel grido di Gesù “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato ?” (Mc 15, 34; cfr. Sal 22,2), fu inflitto dal Padre al Figlio, oppure fu vissuto nel Figlio dal Padre stesso ? Certo, giunto a questo limite, il pensiero deve “distinguere fra Dio e Dio”[49]. La distinzione teologica tradizionale è per lo più quella che assegna a ciascuno ruoli giuridici diversi: il giudice e il peccatore[50]. Una lettura completamente diversa sarebbe quella che distingue sì “fra Dio e Dio”, ma vede nel primo termine il Dio amante che va verso l’amato – l’umanità – e nel secondo il Dio fattosi uomo per amore, perché l’amore vero s’incarna sino alla condivisione ontologica con l’amato, si fa altro con l’altro, senza mai usurparne l’identità o annullarlo. In questo senso Paolo dice che “Dio sarà tutto in tutti” (1 Cor, 15, 28). Ma allora non c’è un Dio che abbandona; c’è piuttosto un Dio che entra nell’abbandono umano, vissuto dal Figlio, e lo vive come un uomo, ossia chiedendo a Dio stesso “perché ?”. Come già fece Giobbe (Gb 7, 20-21). Ma questa volta, nel morente che grida e che gridando si affida[51], è già operante la prossimità, la presenza, la risposta di Dio: “nella passione del Figlio è il Padre stesso che soffre il dolore dell’abbandono”[52].

Dalla profonda differenza tra la lettura giuridica e quella agapica si può comprendere che l’incontro con il senso custodito nel mistero cristiano non dipende, dal punto di vista concettuale, dal privilegiare l’una o l’altra delle tre prospettive implicate, né dall’opzione per un particolare “luogo decisivo”[53] della vicenda di Gesù. Tale incontro dipende dal mantenere sia la correlazione tra esse, sia quella degli eventi e degli atti della storia di Gesù entro una logica fedele al nucleo dell’autorivelazione divina, che è poi Dio stesso come Amore vivente[54], libero ed eternamente operante: “io sono la resurrezione e la vita” (Gv 11, 25). Perciò si tratta di non smarrire mai il riferimento allo Spirito che, considerato da un’angolatura epistemologica, indica la ragione immanente all’amore divino, la sua forza amorevole. E’ invece fuorviante introdurre, come chiave esplicativa, quella logica giuridico-retributiva cui si è fatto tradizionalmente ricorso per spiegare l’amore stesso. La chiave, il luogo decisivo, non sta in un atto singolo (creazione, parola, promessa, alleanza, esodo, incarnazione, predicazione, morte, resurrezione), ma è l’amore di Dio, cioè Dio nell’unità della sua vita. Prendere sul serio lo Spirito significa seguire la logica unitaria e polifonica dell’amore.

Una volta entrati in questo sguardo, credere nella resurrezione non è in nulla più arduo che credere nella creazione. Se infatti un Padre-e-Madre dona la vita alle sue creature, come pensare che lo faccia per consegnarli alla distruzione della morte ?[55] Se la forza del suo amore è tale da creare esseri liberi, perché poi Dio, avendo lasciato piena autonomia alla libertà umana, non avrebbe a sua volta la libertà di vincere la distruzione della morte ? La direzione delle risposte a queste domande, già evidente nella prospettiva teocentrica, conduce ad approfondire la dinamica per cui questo Dio giunge a farsi Figlio dell’Uomo e “infinito fratello”[56] di tutti.

La seconda prospettiva che incontriamo è quella cristocentrica per cui la resurrezione di Gesù è la rivelazione dell’essere umano[57] nel suo compimento: esistere come figlio di Dio. Gesù è nuovo Adamo (Rm 5, 14) e la sua è una nuova nascita[58] che non consiste affatto in un ritorno alla vita precedente, poiché è invece il pieno ritorno al Padre (Gv 13, 1). Il Risorto manifesta che la promessa di vita eterna è per tutta l’umanità e che ha già iniziato a realizzarsi. Il coinvolgimento universale degli esseri umani e del creato è significato dal fatto che quella di Gesù è resurrezione del “corpo” (soma), evento che inaugura anche per noi la possibilità della resurrezione della “carne” (sarx)[59]. Questi termini, ambedue presenti nella Scrittura cristiana, indicano rispettivamente che la nuova vita abbraccia, trasfigurandola[60], tutta la persona in ciò che è e nelle sue relazioni costitutive (resurrezione corporea) e nel contempo riguarda l’umanità intera e il creato (resurrezione della carne). Che poi “carne” (sarx) indichi un modo d’essere soggetto al peccato, attesta che la resurrezione non è solo dalla morte fisica, ma dal male. La resurrezione non può essere fraintesa come una sorta di magia, di premio, di assicurazione sulla vita, di immortalità dell’anima. Nella vicenda di Gesù essa è invece l’esplosione dell’infinita reciprocità tra la libera e definitiva adesione di Gesù all’amore del Padre e la libera e definitiva risposta d’amore da parte del Padre stesso. Letto dalla nostra condizione questo evento compie anzi non tanto il miracolo dell’amore di Dio per l’umanità, quanto il miracolo del totale amore di un uomo per Dio e per tutti.

Per continuare a seguire la logica agapica nella prospettiva cristologica è necessario tentare di orientarsi rispetto al rapporto tra la morte in croce e la resurrezione stessa. L’opposizione tra le due suggerisce un movimento dialettico fuorviante. Si tratta allora di uscire dal gioco di specchi che rimanda morte e vita l’una all’altra per cogliere la specificità di questo rapporto. Si deve fare attenzione a non considerare la resurrezione restando all’interno di un pensare secondo la morte. Se si adotta senza discernimento la complessa semantica del morire e della morte[61], attribuendo a quest’ultima la facoltà di condurre al “tutto è compiuto” (Gv 19, 30)[62], non solo la resurrezione e il ritorno del Risorto, ma l’infinita reciprocità tra l’amore del Figlio e quello del Padre restano oscurate. Così l’attenzione si sposta sul dare la vita offrendo la propria morte, con un’impercettibile ma decisiva inversione per cui il morire, non l’amare, sarebbe salvifico[63].

Per uscire da questo groviglio occorre chiarire i significati compresi nel termine “morte”. Esso copre in realtà due versanti contrapposti. Da una parte c’è la morte-distruzione: la morte fisica, ma anche quella morte vissuta che è determinata dalle molte forme di distruzione che ci infliggiamo gli uni gli altri durante l’esistenza. In questo senso la morte, ogni morte, è espressione del male. Di qui il valore fondamentale e ricapitolativo del comandamento: “non uccidere” (Es 20, 13). Quando non c’è più neppure la minima esperienza di bene dato, ricevuto, condiviso, incontrato, lì c’è propriamente “morte”[64]. “Morte” e “vita” infatti non sono categorie puramente fisiche, ma riguardano l’assumere o il rifiutare l’esperienza dell’amore, dunque la relazione con Dio e con il prossimo. Esemplare, in tal senso, è la parabola del padre generoso e del figlio ritrovato (Lc 15, 11-32): la rottura della relazione con il Padre e con il fratello è, per il figlio più giovane, un’esperienza di morte in vita[65]. Da essa egli esce solo riaprendosi all’amore (“rientrò in se stesso”: Lc 15, 17) e imparando a lasciarsi accogliere dal quel Padre che esclama: “facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc 15, 24).

D’altra parte, la parola “morte” designa impropriamente una soglia, quella attraversata da un movimento di trasfigurazione, di una nascita radicale e dell’accesso a una comunione eterna[66]. La “morte”, in questa accezione, come il modo di morire di Gesù e in quanto atto d’amore, si esprime nell’ultima parola “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito” (Lc 23, 46). Dio è il vero futuro di Gesù, dell’umanità e del creato[67]. Ciò che compie e ciò che è compiuto sono lo stesso: l’amore umano pienamente coicidente con l’amore divino. Non la morte, né il sacrificio espiatorio. Ecco allora l’invito: “non cercate tra i morti colui che è vivo” (Lc 24, 5). Chi vive è l’uomo e figlio divino compiuto. Per questo non dobbiamo cercare nella morte il compimento. La dinamica di eventi che comprende la crocifissione e la resurrezione non ha il suo centro nella morte-distruzione, che da entrambe è confutata, ma nell’amore incondizionato del Figlio e del Padre[68]. Una volta riportata l’attenzione su questa infinita relazione d’amore, la quale è il cuore della storia di Gesù e coinvolge pienamente l’umanità e il creato, si può effettivamente riconoscere la portata ermeneutica del fatto che per la fede cristiana il riferimento cristologico è fonte normativa ineludibile di discernimento, nel senso che è credibile rispetto al mistero di Dio solo ciò che Gesù ha detto, operato e vissuto, mentre non è credibile ciò che contrasta con questo suo essere esegesi vivente del Padre (Gv 1, 18) o ciò che è stato apertamente escluso da Gesù stesso[69].

Gli sviluppi della prospettiva cristologica pongono la questione: come possiamo partecipare della nuova vita del Risorto e della liberazione dal male che essa comporta ? Si apre con tale domanda la terza prospettiva sulla resurrezione, quella pneumatocentrica. Lo Spirito Santo si manifesta come presenza amorevole di Dio e di Gesù stesso presso gli esseri umani come forza di liberazione dal male subìto e dalla morte-distruzione. Già nell’invocazione “liberaci dal male” (Mt 6, 13) è formulato il desiderio umano di resurrezione, che include anche il male agito e la colpa. In quest’ottica la resurrezione appare come la conferma del perdono richiesto da Gesù per i crocifissori: il Risorto è perdono vivente[70]. Questo è il principio dell’avvento della giustizia di Dio. Una giustizia che non condanna, ma libera gli esseri umani dalla soggezione verso il male e dal timore della morte. E’ la manifestazione del fatto che il vero amore toglie la paura[71]. Si comincia allora a cogliere qualcosa di ciò che intendeva Paolo affermando: “in lui siete stati resuscitati” (Col 2, 12; cfr. anche 3, 1). Noi, in una certa misura e seppure ancora non in forma definitiva, possiamo partecipare della vita risorta[72]. Amando come Gesù siamo già in un altro presente, quello della vita eterna di Dio. Gesù stesso lo rivela esprimendosi con i verbi al presente: “chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Gv 5, 24)[73]. Anche per questo non ha senso allontanare da noi gli effetti della resurrezione intendendola come un premio futuro. Essa investe anzitutto il presente. La liberazione dal male che la resurrezione inaugura è offerta come una corrente di vita radicalmente nuova[74] che giunge ad abbracciare i morti e le vittime nella vita di Dio. E’ futuro della creazione, ma anche presente operante.

Nelle parole e nell’agire di Gesù si intende che la resurrezione è dei “vivi”[75], ossia di quanti già ora aderiscono all’amore divino e lo ricomunicano. Nella sua richiesta di perdono e nella misericordia con cui Egli ha davvero visto[76] e consolato i peccatori si capisce, a mio parere, che la liberazione da ogni morte è però anche l’abbraccio di Dio a coloro che sono “morti”, nel senso che nella loro esistenza si sono estromessi da ogni corrente d’amore. In tal modo è superata una concezione meritocratica della resurrezione: essa resta il dono che compie la promessa secondo cui il nostro amore non sarà annullato e neppure noi, nonostante la colpa anche estrema, lo saremo. Perché ciò che Dio opera è la resurrezione degli amati. E proprio i non amanti e i non amabili da nessuno sono visti[77], riconosciuti, amati dal Padre in modo che la loro vita non sia definitivamente annullata: “Dio va in cerca di ciò che è perduto” (Qo, 3, 15). Questa è la libertà del suo amore, che senza ledere la nostra non se ne lascia neutralizzare. Si può allora sentire, nella Passione di Gesù, la sua compassione; nel suo abbandono, il vivere su di sé il destino di tutti gli abbandonati. Nell’affermazione che Gesù è morto per noi la risonanza abituale è quella del sentirci riscattati e, in fondo, ancora colpevoli della sua sofferenza e della sua morte. Così viene sviata l’attenzione dal fatto che nella morte di Gesù il “prendere su di sé” non è questione di espiazione, ma di compassione. Dio vive nel Figlio tutta la sofferenza umana, cosicché il Crocifisso e le vittime della storia umana si coappartengono e si identificano in un mistero che solo l’amore appassionato e misericordioso può riconoscere[78]. Nel cristianesimo gli altri non sono amati solo per amare Dio[79], non sono strumenti di un rapporto privato tra Gesù, o tra il singolo credente, e il Padre, ma sono amati ciascuno nella sua unicità.

Parlare di esperienza della resurrezione all’interno della vita che conduciamo porta ad approfondire il versante dell’analogia tra la storia di Gesù e la comune umanità. Dal versante della differenza, irriducibile all’analogia, si chiarisce che la resurrezione di Gesù fu liberazione dalla morte subìta, mentre ogni nostra liberazione non è solo dal male e dalla morte subìti, ma dal male e dalla morte perpetrati[80]. Ecco l’infinita differenza qualitativa[81]. La mentalità religiosa cristallizzerebbe questa differenza rendendola un muro di separazione che confina l’umano nella colpa e il divino nella perfezione, per cui la resurrezione finirebbe per apparire come un premio per l’avvenire riservato ai pochi meritevoli. Invece l’amore di Dio è non meno infinito della differenza stessa e non smette di comunicare alle sue creature la qualità del suo amore, il potere di amare già ora come Dio stesso ama.

Come è pensabile per noi un rapporto di partecipazione alla vita risorta e alla sua qualità d’amore ? O si tratta di un rapporto mentale – pensare secondo l’idea di resurrezione e sforzarsi di vivere di conseguenza -, oppure è una relazione con Gesù risorto tale che in essa, con la forza dello Spirito, noi sperimentiamo una nascita radicale[82]. La metafora della nascita può essere rivelativa e fedele a questo mistero della fede cristiana a condizione che non sia piegata verso un’ideologia della resurrezione, che faccia del cristiano un superuomo e della religione una sfera separata dalla vita comune dell’umanità[83]. Che cosa vuol dire, qui, “nascita” ? Mi sembra che indichi la trasformazione di tutto ciò che in noi è vita in amore e, nel contempo, la trasformazione del modo umano di amare, sempre inquinato da impulsi distruttivi, in un amare divino[84]. Cosicché tutto ciò che costituisce una persona – i bisogni e il corpo, i desideri e la libertà, la ragione e gli affetti, la solitudine e le relazioni – sia trasfigurato e unificato nel diventare veramente figlie e figli, esistendo per e con gli altri, considerati sorelle e fratelli[85]. Questo è l’ingresso del nostro presente nel presente di Dio[86]. Per capire dove e come questo possa darsi il trionfalismo religioso non ci è di aiuto. Tutto ciò può accadere solo nell’esistere come Gesù, entrando in quell’oscurità della storia che comporta lo stare con i perseguitati, con i respinti, con gli irredenti, con i sacrificati, con gli esuberi, con i condannati, portando amore lì dove si è assediati dalla morte. Dove ci sono persone che, dal fondo della loro sofferenza e anche da quella in cui sono entrate per amore di altri, per non abbandonarli, fronteggiano le esperienze della morte-distruzione, lì è partecipata la resurrezione di Gesù. Queste persone non hanno alcuna garanzia di non essere travolte. Storicamente anzi lo sono in molti casi e agli occhi dell’analista metodologicamente corretto le loro vite amanti non risultano, inconsistenti proprio come la tomba vuota e le apparizioni del Risorto.

 Ermeneutica della creaturalità

A questo punto dobbiamo guardare a noi stessi. Intanto, per chiarire che cosa c’è nel nostro sguardo quando ci sforziamo di comprendere un messaggio provocatorio come quello della resurrezione, per prendere coscienza del luogo da cui pensiamo. Poi per verificare se – al di là di un rapporto di semplice alternativa: ciò che vale nella semantica della resurrezione è escluso a priori nella condizione umana e viceversa – l’attenzione ai tratti strutturali e tipici dell’esistenza così come noi la conosciamo permetta ai due universi di senso di interpretarsi a vicenda.

Una simile ipotesi euristica può essere utile a condizione che il gioco non sia truccato. Voglio dire che, se l’analisi antropologica riguardata come ermeneutica della creaturalità[87] presupponesse una metafisica della creazione[88] basata sull’idea di Dio come risposta obbligata a tutte le questioni di fondo, allora la concordanza con l’ordine semantico della rivelazione divina, ivi compresa la resurrezione, sarebbe già decisa fin dall’inizio. Non vi sarebbe affatto, in questo caso, alcuna distanza tra il codice evangelico e l’autocomprensione dell’essere umanamente al mondo. Questa tensione di fatto invece sussiste per tutti, anche per i credenti in Dio. Ecco un dato importante che rinvia alla piena libertà ermeneutica degli esseri umani, i quali non sono affatto costretti ad abbracciare la fede in un Dio che si manifesti con evidenza incontrovertibile, cosicché la fede stessa dovrebbe essere sostituita dalla semplice percezione. D’altronde, proprio la rivelazione cristiana, compresi i racconti della resurrezione e del nuovo incontro tra Gesù e i suoi, esclude il quadro esplicativo più ovvio, quello della metafisica dell’onnipotenza, e chiede un cammino che conduca a una logica agapica, da ricercare “nei punti di silenzio, nelle antigrandezze del mondo”[89], perché quello della verità evangelica resta un codice nascosto “agli intellettuali e ai sapienti” e rivelato solo “ai piccoli” (Lc 10, 21).

Come si configurano i tratti essenziali della condizione umana entrando nella costellazione della creaturalità, se in questa semantica non ci si fonda sulla tesi di un Dio creatore onnipotente, se non ci si appella al Dio-risposta ? Lo scarto si delinea a partire dal riconoscimento della nostra peculiare originalità, ascoltandola senza correre a spiegarla. Di per sé questo concetto dice non tanto che in principio c’è un Creatore onnipotente, la cui sovranità renderebbe superfluo e irrilevante il finito, quanto che non siamo ontologicamente autosufficienti: la vita per noi è vita ricevuta. Ma mentre l’impostazione religiosa e metafisica classica qui vede una dipendenza, si tratta piuttosto di portare l’attenzione sul dato dell’unicità. Senza che noi sappiamo nulla dell’origine della vita come tale, essa ci costituisce come esseri originali: ciascuno è unico. Il concetto di originalità non dà una risposta, apre il pensiero al mistero di una relazione con ciò che ci fa essere in virtù e al di là della generazione biologica. Questa originalità non rimanda a quella specie di ipercontingenza travestita da necessità metafisica che sarebbe l’onnipotenza[90], ma a una relazione di dono, per quanto misteriosa sia[91].

Come ogni vero dono apre e guarda al futuro del donatario, così la nostra originalità ha un orientamento specifico, quello della futurità[92]. Futurità paradossale, perché ci interpella nella finitezza. Da mortali temiamo ogni cosa, ma desideriamo tutto come fossimo immortali[93]. Nell’intenzione di felicità che costituisce il desiderio, che si può intravedere nel sogno e sentire nella speranza e che investe il cammino della libertà, sperimentiamo un movimento di trascendimento. Finché nel maturare dell’amore, noi siamo questo trascendimento e comunichiamo futurità. Quando infatti giungiamo all’altro come liberi donatori amorevoli, più che all’illimitato prolungamento del presente e alla nostra sopravvivenza, siamo protesi al per-sempre del dono che offriamo a chi amiamo, il che vale eminentemente nel dono di noi stessi.

Ma proprio questo appare precluso. Se consideriamo la futurità dalla finitezza si vede che la prima non attenua la seconda. La radicalizza. E mostra come questa sua radicalità derivi dal fatto che il finito, per noi, anziché essere assoluto e dunque circolarmente acquietato in sé, è sproporzionato, aperto come una ferita. Ecco perché l’essere umano è più vulnerabile dell’animale. Ciò è evidente non tanto nel fatto che la persona tende a non accettare la propria morte e può farlo solo all’estremo limite delle sue possibilità, quanto nel dato per cui nessuno accetta l’annullamento del suo amore, se questo è profondo, scelto, capace di unificare tutto ciò che siamo. E’ assolutamente inaccettabile che l’amore abbia fine nella distruzione dell’amato e della relazione, che si sia amato invano[94].

Quanto a noi stessi, la morte è più che un limite fisico estremo. Essa non colpisce solo il corpo, ma anche l’anima. Ossia l’identità profonda, libera, misteriosa di ciascuno, il nucleo sorgivo della personalità. L’esperienza storica indica che l’anima delle persone è mortale, non gode di alcuna garanzia d’immortalità[95]. Si pensi a quelli che chiamiamo “mostri”, alla totale banalità o stupidità[96] che li avvolge e li svuota della loro umanità. Eccezioni ? Guardiamo ancora più vicino a noi: non ci sono forse esperienze ed eventi che feriscono mortalmente la nostra anima, non ci sono stagioni intere della nostra vita che passiamo in questa morte, senza più memoria né desiderio ? Letta da questa angolatura la condizione umana assomiglia a una crocifissione senza resurrezione.

Se d’altro canto leggiamo la finitezza dalla futurità, quella che si delinea non è una patria nell’aldilà, ma la responsabilità creaturale della persona umana. Per avere un’idea fedele della nostra condizione dobbiamo legare originalità, futurità e finitezza alla responsabilità. Questa è la categoria più adatta a orientare l’ermeneutica della creaturalità. Infatti è solo nella scoperta e nella libera assunzione dell’esistenza responsabile che la creatura umana diventa pienamente persona giungendo a completare la sua nascita[97]. Di quale responsabilità si tratta ? In quanto creature esposte alla morte e alle distruzioni del male subìto e agito, siamo chiamati a vivere creativamente, in modo da disimparare ogni giorno il ricorso a logiche e pratiche distruttive per scegliere invece modalità di esistenza dialogiche, comunionali, risanatrici. E’ una responsabilità poetica, per la sua creatività nel rinnovare originalmente le dinamiche del bene condiviso, ed euristica, per la sua capacità di trovare e aprire strade lì dove c’erano barriere sperimentate come insormontabili. Nel partecipare alla vita e nell’abitare il mondo secondo questo metodo possiamo accedere a un’innocenza relativa ma attiva. Relativa, perché non siamo immuni al male e alla colpa e perché soltanto grazie alla relazione con altri possiamo conoscere una liberazione da entrambi. Attiva, perché l’innocenza – il non operare il male – accade effettivamente per noi allorché unifichiamo il nostro essere in un’azione che sia confutazione del male stesso. Per contro, ogni complicità con la distruttività è un tradimento di quella condizione creaturale che per noi non è solo un luogo, ma una vocazione. La prospettiva della resurrezione interpella l’originalità, la futurità e la finitezza umane perché anzitutto si rivolge alla responsabilità: che io creda o no a questa “leggenda”, essa mi fa capire che sono chiamato a cercare e a vivere esperienze di “resurrezione” dal male per quanto sarà possibile, senza onnipotenze e senza magie. Dall’interno di questo orientamento fondamentale potrò riconsiderare, libero da malafede, la questione del senso e della verità del messaggio evangelico incarnato in Gesù.

A questo punto si possono esplicitare le indicazioni essenziali che provengono dall’ermeneutica reciproca tra semantica della resurrezione e ascolto dell’esistenza creaturale umana. Leggere la resurrezione dalla creaturalità vuol dire superare l’ideologia della resurrezione retributiva, meritocratica, magica, perché il fulcro di tutto non è l’onnipotenza divina o la sopravvivenza dell’io, ma il destino dell’altro, degli altri, la responsabilità per gli amati estesa all’universalità delle creature viventi. Leggere la creaturalità dalla resurrezione significa spingere il pensiero a cercare ancora, oltre lo scenario metafisico che vede nella vita un prestito da trattenere per sé fin quando la morte, invicibile creditore e padrone di tutto, la distruggerà. Da questo secondo versante di comprensione si profilano due prospettive.

La prima riguarda il confronto con la morte[98]. Noi sperimentiamo la precarietà di chi è in carcere o quella del viaggio ? Ed è vero che in tale precarietà cerchiamo la sopravvivenza a tutti i costi ? Nell’impulso alla sopravvivenza c’è qualcosa che non va preso alla lettera e neppure condannato[99], ma va riconosciuto per ciò che significa. “Il nostro spazio – ha scritto Ernst Bloch – è sempre la vita o qualcosa di più, mai di meno”[100]. La vita cerca nuova vita. Ma finché avanti a sé vede solo la morte, questo impulso è incline ad affermarsi trasferendo, per quanto possibile, la morte sugli altri. Se esso potesse veramente vedere, saprebbe distinguere il futuro dalla morte stessa. Vogliamo una vita che sia più della vita. Il nostro essere al mondo confina da un lato con la morte, dall’altro con l’amore. La vita, per noi, è esistenza perché può trascendersi da una parte o dall’altra. La storia di Gesù invita a ripensare questi confini mostrando che la stessa parola “morte” non può ricomprendere in sé i versanti totalmente opposti della distruzione e del passaggio trasfigurante. Questa seconda dimensione si comprende se anzitutto ricordiamo che la condizione umana non è una condizione statica, ma un viaggio. La vita chiede sì di essere mantenuta, salvata, ma nel contempo chiede di essere trasfigurata, di non essere assunta così com’è immediatamente, poiché vuole arrivare a conoscere una perfezione, un compimento che ora intravede solo con il desiderio e con la rivolta.

Un’esistenza liberata sarebbe una vita posta completamente oltre ogni forma di distruttività. L’ipotesi di questa trasformazione è sensata ? L’unica via per indicarne la plausibilità è il riferimento alle esperienze di passaggio e di nascita che facciamo durante l’esistenza. Esperienze di un compimento che non sia una fine, ma una trasfigurazione e una liberazione. Si obietterà che durante la vita possiamo pur avere simili esperienze, ma infine la morte-distruzione spazza via tutto, quindi l’analogia non dice nulla. Si può rispondere però considerando meglio ciò che davvero esperiamo. Infatti incontriamo delle forme di “sopravvivenza” che non si risolvono nel ripetere l’esistenza nota, perché sono il rinnovarsi in altra forma di un’esistenza che era stata interrotta. Sono le forme della persistenza trasfigurata dell’essere.

Dentro il flusso della vita interiore, nel costante costituirsi del sé personale ed eventualmente nella relazione con le persone amate scomparse, c’è una forma di assunzione della vita perduta dell’altro che va ben oltre il ricordo. Questa è interiorizzata ed entra a far parte dell’essenza vivente della persona. Inoltre, insieme all’interiorizzazione degli amati scomparsi nel sé di chi resta, vediamo che l’amore interrotto vive altrimenti. Esso tende a tradursi in relazioni ulteriori, porta frutto per altre persone. E così rivive. Non è un caso limite, ma la condizione naturale e universale dell’amore profondo. Ciò non vale solo per la fecondità biologica, per cui nei figli perdura altrimenti la presenza amorevole dei genitori; vale per tutti coloro che entrano nella reciprocità in dilatazione – mai confinata alla coppia – generata dall’amore. Quando esso matura non si limita ai due che si amano, ma si riversa su altri. E’ la scena illuminante di Gesù che affida, dalla croce, sua madre al discepolo prediletto e lui a lei (Gv 19, 26-27). Sotto la croce Maria nasce di nuovo come madre, il discepolo come figlio. Ogni vero amore si incarna e incarnandosi coinvolge altri. Questa è la sua esperienza dell’infinito. Ecco la vita più della vita che oscuramente cerchiamo sin dal cosiddetto “istinto di sopravvivenza”.

Allargando il campo visivo, possiamo capire che dentro le tradizioni, le opere, le realizzazioni storiche agisce una creatività creaturale i cui effetti perdurano e non cessano con l’estinzione fisica delle persone che l’hanno espressa. L’amore porta frutto al di là di questo limite. E’ una forma di persistenza trasfigurata della vita che fonda tutto ciò che di positivo noi conosciamo. La vita del mondo non poggia sul nulla, ma è sostenuta da questa tradizione di trasfigurazione. Tutto ciò che esiste vive davvero trasfigurandosi. Ciò può accadere solo attraverso la forza del bene condiviso, mediante una qualità creativa d’amore che si sprigiona quando questo è gratuito non solo nel senso che è donato, ma anche nel senso che è libero dalla distruttività.

Dal punto di vista della ragione, congedarsi dall’abitudine a fare della morte-distruzione la nostra verità permette di restituire alla morte come tale il suo statuto di soglia del mistero ultimo della vita. Questo mutamento di prospettiva non comporta l’adesione obbligatoria a una metafisica dell’aldilà, ma libera lo spazio affettivo e concettuale per cogliere come realmente la condizione umana non sia semplicemente finita, perché in effetti è un nesso costitutivo tra finito e infinito. Mi riferisco sia all’infinito etico incarnato in ogni essere umano e nella vita del mondo, sia a quell’infinito che è la verità stessa, chiunque sia e qualunque nome abbia.

La seconda prospettiva dischiusa dal considerare la creaturalità secondo la semantica della resurrezione cristiana permette di approfondire il senso della responsabilità storica riconsiderandola in un esodo definitivo da qualunque razionalità vittimaria. Se la morte è la verità ultima, allora per noi il potere di infliggerla ad altri tende sovente a diventare l’istanza risolutiva, il modo essenziale di decidere le questioni e di dare forma alla storia[101]. E’ diventato un luogo comune quello che denuncia la rimozione della morte stessa dalla coscienza collettiva. Fenomeno effettivamente percebile, ma solo negli strati di superficie della cultura. In realtà nei suoi strati profondi la morte ha, più che cittadinanza, una vera e propria sovranità. Storicamente, infatti, quasi tutte le culture si sono rivelate immerse, in misura rilevante, appunto in una razionalità vittimaria secondo la quale è necessario, naturale, razionale, efficace, creativo, salvifico produrre vittime, metterle nel conto e comunque accettare questo fatto[102]. Una simile razionalità, che si diffonde come un contagio, ha la sua radice nel pensare secondo la morte. L’intuizione metafisica degli uomini che stringono alleanza con lei e che programmaticamente si dispongono a esercitare la loro prepotenza sui deboli è fissata in questa affermazione: “la nostra esistenza è il passare di un’ombra e non c’è ritorno alla nostra morte poiché il sigillo è posto e nessuno torna indietro” (Sap 2, 5).

Se al contrario la morte è vincibile, non ha più alcun senso produrla, infliggerla agli altri, o anche a se stessi. Finché essa appare invincibile, più alta del valore delle vite, allora l’uomo può voler ricorrere all’astuzia che lo illude di fare del male e della morte uno strumento[103]. E’ di fronte a questa pretesa che si manifesta il significato politico della resurrezione di Gesù: se crediamo che anche la morte possa essere vinta e che effettivamente lo sia stata, come rassegnarsi ad accettare la violenza, l’ingiustizia, la guerra ? Come dichiararle realtà insuperabili ?[104] Come credere ancora nel male ? Qui sta il punto determinante, che non è solo quello del credere in Dio oppure del credere nel nulla, perché anzitutto è quello del revocare il nostro credito al male, reimpostando la questione della verità ultima della vita dall’interno di questa esperienza di liberazione.

Non sto affatto sostenendo la tesi secondo cui opererebbe il bene solo chi crede nel Dio di Gesù e nella sua resurrezione, mentre chi non crede sarebbe destinato a operare il male. Una tesi del genere ci riporterebbe a quella che ho denunciato come l’ideologia religiosa della resurrezione, ideologia del resto smentita dal fatto che sono esistite ed esistono molte persone che vivono la responsabilità etica e politica, sino a dare la vita per gli altri, senza credere nella resurrezione o in un aldilà. L’elemento dirimente rimane non quello dell’alternativa tra religione e ateismo, ma quello tra l’appassionamento amorevole al bene degli altri e, invece, un pensare secondo la morte che ci spinge ad allontanare la distruzione da noi destinandola a loro. Chi è disposto a scegliere questa passione viene provocato dall’annuncio evangelico della resurrezione come dalla possibile rivelazione della nostra vera condizione, quella per cui ha senso credere che l’amore sia più forte della morte, la stessa per cui essere creature vuol dire diventare figlie e figli di Dio.

 Conclusione

 Ho iniziato la mia riflessione dall’oscillazione tra disincanto e autoironia. Ora si aggiungono altri due motivi apparentemente divergenti, ma profondamente uniti. La resurrezione attesta infatti, da un lato, l’eccesso gratuito e appassionato dell’amore di Dio e, dall’altro, il principio del compimento di una giustizia assoluta, quella dell’amore misericordioso e rigenerativo. Nel nostro tempo questo secondo versante si pone in primo piano, insieme all’invito di Gesù: “cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia, e il resto vi sarà dato in dono” (Mt 6, 33; Lc 12, 31). La crocifissione è una tortura[105], il segno universale di come il male, quando si afferma, sottopone allo strazio l’essere umano e le creature viventi. La crocifissione, in quanto crimine degli uomini, è il segno che il male può catturare, torturare e mandare a morte la vita creata e il Figlio stesso di Dio, ma non può distruggere né l’una né l’altro. Se è così, il racconto della vita, della Passione, della morte e della resurrezione di Gesù non è forse una parabola, una narrazione che riporta l’attenzione su di noi ? Per noi, che come occidentali[106] siamo storicamente cristiani ma condividiamo le colpe di una civiltà accecata dalla presunzione della propria superiorità, la vita amante, torturata sulla croce e risorta resta lo specchio che ci mostra i nostri deliri di morte per quello che sono. Uno specchio che ci rimanda due verità: quella secondo cui la nostra colpa chiede pentimento, conversione e soprattutto restituzione dei diritti agli offesi, e quella misericordiosa dell’universale attualità dell’invito pasquale: se cercate l’umanità, in ciascuno e in tutti, non cercate tra i morti quello che è accolto nella vita di Dio. Dal duplice confronto con la semantica della resurrezione e con la nostra creaturalità alla filosofia resta una prospettiva illuminante: quella per cui ci umanizza solo l’appassionamento alla vita e al bene degli altri. Il soggetto di questo riconoscimento è qualcuno che sente la violenza innaturale del male, della separazione, della fine nel centro della sua passione d’amore. E’ la traccia che ci ha lasciato Bonhoeffer.

Solo quando si riconosce l’impronunciabilità del nome di Dio si può anche pronunciare finalmente il nome di Gesù Cristo; solo quando si ama a tal punto la vita e la terra, che sembra che con esse tutto sia perduto e finito, si può credere alla resurrezione dei morti e a un mondo nuovo[107].

Qui la disperazione non è puramente biologica, né è causata dal fallimento imminente delle speranze di sopravvivenza. Chi dispera, intanto, è la ragione, poiché non vede alcuna via di liberazione e di riscatto dalla mortalità universale. Non è però una ragione ipocondriaca. Chi dispera, con la ragione, è l’amore; è l’essere umano nel suo indivisibile appassionarsi e patire. Il punto più oscuro per noi è pensare che non vedremo più chi abbiamo amato. Perché chi è in questa lucida disperazione potrebbe iniziare a credere ? Perché la sua stessa passione[108] lo spinge a non accordare più alla morte alcuna sovranità. La ragione amante intuisce che la morte non ha titolo per porsi come la vera destinazione del cammino umano e del mondo, né rappresenta una vocazione che possa legittimamente attirarci[109].

Nella passione della ragione amorevole può accadere quel risveglio che consiste nel vedere, inaspettatamente, la finitezza della morte. Quest’ultima, dice la rivelazione biblica, non ha un principio nella creazione. Piuttosto, che intervenga nel decesso o nelle molte forme del male, essa ha soltanto un inizio. E poi anche la sua fine. Questo annuncio non accontenterà le richieste di dimostrazione, ma mi sembra ugualmente essenziale per arrivare a comprendere chi è in verità un essere umano. In tale prospettiva s’impara a essere rigenerati nella misura in cui si prende distanza critica da ogni forma di alleanza con la morte. Ciò che conta non è il primato di una teologia della resurrezione, ma l’essere attratti verso l’amore misericordioso. Se in esso Dio si fa riconoscere, come attesta la storia del Crocifisso Risorto, allora è possibile che l’amore disperato trovi la sua luce. E che nel disincanto della ragione critica sorga quell’autoironia, che è già la soglia dell’affidamento. Questa ragione, ha scritto Horkheimer, “sa che non c’è nessun Dio, ma crede in Lui”[110].

[1] Testo rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 10.3.2005 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.

[2] Su questo punto rimando a: G. ESSEN, Historische Vernunft und Auferweckung Jesu, Mainz, Matthias Grunewald, 1995, pp.161-294; M. DENEKEN, La foi pascale. Rendre compte de la résurrection de Jésus aujourd’hui, Paris, Editions du Cerf, 2002, pp.126-144.

[3] L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, London, Routledge and Kegan Paul, 1961 (Ia ed.1921), prop. 7, tr. it. di A. Conte con lo stesso titolo, Torino, Einaudi, 1983, p.82. Per contro Adorno ha osservato che in tal modo Wittgenstein “ignora ciò che soltanto importa in filosofia; questa è appunto la paradossalità di tale impresa, che si tratta di dire con lo strumento del concetto ciò che con lo strumento del concetto a rigore non può essere detto, di dire ciò che è propriamente indicibile” (TH. W. ADORNO, Philosophische Terminologie, Frankfurt, Suhrkamp, 1973, tr. it. di A. Solmi, Terminologia filosofica, Torino, Einaudi, 1975, vol. I, pp.50-51)

[4] Cfr. M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Tubingen, Niemeyer, 1927, tr. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 1976, pp.316-324.

[5] Ibid., p.319. Jon Sobrino, da parte sua, afferma invece: “la prima condizione ermeneutica per comprendere la resurrezione di Gesù è una speranza contro la morte e l’ingiustizia” (J. SOBRINO, Christology at the Crossroads, New York, Orbis Book, 1978, p.380).

[6] Su questo punto, in relazione, alla resurrezione cristiana, ha insistito J. GUITTON nel saggio Philosophie de la résurrection, in ID., Œuvres complètes, Paris, Desclée de Brouwer, 1978, vol.IV, tr. it. di L. Rolfo, Filosofia della resurrezione, Roma, Paoline, 1981.

[7] Agostino sottolinea che le due indicazioni, il riferimento allo specchio e quello all’enigma, vanno tenute insieme: cfr. SANT’AGOSTINO, De Trinitate, Libro XV, IX, 16, tr. it. di C. Borgogno, Sulla Trinità, Alba, Edizioni Paoline, 1977, p.599.

[8] Riferendosi alla resurrezione P. SEQUERI (Il Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale, Brescia, Queriniana, 1996, p.202) scrive: “l’evidenza di un simile accadere (…) non è data nella forma di una oggettività incontrovertibile, ma piuttosto in quella di una oggettività simbolica, intesa a sollecitare la libera decisione di accogliere la verità che vuole mostrarsi”.

[9] A. CAMUS, L’Homme révolté, Paris, Gallimard, 1951, tr. it. di L. Magrini, L’uomo in rivolta, in ID., Opere, Milano, Bompiani, 2000, p.626.

[10] In proposito rinvio a quanto ho proposto nei testi seguenti: Il silenzio, via verso la vita, Magnano, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, 2002, pp.57-112; Godimento e verità. La vocazione metafisica del desiderio, in AA.VV., Metafisica del desiderio, a cura di C. Ciancio, Milano, Vita e Pensiero, 2003, pp.3-21; Ermeneutica del desiderio. Un viaggio attraverso “Il principio speranza” di Ernst Bloch, “Annuario filosofico”, n.16, 2000, pp.289-313.

[11] Penso in particolare alla filosofia kantiana e, nel Novecento, alle prospettive di Marcel, Bloch, Zambrano e Levinas.

[12] Cfr. W. PANNENBERG, Grundzuge der Christologie, Gutersloh, Mohn, 1964, tr. it. di G. Poletti, Cristologia. Lineamenti fondamentali, Brescia, Morcelliana, 1974, p.93: “la fenomenologia della speranza dimostra che è essenziale per una esistenza umana cosciente e vigile sperare al di là della morte”.

[13] Tenendosi a distanza da questo ottimismo Bonhoeffer scrive: “la fede nella resurrezione non è la ‘soluzione’ del problema della morte” (D. BONHOEFFER, Widerstand und Ergebung, Munchen, Kaiser Verlag, 1951, tr. it. di A. Gallas, Resistenza e resa, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1996, p.351).

[14] La critica a entrambi, in quanto forme culturali cristallizzate, non danneggia, ma favorisce la ricerca della fede e della ragione. In questo orizzonte si possono incontrare i percorsi di tutti quelli che, di solito proprio provenendo dalla religione o dall’ateismo, hanno acquisito una distanza da entrambi. Alludo in particolare alla testimonianza resa in tal senso, ad esempio, da Barth, Bonhoeffer, Buber, Bloch, Zambrano e Capitini.

[15] Maria Zambrano ha evidenziato questa segreta disperazione in quel tipo di cristianesimo che storicamente ha generato il nichilismo: “anche per il cristiano la comunione non si compie; non annulla definitivamente la differenza da sopportare, quel soffrire per Dio, per la sua lontananza, la sua inaccessibilità. E così comparve un tipo di cristiano già senza speranza nella comunione, accecato sempre più dalla morte, fino a esserne affascinato; sono quelli attratti dal nulla e in cerca di annichilimento, ultimo segreto forse (…) di ogni quietismo dichiarato o nascosto: il disperare di raggiungere una perfetta e unica comunione” (M. ZAMBRANO, El hombre y lo divino, Città del Messico, Fondo de Cultura Economica, 1955, tr. it. di G. Ferraro, L’uomo e il divino, Roma, Edizioni Lavoro, 2001, p.135).

[16] Questo mi sembra evidente, in particolare, nella critica delle antinomie della cosmologia: cfr. I. KANT, Kritik der reinen Vernunft, in Kant’s Werke, Akademische Ausgabe, Berlin, Reimer, vol.IV: 1911, tr. it. di G. Colli, Critica della ragion pura, Milano, Adelphi, 1980, pp.467-599.

[17] Su questo punto cruciale per l’autocomprensione della filosofia rimando all’analisi di G. FERRETTI nel volume Ontologia e teologia in Kant, Torino, Rosenberg & Sellier, 1997.

[18] Cfr. I. KANT: op. cit., p.380-393 e 790 e Kritik der praktischen Vernunft, in Kant’s Werke, cit., vol.V: 1908, tr. it. di F. Capra, Critica della ragion pratica, Bari, Laterza, 1974, pp.135-159.

[19] “Se il legame della croce e della resurrezione è nell’ordine del paradosso e non della mediazione logica, la libertà secondo la speranza non è più solo libertà per il possibile, ma, più fondamentalmente ancora, libertà per la smentita della morte, libertà per decifrare i segni della resurrezione sotto l’apparenza contraria della morte” (P. RICOEUR, Le conflit des interprétations, Paris, Seuil, 1969, tr. it. di R. Balzarotti, F. Botturi e G. Colombo, Il conflitto delle interpretazioni, Milano, Jaca Book, 1977, p.423).

[20] Ibid., pp.428 e 430.

[21] “Il concetto kantiano di illusione trascendentale (…) è di una fecondità filosofica inesausta, che fonda una critica radicalmente diversa da quella di Feuerbach o di Nietzsche. E’ perché c’è un legittimo pensiero dell’incondizionato che è possibile l’illusione trascendentale e quindi questa non procede dalla proiezione dell’umano nel divino, ma al contrario dal riempimento del pensiero dell’incondizionato secondo la modalità dell’oggetto empirico. Ecco perché Kant può dire che non è l’esperienza che limita la ragione, ma la ragione che limita la pretesa della sensibilità ad estendere la nostra conoscenza empirica, fenomenica, spazio-temporale all’ordine noumenico” (ibid., p.428).

[22] Ibid., p.433.

[23] I. KANT, Kritik der praktischen Vernunft, tr. it. cit., p.150; riportato da P. RICOEUR: cfr. op. cit., p.433.

[24] Cfr. P. RICOEUR, op. cit., p.434. In seguito, ne La critique et la convinction (Paris, Calmann-Lévy, 1995, tr. it. di D. Iannotta, La critica e la convinzione, Milano, Jaca Book, 1997, p.223), l’autore riprenderà questo tema sottolineando in particolare, in rapporto alla vicenda di Gesù, che “forse bisogna ripensare tutta la tradizione del sacrificio a partire dal dono”.

[25] Lo stesso Ricoeur, nella fase più recente della sua ricerca, sembra ridefinire così il rapporto tra la prima e la seconda struttura di accoglimento del senso intenzionato dalla speranza cristiana che erano state messe in luce ne Le conflit des interprétations. Ora egli insiste sul momento pratico per cui la vera vittoria sulla morte sta nel servizio agli altri e, per quanto riguarda se stessi, nell’ “essere vivi fino alla morte” e nel “fare dell’atto del morire un atto di vita” (La critique et la convinction, tr. it. cit, p.219). Per quanto concerne la verità ontologica della resurrezione Ricoeur sfuma la questione: affermando: “che Dio, dopo la mia morte, faccia di me quello che vuole” (ibid., p.222). Sullo sviluppo dell’ermeneutica ricoeuriana del cristianesimo cfr. J. GREISCH, Le buisson ardent et les lumières de la raison, Paris, Editions du Cerf, tomo III: 2004, pp.735-916.

[26] L’espressione, usata dal principe Miskin ne L’idiota di Dostoevskij (cfr. F. DOSTOEVSKIJ, Idiot, Mosca, 1868, tr. it. di G. Faccioli, L’idiota, in ID., Tutti i romanzi, Firenze, Sansoni, 1984, vol.I, p.821), è accostabile a quella di Pascal, che parla del “fare professione dei due contrari” (B. PASCAL, Le Pensées, ed. Chevalier n.790, in Oeuvres complètes, Paris, Gallimard, 1954, tr. it. di A. Bausola e R. Tapella, Pensieri, Opuscoli, Lettere, Milano, Rusconi, 1990, p.738). Su questo punto cfr. I. MANCINI, Scritti cristiani. Per una teologia del paradosso, Genova, Marietti, 1991; G. FERRETTI, Filosofia e teologia cristiana. Saggi di epistemologia ermeneutica, Napoli, E.S.I., 2002, vol.II, pp.100-111.

[27] Cfr. S. DAVIS, Risen Indeed. Making Sense of the Resurrection, Grand Rapids, Eerdmans, 1993, pp.29-42.

[28] A riguardo rimando al mio volume Il dono del senso. Filosofia come ermeneutica, Assisi, Cittadella editrice, 1999.

[29] In questa relazione costitutiva con il mistero risiede, a mio avviso, il punto principale di differenziazione tra il metodo ermeneutico e la fenomenologia trascendentale di Husserl, orientata invece al fine scientifico della trasparenza razionale della verità nella visione eidetica ed, esistenzialmente, a “una vita nell’apoditticità” (E. HUSSERL, Die Krisis der europaischen Wissenschften und die transzendentale Phanomenologie, in Husserliana, Den Haag, Nijhoff, 1954, vol.VI, tr. it. di E. Filippini, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, il Saggiatore, 1983, p.289).

[30] Si veda in proposito il numero monografico di “Concilium”, n. 5, 1993, intitolato Reincarnazione o risurrezione ?; cfr. anche: R. PANIKKAR, Che accade all’uomo quando muore ?, “Bozze 80”, n. 5-6, 1980, pp.117-136; E. DREWERMANN, “Ich steige hinab in die Barke der Sonne“, Olten, Walter Verlag, 1989, tr. it. di A. Valtolina, Io discendo nella barca del sole. Meditazioni su morte e resurrezione, Milano, Rizzoli, 1993.

[31] Si veda in particolare il testo di Dn 12, 2 ss. .

[32] Cfr. K. LONING, Risurrezione e apocalittica biblica, “Concilium”, n. 5, 1993, pp.96-105. Cfr. anche A. TORRES QUEIRUGA, Repensar la resurreccion. La diferencia cristiana en la continuidad de las religiones y de la cultura, Madrid, Editorial Trotta, 2003. Bonhoeffer ha insistito sulla novità della speranza cristiana perché essa non scavalca, ma assume la comune umanità. Contestando l’ipotesi secondo cui il cristiano avvrebbe già la sua assicurazione nell’aldilà grazie alla resurrezione di Gesù egli scrive: “il baricentro cade allora in ciò che è al di là rispetto al limite della morte. E proprio qui io vedo l’errore e il pericolo. Redenzione significa allora redenzione dalle preoccupazioni, dalle pene, dalle paure e dalle nostalgie, dal peccato e dalla morte, in un aldilà migliore. Ma sarebbe questo il punto essenziale dell’annuncio di Cristo contenuto nei vangeli e in Paolo ? Lo nego. La speranza cristiana della resurrezione si distingue da quelle mitologiche per il fatto che essa rinvia gli uomini alla loro vita sulla terra in modo del tutto nuovo e ancora più forte che nell’Antico Testamento. Il cristiano non ha sempre un’ultima via di fuga dai compiti e dalle difficoltà terrene nell’eterno, come chi crede nei miti della redenzione, ma deve assaporare fino in fondo la vita terrena e solo così facendo il crocifisso e risorto è con lui ed egli è crocifisso e risorto con Cristo. In questo Nuovo e Antico Testamento restano concordi. I miti della redenzione nascono dalle esperienze umane del limite, Cristo invece afferra l’uomo al centro della sua vita” (D. BONHOEFFER, op. cit., p.412).

[33] Cfr. Catechismo della Dottrina Cristiana, Milano, Ancora, 1956, p.18: “i misteri principali di nostra santa fede sono due: 1° Unità e Trinità di Dio; 2° Incarnazione, passione e morte di nostro Signore Gesù Cristo”. In merito cfr. F. G. BRAMBILLA, La resurrezione di Gesù. Evento di salvezza, “Servitium”, n. 104, 1996, pp.10-28.

[34] J. B. METZ, Zur Theologie der Welt, Mainz, Matthias Grunewald Verlag, 1968, tr. it. di G. Ruggieri, Sulla teologia del mondo, Brescia, Queriniana, 1974, p.93.

[35] Cfr. K. BARTH, Kirchliche Dogmatik, Zurich, E.V.Z., vol. III/2: 1948, p.443; J. MOLTMANN, Theologie der Hoffnung, Munchen, Kaiser Verlag, 1964, tr. it. di A. Comba, Teologia della speranza, Brescia, Queriniana, 1970, p.170; K. RAHNER, Grundkurs des Glaubens, Freiburg, Herder, 1976, tr. it. di C. Danna, Corso fondamentale sulla fede, Alba, Edizioni Paoline, 1977, pp.343-367.

[36] Faccio riferimento, per l’esegesi dei testi evangelici, agli studi seguenti: S. VIDAL, La resurreccion de Jesus en las cartas de Pablo, Salamanca, Sigueme, 1982, tr. it. di T. Tosatti, La resurrezione di Gesù nelle lettere di Paolo, Assisi, Cittadella editrice, 1985; I. CABA, Cristo, mia speranza, è risorto, Alba, Edizioni Paoline, 1988; M. E. BOISMARD, Faut-il encore parler de « résurrection » ? Les données scripturaires, Paris, Editions du Cerf, 1995, tr. it. di F. Savoldi, La nostra vittoria sulla morte : « risurrezione » ?, Assisi, Cittadella editrice, 2000; B. RIVELLINO, Gesù crocifisso è risorto. Dal primo annuncio ai racconti evangelici, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1999; S. BARLONE, Le apparizioni del Risorto agli undici, Assisi, Cittadella editrice, 1998; B. MAGGIONI, I racconti evangelici della risurrezione, Assisi, Cittadella editrice, 2001.

[37] Per la teologia della resurrezione cfr. H. KESSLER, Sucht den Lebenden bei den Toten. Die Auferstehung Jesu Christi in biblischer, fundamentaltheologischer und systematischer Sicht, Dusseldorf, Patmos Verlag, 1985 (nuova ed. Wurzburg, Echter Verlag, 1995), tr. it. di C. Danna, La resurrezione di Gesù Cristo. Uno studio biblico, teologico-fondamentale e sistematico, Brescia, Queriniana, 1999; P. CARNLEY, The Structure of Resurrection Belief, Oxford, Oxford University Press, 1987; G. O’COLLINS, Jesus Risen. An Historical, Fundamental and Systematic Examination of Christ’s Resurrection, New York, Paulist Press, 1987, tr. it. di V. Occhipinti Gozzini e G. Volpe, Gesù risorto, Brescia, Queriniana, 2000; ID., Interpreting the Resurrection, New York, Paulist Press, 1989; M. DENEKEN, Le Salut par la Croix dans la théologie catholique, Paris, Editions du Cerf, 1988; P. AVIS (Ed.), The Resurrection of Jesus Christ, London, D.L.T., 1993; S. T. DAVIS, op.cit.; K. B. OSBORNE, The Resurrection of Jesus, New York, Paulist Press, 1997; F. G. BRAMBILLA, Il Crocifisso Risorto, Brescia, Queriniana, 1998; S. DAVIS – D. KENDALL – G. O’COLLINS (Eds.), The Resurrection. An Interdisciplinary Symposium on the Resurrection of Jesus, Oxford, Oxford University Press, 1997, tr. it. di M. Zappella, La risurrezione. Un simposio interdisciplinare sulla risurrezione di Gesù, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2002; A. TORRES QUEIRUGA, op. cit.; M. DENEKEN, op.cit. .

[38] Cfr. G. BARBAGLIO, Vita eterna e resurrezione della carne, « Servitium », n.104, 1996, p.31: “Dio non ha niente a che fare con la morte: egli è il Dio della vita” .

[39] Mi riferisco in particolare ai seguenti testi: Mt 28; Mc 16; Lc 24; Gv 5; 20; 21; At 17, 16-34; 26, 8-23; Rm 6; 1 Cor 15; 2 Cor, 4 e 5; Gal 6; Ef 2; Fil 3; Col 3; 1 Ts 4, 13-18; 2 Tm, 2, 8-13; 1 Pt 3, 18-22; Ap 20.

[40] Affiora non di rado una tendenza alla riduzione del senso della resurrezione, per cui si ritiene che essa sia la metafora di un processo che non riguarda più Gesù dopo la sua morte, ma la sua comunità. Cfr. ad esempio: W. MARXSEN, Die Auferstehung Jesu von Nazareth, Gutersloh, Mohn, 1968, tr. it. di C. Benincasa, La resurrezione di Gesù, Bologna, Dehoniane, 1970; S. Mc FAGUE, Models of God, Philadelphia, Fortress Press, 1987, tr. it. di M. Sbaffi Girardet, Modelli di Dio, Torino, Claudiana, 1998; G. LUDEMANN, Die Auferstehung Jesu, Stuttgart, Im Radius Verlag, 1994.

[41] Cfr. J. MOLTMANN, Theologie der Hoffnung, tr. it. cit., pp.143-169.

[42] Cfr. G. O’ COLLINS, op. cit., pp.149-170; H. KESSLER, op.cit., pp.284-287; M. DENEKEN, op. cit., pp.504-522.

[43] Cfr. la relazione di W. PANNENBERG, La resurrezione come speranza umana e come evento storico, Macerata, 2004. Di questo autore, che ha insistito sulla storicità effettiva della resurrezione, dei suoi segni e dei suoi effetti, ricordo in particolare Grundfragen systematischer Theologie, Gottingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1971, tr. it. di D. Pezzetta, Questioni fondamentali di teologia sistematica, Brescia, Queriniana, 1975, pp.30-93.

[44] Cfr. G. GUTIERREZ, Teologia de la liberacion, Lima, CEP, 1971, tr.it. di L. Bianchi, Teologia della liberazione, Brescia, Queriniana, 1972, pp.158-161; H. KESSLER, op. cit., pp.308-309; J. MOLTMANN, Der Weg Jesu Christi, Munchen, Kaiser, 1989, tr. it. di D. Pezzetta, La via di Gesù Cristo, Brescia, Queriniana, 1991, pp.290-298.

[45] Cfr. K. BARTH, op. cit., vol. III/2, pp.445-449.

[46] E. JUNGEL, Gott als Geheimnis der Welt, Tubingen, Mohr, 1977, tr. it. di F. Camera, Dio mistero del mondo, Brescia, Queriniana, 1982, p.472.

[47] Cfr. J. MOLTMANN, Der gekreuzigte Gott, Munchen, Kaiser, 1972, tr. it. di D. Pezzetta, Il Dio crocifisso, Brescia, Queriniana, 1973.

[48] Cfr. M. ZAMBRANO, op. cit., pp.129-136.

[49] E. JUNGEL, op. cit., p.483.

[50] “L’incarnazione di Dio è (…) da prendersi sul serio fino alla durezza dell’abbandono da parte di Dio del Figlio fatto per noi peccato e maledizione. Non c’è qui alcun vangelo senza tutta la durezza della legge che metta in luce la differenza fra Dio e Dio come l’ira di Dio verso il peccatore” (ibid.).

[51] Qui, secondo Hansjurgen Verweyen, Dio stesso pronuncia la sua parola ultima e definitiva: si veda la sua relazione Ermeneutica dell’evento della resurrezione di Gesù, Macerata, 2004. Cfr. inoltre H. VERWEYEN: “Auferstehung”: ein Wort verstellt die Sache, in ID (Hrsg.), Osterglaube ohne Auferstehung ?, Freiburg, Herder, 1995, pp.105-144; Gottes letztes Wort. Grundriss der Fundamentaltheologie, Regensburg, Verlag Friedrich Pustet, 2000, tr. it. di C. Danna, La parola definitiva di Dio. Compendio di teologia fondamentale, Brescia, Queriniana, 2001, pp.409-440. Questo morire di Gesù, per amore di tutti, è la compiuta rivelazione di Dio, alla quale la credenza nella resurrezione non aggiungerebbe nulla di essenziale; essa andrebbe piuttosto intesa, secondo Verweyen, come rigenerazione della fede dei discepoli. Per la critica a questa concezione, nella quale la resurrezione da mistero diviene metafora puramente umana, cfr. H. KESSLER, op. cit., pp.407-426; M. DENEKEN, op. cit., pp.428-430; F. G. BRAMBILLA, Il Crocifisso Risorto, cit., pp.86-121.

[52] J. MOLTMANN, Der gekreuzigte Gott, tr. it. cit., p.223. Cfr. Anche J. SOBRINO, op. cit., p.269.

(53) Il riproporsi della disputa tra teologi sul “luogo decisivo”, nella quale si privilegia o la vita di Gesù, o la croce, oppure la resurrezione in sé, in certo modo è anche l’effetto inavvertito e involontario della comprensione della resurrezione stessa solo per differenza, in una differenza assoluta, che non coglie anche l’evento di questa novità dentro la vita di Gesù e dentro le vite degli esseri umani. Così proprio l’evento unificante della resurrezione viene pensato da approcci che spezzano un senso intero.

[54] Cfr. 1 Gv, 4, 8.

[55] Nel pensare il Dio di Gesù, il riferimento analogico a paternità e maternità umane – da unire, oltre ogni proiezione maschilista – è insieme fondamentale e minore. Fondamentale, perché dà il senso della relazione creaturale fondata sull’amore; minore, perché paternità e maternità umane non sono affatto il criterio e il modello di quelle divine, ma rappresentano un simbolo esistenzialmente incerto di ciò che sono la vera paternità e la vera maternità di Dio, dove non c’è mai abbandono: “mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto” (Sal 27, 10).

[56] A. CAPITINI, Religione aperta, Vicenza, Neri Pozza editore, 1964, p.244.

[57] Cfr. L. BOFF, A ressurreiçao de Cristo. A nossa ressurreiçao na morte, Petropolis, Vozes, 1974, tr. it. di A. Sorsaja, La nostra resurrezione nella morte, Assisi, Cittadella editrice, 1975, pp.65-75.

[58] Cfr. K. BARTH, op. cit., vol. I/1: 1932, pp.158 ss; nonché il vol. IV, tomi 1, 2 e 3 (rispettivamente pubblicati negli anni 1953, 1955, 1959). Eugen Drewermann, da parte sua, ravvisa l’annuncio di questa nuova nascita già nell’invito, presente in Mc 10, 15 (cfr. anche Mt 18, 3 e Lc 18, 17), a tornare come bambini: cfr. E. DREWERMANN, Das Markusevangelium, Olten, Walter Verlag, 1987-1988, tr. it. di A. Laldi, Il vangelo di Marco, Brescia, Queriniana, 1995, pp.282-292. Sulla connessione tra la resurrezione il dinamismo della nuova nascita si veda la relazione di E. FALQUE, Nascita e metamorfosi della finitezza. Un paradigma per la resurrezione ?, Macerata, 2004.

[59] L. BOFF, op. cit., pp.85-89 e 104-107. M. DENEKEN (op. cit., pp.396-417) privilegia la categoria del corpo (soma) su quella della carne (sarx). Cfr anche G. ESSEN, op. cit., pp.356-370 e H. KESSLER, op. cit., pp.445-453; inversa è ad esempio la concezione di E. FALQUE, op. cit. .

[60] Generalmente c’è accordo tra gli studiosi nel ritenere che non si tratta della rianimazione di chi, da cadavere, ritorna alla vita precedente e però ridiventa così, ancora una volta, soggetto alla morte.

[61] Sulla morte di Gesù cfr. X. L. DUFOUR, Face à la mort. Jesus et Paul, Paris, Seuil, 1979, tr. it. di M. Care, Di fronte alla morte: Gesù e Paolo, Torino, LDC, 1982; R. E. BROWN, The Death of the Messiah, New York, Doubleday, 1994, tr. it. di A. Nepi e S. Venturini, La morte del Messia, Brescia, Queriniana, 1999.

[62] Una tendenza di questo tipo è presente nell’interpretazione di H. VERWEYEN: cfr. “Auferstehung”: ein Wort verstellt die Sache, cit. . Un simile riconoscimento alla morte del rango di compimento della vita non sarebbe legittimo neppure se fosse sostenuto in nome dell’appello ad “accettare la finitezza”: questo invito rimane infatti estraneo alla Scrittura cristiana, per la quale il punto è piuttosto accettare la figliolanza nei confronti del Padre.

[63] Per la critica di questa inversione, che rimane il nucleo delle letture sacrificali della croce di Gesù, rimando alle osservazioni da me proposte nel volume L’ascolto come radice. Teoria dialogica della verità, Napoli, E.S.I., 1995, pp.161-177.

[64] Cfr. J. MATEOS – F. CAMACHO, El horizonte humano: la propuesta de Jesus, Cordoba, El Almendro, 1988, tr. it. di A. Luridiana, L’alternativa Gesù e la sua proposta per l’uomo, Assisi, Cittadella editrice, 1989, p.78: “la morte può essere concepita in due modi: a) come morte in vita, quella di ogni uomo che nella sua esistenza si lascia ingannare dai falsi valori di un sistema oppressore, rinunciando all’esercizio della propria libertà e al dispiegamento della sua capacità di amare e b) come morte fisica, quella che pone fine al processo biologico dell’uomo”. Cfr. anche H. KESSLER, op.cit., p.281: “ al di fuori della bontà di questo Dio tutti sono perduti e (in fondo già adesso) ‘morti’: solo lui fa rivivere i ‘morti’ “.

[65] L’analogia con una dinamica di resurrezione è notata da G. O’COLLINS: cfr. Jesus Risen, tr. it. cit., p.225.

[66] E’ chiaramente in questo senso che Bonhoeffer può scrivere: “vieni, ora, festa suprema” (op. cit., p.448; cfr. anche p.455: “sulla strada della libertà la morte è la festa suprema”), mentre Gesù stesso, al cospetto della morte-distruzione, chiede al Padre: “allontana da me questo calice” (Mt 26, 39; Mc 14, 36; Lc 22, 42).

[67] Cfr. K. RAHNER, Was heisst Auferstehung ?, Freiburg, Herder, 1985, tr. it. di C. Danna, Che cos’è la resurrezione ?, Brescia, Queriniana, 1992, p.26: “se guardiamo a Gesù, possiamo credere che con la morte una vita non cade nel vuoto abisso dell’assurdità, ma nell’abisso di Dio“.

[68] Questo dato fondamentale, che parrebbe persino ovvio, è stato in realtà trascurato anche da molte teologie della resurrezione, come ha rilevato G. O’ COLLINS in Jesus Risen, tr. it. cit., pp.217-232.

[69] Cfr. K. RAHNER, Grundkurs des Glaubens, tr. it. cit., p.212-213.

[70] Cfr. K. BARTH, op. cit., vol. IV/1: 1953, pp.297-306. Cfr. anche B. KLAPPERT, Diskussion um Kreuz und Auferstehung, Wuppertal, Aussaat Verlag, 1976.

[71] Cfr. 1 GV 4, 18: ”nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore”. Su ciò cfr. E. DREWERMANN, op. cit., pp.537-538; F.-J. NOCKE, Eschatologie, Dusseldorf, Patmos Verlag, 1982, tr. it. di E. Gatti, Escatologia, Brescia, Queriniana, 1985, p.63.

[72] Cfr. F. G. BRAMBILLA, La resurrezione di Gesù. Evento di salvezza, cit., p.25. Cfr. anche K. BARTH, op. cit., vol. IV/1, pp.312 ss. . Moltmann, da parte sua, dopo aver inizialmente escluso questa possibilità di partecipazione vedendo nella resurrezione un riferimento analogico del futuro finale, ma non un’esperienza attuale (cfr. J. MOLTMANN, Theologie der Hoffnung, tr. it. cit., p.185), la recupera e la valorizza sino a parlare di resurrezione come processo in atto nella nostra storia (cfr. J. MOLTMANN, Der Weg Jesu Christi, tr. it. cit., pp.274-279).

[73] Cfr. anche Gv 3, 15-16 e 36; 6, 47.

[74] Cfr. J. MATEOS – F. CAMACHO, op. cit., pp.76-77 e 135-139.

[75] “Chiunque vive e crede in me non morrà in eterno” (Gv 11, 26). Insiste su questo punto A. MAGGI: cfr. I vivi non muoiono, i morti non risorgono, Assisi, 2001, pubblicato nel sito http://www.studibiblici.it .

[76] Cfr. A. MAGGI, Parabole come pietre, Assisi, Cittadella editrice, 2001, p.63: “effetto dello sguardo di Dio è sempre la compassione”.

[77] “La visione sarà perfetta solo quando nessuna oscurità sarà stata abbandonata alla sua sorte, quando anche il buio più profondo della caverna che è il cuore umano salirà alla luce. E il corpo stesso trasfigurato potrà entrare, senza cessare di essere corpo, nello splendore della sua luce, quando avrà smesso di opporre resistenza alla luce e potrà essere trapassato, senza aver cessato di essere corpo. Allora si sarà conseguito il regno della visione, del Dio che vede” (M. ZAMBRANO, op. cit., p.119).

[78] Ne La peste di Camus questa identificazione traspare, proprio lì dove la tragedia è tale da suscitare la rivolta contro ogni divinità metafisicamente onnipotente, nel racconto della morte atroce e irredenta di un bambino torturato dalla peste: “quando il flutto ardente lo raggiunse di nuovo, per la terza volta, e lo sollevò un poco, il bambino si accartocciò, si rifugiò in fondo al letto nello spavento della fiamma che lo bruciava e agitò follemente la testa, buttando via la coperta. Grosse lacrime, spuntando dalle palpebre infiammate, cominciarono a scorrere sul volto plumbeo, e alla fine della crisi, contraendo le gambe ossute e le braccia, la cui carne si era dissolta in quarantott’ore, il bambino prese, nel letto devastato, una grottesca posa di crocifisso” (A. CAMUS, La Peste, Paris, Gallimard, 1947, tr. it. di B. Dal Fabbro, La peste, in ID., Le opere, Torino, UTET, 1960, p.297).

[79] Per una protesta contro questo amore strumentale si veda quanto scrive E. DE MARTINO nel volume La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Torino, Einaudi, 1977. Nel contesto della sua critica al cristianesimo inteso come “un grande rituale funerario per una morte esemplarmente redentiva del vario morire storico e come pedagogia del distacco e del trascendimento rispetto a ciò che muore” (p.291), l’autore scrive: “perché dovrei avere bisogno oggi (…) dell’opzione a favore dell’immagine del Dio-Uomo per amare gli uomini e per mettere me stesso in causa davanti ai loro dolori e alle loro miserie ?” (p.332).

[80] Per il tema della resurrezione come fonte di impegno etico nella prassi quotidiana cfr. O. O’DONOVAN, Resurrection and the Moral Order, Grand Rapids, Eerdmans, 1986.

[81] Cfr. S. KIERKEGAARD, Sygdommen til Doden, in ID., Samlede Vaerker, Copenhagen, Gyldendal, 1982, vol. XV, tr. it. di C. Fabro, La malattia mortale, in ID., Opere, Firenze, Sansoni, 1972, pp.686-692.

[82] Ha scritto A. GOUHIER (Pour une métaphysique du pardon, Paris, Editions de l’Epi, 1968, p.238): “l’adesione a un padrone passerà per l’ascesi e per la guerra se il suo piano lo esige; ma la via di una rinascita non comporta la messa a morte, da parte del Padre, di colui che Egli chiama a nascere una seconda volta. Se un uomo muore sulla croce per guardare insieme a me un Padre che non condanna mai, quand’anche io stesso mi allontanassi infinitamente da Lui, allora, con quest’uomo che sulla croce mi rivela che è il Figlio, anch’io posso voler diventare Figlio”.

[83] Una sfera separata che poi, secondo il tipico movimento dell’integrismo religioso, vuole inglobare tutta l’esistenza e la società. Dualismo e integrismo, apparentemente contrapposti, sono tutt’uno. I cristiani che agiscono in questa logica consacrano le loro opere all’accumulazione del massimo potere possibile, finendo così agli antipodi dell’agire di Gesù.

[84] Così suona un verso di Alda Merini: “Io sono il tuo testimone, tu sei il mio cuore” (A. MERINI, L’altra verità. Diario di una diversa, Milano, Rizzoli, 2000, p.146).

[85] “Fede è partecipare a questo essere di Gesù” (D.BONHOEFFER, Widerstand und Ergebung, tr. it. cit., p. 462). Sulla nostra partecipazione, in virtù dello Spirito, alla vita risorta di Cristo cfr. E. HOFMAN, Unser jenseitiger Leib, Leutesdorf, Johannes Verlag, 1987.

[86] Su questo punto è molto chiara la riflessione di E. FALQUE, op. cit. .

[87] In proposito rimando al mio articolo Riconoscimento e creaturalità, “Servitium”, n.152, 2004, pp.41-62. Ricordo anche il saggio di A. RIZZI, Ermeneutica della creaturalità, in AA.VV., Ermeneutiche della finitezza, a cura di G. Ferretti, Pisa – Roma, I.E.P.I., 1997, pp.185-197, che insiste non sull’onnipotenza, ma sulla benevolenza di Dio.

[88] Una chiara sintesi della critica a questa metafisica, dove il Dio creatore è inteso secondo la logica dell’onnipotenza, è tracciata da M. RUGGENINI nel saggio Il dono della parola e la verità dei discorsi, in AA.VV., Il codice del dono. Verità e gratuità nelle ontologie del Novecento, a cura di G. Ferretti, Pisa, I.E.P.I., 2003, pp.133-169. La differenza della mia prospettiva rispetto a tale critica sta nel fatto che, a mio avviso, quest’ultima si rivolge con giustificata protesta contro un’immaginazione teologico-metafisica che vede Dio come Potenza assoluta, ma non anche contro la rivelazione, da parte di Gesù, del Dio che è amore. Le due teologie non sono affatto sovrapponibili; quando ciò è stato tentato storicamente non è emersa la verità dei Vangeli, ma il delirio di onnipotenza della cristianità costituita.

[89] E. BLOCH, Das Prinzip Hoffnung, Frankfurt, Suhrkamp, 1959, tr. it. di T. Cavallo ed E. De Angelis, Il principio speranza, Milano, Garzanti, 1994, vol.III, p.1457.

[90] Infatti all’onnipotenza di un Essere o di una Divinità che può tutto, ossia indifferentemente qualsiasi cosa, si addicono gli stessi tratti della contingenza: poter essere e persino poter non essere per autonegazione, potere il bene o potere il male: è un modo d’essere cieco, neutro, magico, immaginato da chi, più che un reale incontro con il divino, cerca l’antidoto al proprio sentimento di impotenza. Il sentimento di dipendenza della creatura dinanzi al Sacro, enfatizzato nella teoria della religione che va da Schleiermacher a Otto, va benissimo per le proiezioni dell’uomo religioso, ma è un ostacolo dinanzi al Dio di Gesù.

[91] Ho sviluppato questa ipotesi nel saggio Il dono dell’origine, in AA.VV., Il codice del dono, cit., pp.187-217. Sulle possibilità metafisiche della semantica del dono ricordo il nitido quadro tracciato da S. LABATE ne La verità buona. Senso e figure del dono nel pensiero contemporaneo, Assisi, Cittadella editrice, 2004.

[92] Prendo il termine da P. FREIRE, Pedagogia do oprimido, Rio de Janeiro, Paz e Terra, 1969, tr. it. di L. Bimbi, La pedagogia degli oppressi, Milano, Mondadori, 1976, p.33.

[93]Omnia tamquam mortales timetis, omnia tamquam immortales concupiscitis” (SENECA, De brevitate vitae, 3,1, tr. it. a cura di G. Viansino, in ID., Dialoghi, Milano, Mondadori, 1993, vol. II, p.300).

[94] In merito ricordo lo studio di I. CARUSO, Die Trennung der Liebenden. Eine Phanomenologie des Todes, Bern – Stuttgart, Hans Huber Verlag, 1974, tr. it. di A. Cinato, La separazione degli amanti. Una fenomenologia della morte, Torino, Einaudi, 1988.

[95] “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna“ (Mt 10, 28).

[96] Cfr. rispettivamente H. ARENDT, Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, New York, The Viking Press, 1963, tr. it. di P. Bernardini, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 1997, e D. BONHOEFFER, op. cit., pp.64-66.

[97] Dinamica etica e dinamica generativo-maieutica, qui, si fondono. Per approfondire questa verità antropologica e metafisica andrebbero ripresi insieme, a mio avviso, i percorsi esemplari di Emmanuel Levinas e di Maria Zambrano.

 

[98] Cfr. La relazione di L. BASSET, Pasqua: un altro sguardo sulla morte, Macerata, 2004.

[99] Nella Ballata della sincerità al De Profundis Rafael Alberti esprime l’universale legittimità di tale impulso: “Signore, al De Profundis,/ oggi t’invoco, anche se non credo/ che m’ascolti, ma sei/ ancora una parola/ appresa da bambino/ e a volte, come questa sera,/ non è male ripeterla./ Signore, essere vento, Signore./ Vento, essere campo, Signore./ Campo, essere erba, Signore./ Erba, essere nido, Signore./ Nido, essere piuma, Signore./ Piuma, essere nube, Signore./ Nube, essere cielo, Signore./ Cielo, essere pioggia, Signore./ Pioggia, essere fiume, Signore. / Fiume, essere nave, Signore./ Nave, essere fumo, Signore./ Fumo, essere mari, Signore. / Mari, essere luna, Signore. / Luna, essere lampo, Signore. / Lampo, essere tuono, Signore./ Tuono, essere calma, Signore. / Calma, essere ira, Signore. / Ira, essere verde, Signore. / Verde, essere azzurro, Signore. / Azzurro, essere nero, Signore. / Nero, essere nebbia, Signore. / Nebbia, essere chiaro, Signore. / Chiaro, essere alba, Signore. / Alba, essere giorno, Signore. / Giorno, essere giorno, Signore. / Qualunque cosa si vede, / galleggi, voli o sprofondi, / che sappia che sta nell’aria, / che sta nella terra o nell’acqua./ Essere qualcosa, qualcosa/ eccetto quel che son ora:/ un poeta, le radici / recise al vento, divise, / secca voce, non irrigata, / uomo lontano, solo/ forzatamente lontano, / che vede calare la sera/ col timore della notte. / Qualunque cosa, ma viva, / per quanto piccola sia. / Sì, qualunque cosa, Signore, / ma viva, qualunque cosa…” (da AA.VV., Poesia spagnola del ‘900, a cura di O. Macrì, Milano, Garzanti, 1974, vol. II, pp.764-767).

[100] E. BLOCH, Spuren, Frankfurt, Suhrkamp, 1959, tr. it. a cura di L. Boella, Tracce, Milano, Coliseum edizioni, 1989, p.39.

[101] Winnicott, con la sensibilità di chi si concentra sistematicamente sulle condizioni migliori per lo sviluppo della persona umana, ha segnalato che una cultura di questo tipo è sostanzialmente depressiva e che, in alternativa, proprio l’idea di resurrezione suggerisce la possibilità di un cammino psicologico ascensivo: cfr. D. W. WINNICOTT, Through Paediatrics to Psycho-Analysis, London, Tavistock Publications, 1958, tr. it. di C. Ranchetti, Dalla pediatria alla psicoanalisi, Firenze, Martinelli editore, 1975, pp.164-165.

[102] Nel contesto dei suoi studi sulle esperienze di interruzione forzata delle relazioni d’amore, considerate come fenomeni di morte fra viventi, I. CARUSO (op. cit., p.28) ha giustamente rilevato che “multiformi sono le maschere dell’ideologia che legittimano la morte”.

[103] Per la critica del paradigma politico del “male minore”, usato come uno strumento, cfr. M. REVELLI, La politica perduta, Torino, Einaudi, 2004.

[104] Quanto poco la cristianità occidentale e anche non poche espressioni del cattolicesimo politico abbiano radici in una teologia vivificata dalla fede evengelica della resurrezione è evidente dal loro tradizionale pessimismo storico e dal loro ancestrale conservatorismo. In un’omelia del 1932, commentando l’esortazione di Paolo (“se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù” Col 3, 1), Bonhoeffer si chiedeva: “è mai possibile che il cristianesimo, iniziato in modo così rivoluzionario, ora sia per sempre conservatore ?” (D. BONHOEFFER, Gesammelte Schriften, Munchen, Kaiser Verlag, vol. II: 1959, tr. it. di M. C. Laurenzi, Scritti, Brescia, Queriniana, 1979, p.153).

[105] Cfr. E. DREWERMANN, Das Markusevangelium, tr. it. cit., pp.496-498.

[106] In un contesto senza dubbio profondamente diverso da quello in cui furono formulate, valgono tuttavia anche per noi le parole che Jaspers rivolse al popolo tedesco dopo la seconda guerra mondiale: “un popolo è responsabile per la forma di governo alla quale si adatta” (K. JASPERS, Die Schuldfrage, Munchen, Piper, 1979, Ia ed. 1946, tr. it. di R. De Rosa con il titolo La colpa della Germania, Napoli, E.S.I., 1947, p.66).

[107] D. BONHOEFFER, Widerstand und Ergebung, tr. it. cit., p.225.

[108] In un’omelia del 1934 Bonhoeffer scrive: “sperare tutto senza amore è folle leggerezza e ottimismo, sperare tutto per amore è la forza grazie a cui un popolo e una chiesa possono risollevarsi” (D. BONHOEFFER, Gesammelte Schriften, tr. it. cit., p.419).

[109] Cfr. K. BARTH, op. cit., vol. I/1, p.141.

[110] M. HORKHEIMER, Gesammelte Schriften, Frankfurt, Fischer Verlag, 1988, vol. XIV, p.508.