Seneca nel bimillenario della nascita

Autori: Lana Italo

Io sono molto grato al professor Perrini e al professor Cova a cui mi lega un’antica amicizia per quanto hanno detto di me e per l’articolo che hanno scritto sul giornale. Sono segni di amicizia autentica e di stima, che ricambio pienamente. Io conosco in piccola misura l’azione di questa cooperativa che il professor Perrini ha creato ventidue anni fa, e mi ha colpito la prima cosa tra le tante attività di questa cooperativa che è l’interesse per il movimento della rosa bianca di resistenza al nazismo degli studenti dell’università di Monaco, al quale movimento mi ero avvicinato anch’io tanti e tanti anni fa, allo studio di questo movimento, tanti e tanti anni fa

A venti secoli di distanza dalla nascita, la figura di Lucio Anneo Seneca nulla ha perduto del suo fascino. Nel succedersi delle generazioni a cominciare dai suoi quasi contemporanei Quintiliano e Tacito, giudizi positivi e giudizi negativi si sono continuamente contrapposti. Seneca è per così dire una via di passaggio per tutte le generazioni. Egli ebbe a lottare a lungo in vita, contro accusatori e detrattori che gli rinfacciavano prima di tutto l’incoerenza; nel “De vita beata” ricorda che lo accusavano di tu parlare in un modo e vivere in un altro. Da essi si difese ribattendo colpo su colpo e orgogliosamente presentava sé stesso “come una rupe solitaria in mezzo ad un mare pieno di insidie, i flutti movendo da ogni parte la flagellano ma non perciò la smuovono dalla sua sede”. Egli si aspettava giustizia non dai suoi contemporanei ma dai posteri. “Venient qui sine offensa sine gratia iudicent” verranno un giorno quelli che giudicheranno senza volerti offendere, senza volerti adulare.

Nel corso dei secoli Seneca fu sempre valutato in modi diversi e contrastanti. Su di lui non c’è mai stata pace. Sentiamo ad esempio cosa diceva  nel 1857 Hermann Melville, l’autore di Moby Dick, in un discorso davanti ad un presunto busto del filosofo: “Nel busto di Seneca la cui filosofia potrebbe essere il cristianesimo stesso, salvo la sua autenticità, le cui espressioni destarono tanto stupore in uno degli antichi padri che egli pensò che avesse avuto contatto con S. Paolo, vediamo un volto che assomiglia molto di più a quello di un corrucciato usuraio, pieno di rughe e di pensieri, e la sua apparenza è esatta, perché è ben noto che egli era avaro e avido, che si occupava volentieri di ipoteche e di prestiti, e che conduceva affari spregiudicati anche per quei tempi, e ferreo e inflessibile”.

Ma tre secoli prima di Melville, Michel de Montaigne, invece, considerava Seneca come suo autore preferito e ribatteva vigorosamente le accuse mosse già dagli antichi contro di lui: “La sua virtù appare così viva e vigorosa nei suoi scritti e così chiara in essi la difesa contro ciascuna di queste accuse, come della sua ricchezza e delle spese eccessive, che non presterei fede ad alcuna testimonianza contraria” dice Montaigne, in un saggio che intitola proprio “Difesa di Seneca”.

E noi che posizione prendiamo? Ci schieriamo con Melville oppure con Montaigne? Le accuse di Melville non sono infondate, effettivamente Seneca possedeva latifondi in Egitto e altrove, prestava denaro ad alto interesse, la rivolta sanguinosa della Britannia del 59 d.C. fu causata anche dall’improvvisa richiesta di Seneca ai Britanni di restituzione delle somme prestate. Sapeva far fruttare i suoi vigneti nella zona Nomentana, era un produttore di vini, ricavava dei frutti, si definiva “vinearum diligens fossor” un viticultore diligente. Certo egli fu tutto questo e anche peggio. Le passioni in lui divampavano violente, il suo odio per Caligola, il principe che lo costrinse al silenzio, il suo disprezzo per Claudio, il principe che lo relegò per otto anni in Corsica, vanno oltre ogni limite. Ma egli è anche capace di manifestare l’amore per la giovane seconda moglie Paolina con delle espressioni tenerissime, con una delicatezza che incanta. Continuamente oscillante fra gli opposti ideali della vita attiva e della vita contemplativa, attirato dai programmi ascetici della scuola sestiana, è pronto tuttavia a metterli da parte quando si alza la minaccia dell’imperatore. Nonostante la sua adesione ai principi dello stoicismo rigoroso è disposto tuttavia ai compromessi e all’adulazione in forme per noi inaccettabili. Sembra sottrarsi ad ogni possibilità di comprensione piena. Sotto la sua influenza, Nerone proibì che negli spettacoli gladiatori a Roma e altrove nell’impero, si versasse sangue umano, mentre nelle sue tragedie porta in scena situazioni di violenza estrema, descrive, rappresenta nefandezze raccapriccianti.

In chi frequenta gli scritti di Seneca, talvolta la constatazione della contraddittorietà di molti suoi atteggiamenti suscita un moto di impazienza, se non di disgusto. Eppure, lo storico che senza lasciarsi vincere da questa prima sensazione si mette di fronte a Seneca e conversa con lui, e con il passare degli anni acquista dimestichezza con i suoi scritti, e riconosce le pieghe più sottili del suo pensiero, e avverte il tono con cui le cose sono dette e coglie il senso dei silenzi, delle pause improvvise, trova in lui riflessa la drammaticità dell’esistenza e la coscienza dello scacco che sembra essere il dato caratterizzante alla condizione umana, di allora e di oggi. Una pagina del “De tranquillitate animi” indirizzato all’amico Sereno ci aiuta a capire l’atteggiamento fondamentale di Seneca davanti alla vita. “A me sembra o carissimo Sereno – traduco – che  Ateneodoro, un filosofo stoico che era vicino alla famiglia del principe, si sia mostrato troppo arrendevole di fronte alle circostanze, che troppo presto abbia battuto in ritirata. Io non nego che in qualche caso bisogna ritirarsi ma lentamente, passo a passo, e salvando la bandiera, e salvando l’onore militare. Più degni di rispetto e meno esposti a pericoli sono coloro che si arrendono con le armi in pugno. Io penso che la virtù, e colui che aspira alla virtù debbano comportarsi così. Se la fortuna avrà la meglio e taglierà ogni possibilità di agire, non fugga subito, volgendo le spalle e gettando via le armi, cercando un nascondiglio, come se qualche luogo ci fosse dove la fortuna non possa raggiungerlo. Ma si dedichi alle sue attività più moderatamente e operando una scelta trovi qualche cosa in cui sia utile alla città. La carriera militare non è lecita? Segua la carriera politica. Deve vivere da privato? Faccia l’oratore. E’ stato obbligato al silenzio?- c’è l’eco della esperienza vissuta da lui stesso, naturalmente in questa pagina- assistendo, pur senza prendere la parola i suoi concittadini, sia loro utile. E’ pericoloso per lui persino l’entrare nel foro? Nelle case private, agli spettacoli, nei banchetti si comporti come un buon camerata, come un amico fedele, come un convitato temperante. Ha perdute le prerogative, le funzioni proprie del cittadino? Eserciti quelle dell’uomo. Se la fortuna vi ha cacciato via dalle prime posizioni nel governo dello stato, resta ugualmente in piedi e renditi utile parlando a voce ben alta. E se qualcuno ti stringerà la gola resta ugualmente e renditi utile col tuo silenzio. L’opera del cittadino onesto non è mai inutile. La gente lo ascolta e lo guarda, con le espressione del viso, coi gesti, col silenzio ostinato, persino col suo modo di camminare egli giova ai suoi concittadini.”

In questo passo il filo conduttore è rappresentato dall’idea stoica del giovare agli altri che vi è espressa più e più volte e in più modi. Ma il punto è questo: era possibile nel mondo nel quale egli viveva giovare agli altri? Nella tragedia di Edipo, di Seneca, si svolge un dialogo tra il re e il cognato suo Creonte, nel quale ad un certo punto Creonte dice: Mi sia concesso tacere- si può chiedere ad un re una libertà più insignificante? Ma il re replica: Spesso la libertà di tacere danneggia il re e il regno, più che la libertà di parola. Come può un filosofo giovare ai suoi simili nel regno, cioè in queste condizioni? Per tutta la vita Seneca lottò per creare una società nella quale fosse possibile al filosofo, oggi diremmo all’uomo di cultura, giovare ai suoi simili. Egli non mette in discussione la forma politica del principato, lo accetta come una realtà di fatto, dalla quale non conviene tornare indietro, non è più possibile restaurare la repubblica. Evidentissimo, invece in lui l’intenzione di orientare il principato in una direzione che consenta al filosofo di collaborare al reggimento del genere umano, nonostante che lo stato romano, come Seneca apertamente afferma non consideri più i suoi ideali massimi, la “libertas repubblicana” la “equalitas iuris civilis”, l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, l’imperio della legge. Se vuole tenere fede al programma di vita di giovare ai propri simili, Seneca non può fare altro che prendere atto della realtà e cercare di agire dall’interno collocandosi cioè accanto al principe all’unico signore in veste di consigliere e di ispiratore. E’ l’antica vicenda del filosofo legislatore, del filosofo direttore di coscienza dei potenti, è l’antico problema se debba il filosofo darsi alla politica.

Nel “De clementia”, indirizzato a Nerone, Seneca elabora la teoria della collaborazione fra il principe e gli intellettuali, come via per risolvere, fuori dell’infruttuoso e ormai antistorico schema della contrapposizione principato/repubblica, i problemi politici posti dal regime imperiale. Sgombrato il terreno dalla difficoltà iniziale, cioè accettato il regime del principato, bandite le nostalgie repubblicane, si trattava di individuare i mezzi acconci per dare all’impero un “bonus princeps” e per rendere possibile a questo principe di non lasciarsi corrompere dal potere. Anche Tacito si porrà questo problema, e nelle “Historiae” accetterà la soluzione della adozione del migliore da parte dell’imperatore regnante. Questa era stata la via seguita da Nerva che aveva adottato Traiano “optimus princeps”.

Ma quando Seneca scrive il “De clementia” il principe c’è già, ed è l’allievo del filosofo. Nerone, scelto ed imposto dalla madre Agrippina. Tenete presente che aveva 17 anni Nerone quando diventa imperatore; era stato allievo di Seneca che gli era stato messo accanto da Agrippina, con la proibizione però di parlargli di filosofia. Studiare la retorica, tenere discorsi. Dunque è l’allievo del filosofo, Nerone, scelto e imposto dalla madre Agrippina. Seneca, perciò, per proporre la sua teoria politica fondata sulla concezione stoica del “rex iustus” deve partire dalla premessa dell’identificazione di Nerone, di questo ragazzo diciassettenne, diciottenne, diciannovenne, con la figura stoica del “rex iustus”. Tutto il suo programma di riforma del principato è basato da una parte sulla finzione che Nerone sia il re giusto esaltato dagli stoici, sia cioè l’incarnazione del sapiente, dall’altro sulla dottrina stoica della monarchia che è una dottrina in sé e per sé utopistica, sia perché presuppone l’identificazione del re con il sapiente, sia perché nello stato che a  esso si adegua, tutti gli uomini devono possedere la virtù. E il compito del principe è  portare tutti i suoi sudditi alla virtù.

L’accettazione di questa utopia consente anche a Seneca di proporre una soluzione per quello che a lui appariva il problema politico fondamentale: il problema delle garanzie costituzionali. Seneca giudica impossibile cercare fuori del principe la possibilità di istituire un controllo, di creare un organo che vigili sul modo in cui il principe stesso esercita il potere. Invece è il compito del filosofo “direttore di coscienza”, dell’imperatore influire sul principe, in modo che costui eserciti da sé stesso questo controllo su di sé. Il metro secondo cui, a suo avviso, il principe deve misurare il suo modo di esercitare il potere è la legge morale. Quella legge di fronte alla quale, tutti gli uomini, dall’imperatore fino all’ultimo degli schiavi, sono uguali. Il principe superiore a tutti gli uomini per il potere illimitato di cui dispone è tuttavia pari a ciascuno di essi, anche al più umile, per la sua qualità di uomo e per la sua soggezione alla legge morale.

Ma se il principe ha tentato di sottrarsi alla osservanza di tale legge? Qui gli antichi confessano la loro incapacità ad elaborare una risposta. Non esiste mezzo alcuno per richiamare all’ordine il re. C’è la minaccia delle sanzioni ultraterrene, ma sono di ben scarso effetto quando i filosofi dubitano dell’immortalità dell’animo umano, o almeno dell’immortalità dell’animo individuale. Di fronte ad un principe riluttante si può sempre fare ricorso al mezzo specifico che Seneca addita e illustra e qui è la sua novità: la clemenza. La clemenza. Grazie alla quale si instaura per così dire un patto di reciproca tolleranza o benevolenza fra il re e i suoi sudditi.

Nel trattato senecano “De clementia” considerazioni di ordine pratico, utilitaristico si intrecciano con le considerazioni filosofiche. “L’utopia e la ragione di stato per un po’ procedono a braccetto: la clemenza è utile sia al principe sia ai sudditi. E con l’uso saggio di essa il re acquista lo stabile favore dei sudditi e non dovrà temere congiure, ribellioni. E i sudditi per parte loro hanno la certezza di essere governati con moderazione e con giustizia. Tutto dipende dal capo, dal principe. Fra costui e la moltitudine degli uomini esiste lo stesso rapporto che per ciascun uomo sussiste fra il corpo e l’anima. “Totum corpus animo deservit”: tutto quanto il corpo è al servizio dell’anima. Allo stesso modo questa immensa moltitudine, tutti i sudditi dell’impero, che è disposta tutta attorno ad un unico essere, il principe, e retta dal suo respiro si piega alla sua ragione. Questa moltitudine sarebbe destinata a schiacciarsi e a spezzarsi con le sue stesse forze, se non fosse tenuta in piedi dalla saggezza di quell’uno. Seneca accentua dunque l’unità dell’impero che deve tutto quanto stringersi attorno al suo imperatore. L’imperatore e i suoi sudditi costituiscono una unità inscindibile, l’uno non può stare senza gli altri, e viceversa, sono legati indissolubilmente per la vita e per la morte. Se mai il capo venisse a mancare all’impero, un tal caso segnerà la fine della pace romana manderà in rovina la fortuna di un così grande popolo. Ma da tale pericolo questo popolo starà lontano finché saprà tollerare le briglie, che se mai un giorno le spezzerà, o per qualche caso essendo cadute non se le lascerà rimettere, questa stretta connessione dell’impero che è immenso si frantumerà in molte parti.

Roma, quando cesserà di obbedire al principe, cesserà anche di comandare al mondo. Perché Cesare ha bisogno di forze e lo stato ha bisogno di un capo. Per merito del principe risorgono le antiche virtù: tutti gli uomini dovranno arrivare alla virtù, secondo la dottrina stoica. Dice Seneca a Nerone: “codesta mansuetudine dell’animo tuo si trasmetterà e diffonderà a poco a poco e per tutto il corpo dell’impero, tutto si modellerà a tua somiglianza. Dal capo la buona salute: “a capite bona valetudo”- dice Seneca; di lì tutte le membra sono vegete e robuste oppure affrante dal languore, secondo che l’animo è ricco di vita oppure langue. I cittadini, gli alleati saranno degni di questa tua bontà ed in tutto il mondo ritorneranno i buoni costumi “recti mores”. Seneca è il teorico del regime e vuole stare accanto a Nerone per illuminarlo politicamente affinché ciò che ora il principe fa per naturale impulso continui a farlo con piena coscienza.

Ma quale garanzia effettiva hanno i sudditi che Nerone continuerà a procedere per questa via? Nessuna purtroppo. Sul principe veglierà Seneca, ma evidentemente questo non basta per costituire una vera e propria garanzia. Non resta che riferirsi agli dei. “Il principe tratti i cittadini così come vorrebbe essere trattato dagli dei, così per la verità ha fatto sino ad ora Nerone- commenta benevolmente Seneca- perché se oggi gli dei gli chiedessero conto del genere umano, sarebbe pronto a  dar conto di tutti gli uomini dal primo all’ultimo e ciò perché egli si controlla come se dovesse rispondere del suo operato alle leggi da lui richiamate in vigore dopo lungo abbandono e oblio”. Questa è una nota polemica nei riguardi dell’imperatore Claudio.

Invano si cercherebbe, riconosciamolo, per mezzo delle affermazioni sparse nell’opera di Seneca di ricostruire un sistema politico coerente e poiché un regime assoluto non può giustificarsi se non presentandosi come l’unico in grado di salvaguardare determinati valori (la pace, la prosperità, il benessere, la moralità dei costumi e simili). Seneca esalta la clemenza come la virtù propria di principi e re della quale essi devono giovarsi proprio perché il loro potere è assoluto, per trovare in essa  un opportuno limite. Così il buon re sarà come un buon padre. Dice Seneca: “noi certo abbiamo dato al principe il titolo di padre della patria affinché sapesse che gli è attribuita la patria potestà, che è fra tutte la più moderata perché pensa al bene dei figli e mette il loro bene avanti al suo”. Il regime assoluto si offre all’ammirazione dei sudditi come un regime paternalistico, premuroso del loro bene della loro felicità. E i sudditi di Nerone riconoscono di essere felici- nel trattato di Seneca si riconoscono felici- e si augurano soltanto che la loro felicità sia perpetua. Ciò costa molto sacrificio a Nerone- dice sempre Seneca nel trattato- di cui si immagina l’obiezione che l’impero così concepito si trasformi per lui in una schiavitù. Infatti è così che è una nobile schiavitù. “Quante cose” dice Seneca “che a noi sono lecite grazie a te, a te invece non sono lecite?”. E’ il motivo ampiamente svolto da Seneca nella “Consolazione a Polibio”. La schiavitù dei re è paragonabile a quella degli dei, non possono diventare meno grandi: “Il principe è inchiodato (adfixus) alla sua altissima dignità, egli è come il sole, non può sottrarsi alla vista degli uomini”.

Vi è dunque tra il principe e tutti gli uomini una distanza incolmabile. Il principe sottratto all’imperio effettivo delle leggi e per la qualità del suo potere, si ritrova unito ai sudditi soltanto dalla sua natura di uomo, le cui leggi di equità e di bontà però nessuno – e qui torniamo sempre allo stesso punto – sulla terra può con la forza ottenere che siano rispettate. Soltanto agli dei immortali il principe dovrà rendere conto del suo operato. Si torna sempre al difetto fondamentale intrinseco alla natura del potere assoluto alla mancanza di garanzie costituzionali contro le deviazioni e gli abusi.

Altro argomento che tocca da vicino la clemenza. La clemenza è utile al principe perché lo mette al riparo dall’odio dei sudditi, quindi dai pericoli di sommosse, congiure e simili. E’ la precettistica che troviamo con tanta insistenza ripetuta nelle tragedie senecane, che hanno a mio avviso un intento pedagogico nei riguardi di Nerone. Il re si deve guardare dal “furor”. Erra chi crede che il re sia sicuro dove il re non dà sicurezza a nessuno. La sicurezza si pattuisce offrendo in cambio sicurezza. La clemenza otterrà al re l’incolumità senza bisogno di altre difese. Uno solo è il bastione inespugnabile: l’amore dei sudditi.

Oggi è facile per noi dire che Seneca, proponendo questa teoria del potere regale, era un ingenuo, oppure uno scettico, che si illudeva sulla vera natura di Nerone, che non credeva a quanto diceva, e così via. Tutto questo si può pensare. Chi si pone, tuttavia, di fronte al problema politico che Seneca affrontò, alla necessità, cioè, di accettare il principato, e contemporaneamente di elaborare una teoria che offrisse garanzie ai cittadini nei confronti del principe, che in qualche modo ne limitasse i poteri, riconosce la positività dell’azione del filosofo. Certo Seneca fu l’unico fra gli intellettuali romani del tempo del principato ad elaborare una soluzione per il problema politico fondamentale dei rapporti fra il principe e i sudditi. La collaborazione di Seneca con Nerone durò 5 anni. Per cinque anni il filosofo rimase inchiodato sulla croce, come diceva egli stesso, esposto agli scherni e al ludibrio. Lacerato dall’invidia e dall’odio, preda del crimine e dell’omertà. Chiedeva di essere capito e tuttavia di essere capito non con l’animo con cui l’aveva ben presto capito Agrippina, la madre di Nerone, la quale di lui e del prefetto del pretorio, una specie di ministro degli interni, ministro di polizia, Afranio Burro andava dicendo, con scherno che quei due, quello dal moncherino (Afranio Burro) e quell’altro con la sua lingua da professore (Seneca), volevano per sé il reggimento del genere umano.

Seneca lo proclamava apertamente, anche in questi due frammenti che veramente danno da pensare: “Fa il sapiente anche ciò che non approverà, per trovare così una via per giungere a realtà più grandi, né abbandonerà i buoni costumi ma li adatterà ai tempi, e di ciò di cui altri si servono per la gloria e per il piacere egli si servirà per poter agire. Anche il sapiente farà tutto quello che fanno i lussuriosi e gli ignoranti, ma non nello stesso modo, né con lo stesso proposito”. Affermazioni pericolose, senza dubbio. “Ut etiam ad maiora transitum inveniat”: per trovare un passaggio a cose più grandi. E altrove affermava che il sapiente “scit emere venalia”: sa comperare quello che è messo in vendita. Altro principio pericoloso. Se deve passare attraverso ad una porta presidiata da un portinaio intrattabile, il sapiente- traduco Seneca- se lo chiamerà la necessità,  proverà, e quel portinaio chiunque sia, ammansirà come se fosse un cane feroce, gettandogli un boccone. Non si indignerà di dover pagare qualcosa per potere varcare quella soglia, pensando che anche su certi ponti si paga un pedaggio per varcarli. Egli sa comprare ciò che è posto in vendita “scit emere venalia” . Insomma, scende ai compromessi e si fa complice di delitti.

Si fa complice di delitti come Seneca in quella notte del marzo del 59, lucente di stelle e quieta nel placido mare (come ci narra Tacito), durante la quale Nerone compì il matricidio. Segue drammatico incontro a quattro tra Nerone, Seneca, Afranio Burro, che abbiamo già nominato, e Aniceto, che era il comandante della flotta del Miseno. E il filosofo finalmente non può più ignorare di essere legato a doppio filo col principe. Un lungo silenzio segue le parole affannose e atterrite del principe che ha visto fallire il progetto di Aniceto, che aveva simulato l’incidente della nave su cui era imbarcata Agrippina che affondava e lei sarebbe annegata. In realtà lei non annegò e invece fu uccisa una sua amica che per essere salvata proclamava di essere Agrippina e quella fu uccisa, e Agrippina invece si salvò. Il principe che ha visto fallire il progetto di Aniceto e teme la vendetta materna. Seneca capiva che ormai era inutile tentare di dissuadere Nerone, inutile sperare in una riconciliazione del figlio con la madre: sui piatti della bilancia in quegli istanti di terribile silenzio egli gettò da una parte il reggimento del genere umano, dall’altro il matricidio. Da che parte pendeva la bilancia? “Facit sapiens etiam quae non probabit. Ut etiam ad maiora transitum inveniat…”. Seneca lancia in quella riunione a quattro, nella notte uno sguardo a Burro comandante dei pretoriani e osa chiedergli se si dovesse ordinare ai soldati della guardia l’assassinio di Agrippina. Il filosofo ha dunque fatto la sua scelta: resterà al fianco di un principe matricida e chiede che Burro snudi la spada da immergere nel seno di colei che lo aveva elevato alla carica che rivestiva. Che abisso ha spalancato davanti ai suoi piedi il nostro filosofo.

E’ l’ora delle tenebre. Seneca ci riflette e scrive: “L’anima piomba nella notte. E ha battute per così dire le virtù che né è lecito sperare di trovare in altri, né giova possedere…”. Nel “De tranquillitate animi” egli osserva che la scontentezza di sé,  il “sibi displicere”, “nasce dalla mancanza di equilibrio interiore. Dalle passioni non abbastanza vigorose o non soddisfatte, quando cioè  l’uomo o non osa realizzare ciò che desidera o non lo consegue, e interamente si esaurisce in una speranza vana. Costoro sono sempre instabili e volubili il che per forza capita a chi sempre ondeggia. Nessuna strada ripugna loro per arrivare alla meta e sono a sé maestri di azioni indecorose e difficili e ad esse si costringono e quando la fatica è senza premio li tormenta l’inutile vergogna. E non soffrono per aver fatto il male ma per averlo voluto invano. Allora si pentono di quello che hanno fatto, e hanno paura di ricominciare. E in essi insensibilmente si insinuano l’agitazione propria di chi non trova sbocco perché non sono capaci né di comandare alle loro passioni, né di assecondarle. E l’ondeggiamento perpetuo di una vita che non riesce a realizzarsi e lo spegnersi lento dell’anima che fra le disillusioni perde ogni vigore. E questo mal essere spirituale è più grave quando gli uomini, non sopportando più di continuare in una attività senza frutto, cercano rifugio nell’otium, nella vita appartata e negli studi solitari. Ma questo non riesce a sopportare l’animo umano che anela alla vita pubblica, che è bramoso di agire, che per natura è inquieto; pertanto, tolte via quelle soddisfazioni che l’impegno nell’azione offre a chi non si risparmia, l’uomo non sopporta la casa, la solitudine, le solite 4 mura, non può tollerare di essere abbandonato a sé stesso. Da ciò nasce il disgusto e la scontentezza di sé, e la volubilità dell’anima che non trova riposo, e la sopportazione piena di dolori, di amarezza dell’inazione soprattutto quando ci vergogniamo ad ammettere le ragioni di ciò. E il rispetto umano ci costringe a tenere dentro di noi i nostri tormenti. Le brame strette e chiuse dentro di noi, senza possibilità di soddisfazione si strozzano da sé. Di qui la pena, il languore, i mille ondeggiamenti di un cuore incerto”.

Questa analisi implacabile, veramente esemplare della scontentezza di sé si applica a tutti gli intellettuali romani che dopo aver finalmente raggiunto la consapevolezza del valore autonomo della cultura, si trovano nella pratica impossibilità, sotto il regime del principato di vivere secondo le loro convinzioni. I “maiora” per cui Seneca scende tanto in basso, il “prodesse, il iuvare” il giovare agli uomini, si vanificano di fronte all’ostinata e ferma intenzione di Nerone di realizzare sue mete ben precise e contrastanti con quelle del maestro. Ma non si vanificano per Seneca, che costretto ancora una volta all’isolamento privato di ogni influenza sugli affari politici non per questo si dà per vinto. Non può giovare in nessun modo ai contemporanei, gioverà ai posteri.

Questo è il tema dell’ottava lettera a Lucilio. Dice Seneca a Lucilio: “Tu mi esorti ad evitare la turba, a ritirarmi ad accontentarmi della mia coscienza. Ma che, ti sembra che io ti esorti a non far niente? Io mi sono isolato e ho chiuso le porte per poter giovare a più persone. Neanche un giorno per me trascorre nell’ozio, rivendico allo studio parti delle notti, non mi do al sonno ma vi soccombo e costringo al lavoro gli occhi che si chiudono stanchi per la veglia. Mi sono ritirato non solo dagli uomini ma dagli affari e in primo luogo dai miei affari. Penso al bene dei posteri: per essi scrivo qualcosa che possa giovare. Ricette di medicamenti utili affido alle mie lettere, dopo aver sperimentato sulle mie piaghe che essi sono efficaci. Le mie piaghe, anche se non sono proprio guarite del tutto, hanno smesso di diffondersi subdolamente. La retta via, “rectum iter” che tardi ho conosciuta e stanco di andare errando mostro agli altri. Grido: evitate tutto ciò che piace al volgo, tutto ciò che è dono del caso. Se questo dico fra me e me, se questo dico ai posteri, non ti sembra che io faccia cosa più utile che se richiesto mi presentassi a giudizio come avvocato?”.

Dunque, quelli che sembra non facciano niente “maiora agunt”, fanno cose più grandi. Ecco sempre il tema dei maiora che si pone al centro della riflessione di Seneca. Ma questi maiora li deve perseguire, dopo il ritiro a vita privata, con molta cautela; ora egli è costretto per sottrarsi al pericolo di venire avvelenato a cibarsi di frutti colti direttamente dall’albero, a bere acqua di sorgente. Per non offrire pretesto alla vendetta del principe sospettoso si astiene da qualsiasi contatto con personaggi degni di rilievo e vive lontano da Roma. All’amico Lucilio scrive: Non darti pensiero di quelle disgrazie che sono puramente ipotetiche come un incendio, il crollo di un edificio, guardati invece dagli uomini, essi hanno l’aspetto d’uomo ma animo di belva. E sono peggiori delle belve, perché queste aggrediscono spinte dalla fame e dalla paura, mentre l’uomo rovina un altro uomo perché gode nel fare il male”. Ritirati quanto puoi nella filosofia, dice all’amico, sebbene le scuole filosofiche non abbiano più degni rappresentanti.

È un momento scuro per Seneca: la visione della realtà è quanto mai cupa, eppure il suo pensiero è costantemente rivolto ai suoi simili. Ritornano più e più volte, nei suoi scritti,  queste esortazioni: non può vivere felice colui che guarda solo a sé che tutto volge a sua utilità; vivi per gli altri se vuoi vivere per te; tendiamo la mano a chi si trova in necessità. Chiudendo il trattato “De beneficiis” con qualche pagina sull’ingratitudine, Seneca pensava a Nerone naturalmente ed esortava a sopportare gli ingrati con animo placido, mansueto, grande. Non dolersi mai di avere fatto del bene, anche se colui che tu beneficasti ti fa del male, tu non dire mai “vellem non fecis” vorrei non averlo fatto. Se il bene che hai fatto non è stato apprezzato come meritava, ebbene: ti piaccia anche questo risultato poco felice. Non perdiamoci in considerazioni meschine. Seneca si appella, come abbiamo già detto in apertura, al giudizio dei posteri, al nostro giudizio. Mai la virtù resta nascosta: nato è per poco chi pensa solo ai suoi contemporanei; molte migliaia di anni, molti  popoli verranno ancora in futuro. Ad essi rivolgi il tuo pensiero. Questa apertura sull’età a venire si lega in Seneca ad una fede sul progresso scientifico e contrasta singolarmente col modo di pensare nel mondo antico. Ciò che noi ignoriamo sarà conosciuto dalla gente del tempo futuro, molto è riservato a generazioni ancora più lontane di noi nel tempo, quando di noi anche la memoria sarà cancellata.

Trascorse gli ultimi mesi di vita come già chi non appartiene più a questo mondo. “Mortem plenus expecto”: sazio aspetto la morte. Scriveva all’amico: ti scrivo questa lettera con l’animo di chi sa che proprio mentre scrive, la morte può venire a chiamarlo. Io sono pronto ad uscire dalla vita, La morte mi incalza, la vita mi fugge. Non trepiderò al momento estremo, sono già preparato, non faccio progetti che si estendono di più di un giorno. Conquistata la nuova libertà, quella che ai suoi occhi ormai appare l’unica vera libertà, neppure ora tuttavia Seneca dimentica lo scopo fondamentale della sua vita: giovare agli altri. Perciò con entusiasmo schiude all’amico Lucilio una visione sulle realtà ultime che si proietta ben oltre la sfera terrena.

Consentitemi ancora questa citazione: “un giorno ti si sveleranno i misteri della natura, si disperderà codesta tenebra, e una chiara luce da ogni parte ti investirà. Immaginati quanto grande sia quello splendore che è prodotto dal concorrere della luce di tanti astri, nessuna ombra turberà il sereno, splenderà ugualmente ogni lato del cielo. Allora dirai di essere vissuto nelle tenebre quando nella pienezza del tuo essere contemplerai nella sua pienezza la luce che ora vedi soltanto oscuramente e tuttavia l’ammiri pur già di lontano. Ma come ti apparirà la luce divina quando la vedrai nella sua propria sede?”

Il filosofo che è tutto immerso ormai nei maiora e ha da tempo dimenticato la realtà presente, per aprire all’umanità futura la visione della verità e della libertà in uno degli ultimi giorni dell’aprile del 65 accusato di complicità nella congiura di Pisone, ricevette da Nerone l’ordine di darsi la morte. Si trovava con la moglie Paolina e con due amici in una sua villa suburbana a quattro miglia da Roma, chiese il proprio testamento ma i soldati non permisero che gli fosse portato, allora rivolto agli amici disse loro: vi lascio l’immagine della mia vita.(Di qui ha preso il titolo il professor Perrini per la sua antologia). Vi lascio l’immagine della mia vita. E li esortò alla pazienza e al coraggio con forme di insegnamento della sapienza.

A Nerone, che aveva ucciso la madre e il fratellastro Britannico, non restava che uccidere l’educatore e il precettore. Per rifarci all’inizio, Montaigne chiosa a questo punto: “ecco le sue parole, eccellenti come il suo agire”. E noi, se pure formuliamo riserve che non ci consentono di definire come Montaigne ‘eccellente’ l’agire di Seneca, tributiamo però al filosofo il rispetto che merita per il suo coraggio morale, e per non avere mai tradito il generoso proposito di giovare agli uomini. A tutti gli uomini, ai contemporanei e ai posteri, e quindi anche a noi.

NOTA: Testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 27.10.1998 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.