Siamo tutti indifferenti nell’epoca del social network

1. La filosofia, dice un noto detto di Hegel, è il proprio tempo appreso con il pensiero. Si tratta di una frase che viene spesso ripetuta, ancora oggi, per qualificare l’esercizio filosofico. Che sembra poter essere in grado di dominare, retrospettivamente, e di dare senso, narrativamente, a tutto ciò che accade.
Oggi però questo detto non può in verità essere più riproposto. Con il mutamento che è proprio del nostro tempo, infatti, è cambiato radicalmente anche il rapporto tra il tempo e il pensiero. Il pensiero non è più in grado di comprendere la realtà, di salvarla, di redimerla, dando ad essa senso e sostituendosi a quelle prospettive religiose che storicamente si erano assunte la stessa funzione. Oggi la realtà ha già in sé il proprio scopo, la propria razionalità, la propria funzionalità: non ha bisogno di un pensiero che certifichi tutto questo. Oggi il reale è sempre già razionale, ben prima che – come ancora diceva Hegel, il reale, per converso, si scopra razionale in virtù di un pensiero che è in grado di mostrare tutto ciò. Perché questa razionalità del reale è divenuta ormai qualcosa di autonomo: è divenuta qualcosa che si autoafferma e si autoalimenta. Perché questa razionalità del reale è oggi la razionalità della tecnica.
Ciò che ho messo in luce finora è una situazione nella quale il reale stesso si configura nei termini, potremmo dire, di una razionalità incarnata: di un pensiero, di un logos, letteralmente fattosi carne, insediatosi nelle cose. Vi è infatti una logica che è ormai insita nelle cose. Si tratta di un logos, di una ragione, che è (potremmo ancora dire) più avanti di quel pensiero che la cerca di pensare. Non solo e non più ciò accade secondo la ben nota metafora, ancora hegeliana, della nottola di Minerva che si leva sul far del crepuscolo: quando cioè gli avvenimenti si sono ormai svolti, al fine di ricostruirne il filo. Giacché un filo questi avvenimenti di per sé già lo hanno. È esso il filo delle leggi economiche, che implacabilmente determinano le oscillazioni dei mercati; è il filo delle leggi ecologiche, che comportano le varie emergenze ambientali; è il filo degli sviluppi tecnico-scientifici nell’ambito delle cosiddette nuove tecnologie, che induce e provoca una serie di precisi mutamenti comportamentali negli esseri umani.
Rispetto a tutto ciò, dunque, se il pensiero è nelle cose non c’è bisogno di un pensiero ulteriore, accessorio, chiamato a svolgere un’opera di redenzione dell’incomprensibile residuo sempre presente negli eventi. E allora, rispetto a ciò, cambia la funzione stessa del pensiero. Anzitutto la teoria non basta più: anzi, rischia di essere controproducente. Rispetto a ciò cambiano la possibilità e la percezione dei limiti del controllo umano nei confronti di certi processi: muta anzi la stessa nozione di pratica e l’idea di ‘etica’ che ad essa si accompagna. Affrontiamo dunque questi temi – quello relativo alla teoria e quello concernente l’etica – uno alla volta.

2. Stiamo assistendo in primo luogo a una riduzione del nostro modo d’intendere l’agire e il pensare. Viviamo nell’epoca della tecnica. Pensare e agire sono commisurati al pensare e agire tecnicamente. Ciò significa: si svolgono sulla base di certe procedure, allo scopo di mantenere il controllo delle azioni che stiamo compiendo, sulla base di criteri di efficacia e di efficienza ai quali è necessario commisurarsi. In una parola, e comunque semplificando molto: oggi pensiamo ed agiamo adattando l’efflorescenza di possibilità del nostro agire e pensare al procedere meccanico degli strumenti tecnici. Non mancano esempi quotidiani, quali quelli dovuti all’informatizzazione di certe pratiche, che attestano abbondantemente una tale situazione.
Assistiamo dunque a una serie ben precisa di rovesciamenti di prospettiva: la subordinazione del potere della scienza nei confronti del potere della tecnica; la subordinazione dell’agire finalizzato a uno scopo rispetto a una procedura che è coerente solo di per sé e rispetto a se stessa; la subordinazione della questione del senso rispetto alla semplice spiegazione che di certi processi può essere data. Tutto questo si ricollega alla perdita di potere e di significato della teoria a cui oggi assistiamo. Paradossalmente. Proprio nel momento in cui la teoria sembra, grazie al potere della tecnica, essere in grado di celebrare i suoi fasti.
Nell’età della tecnica, infatti, della teoria si può fare a meno. Basta fare. Basta che quel che si fa funzioni (lo duce anche il titolo del recente film di Woody Allen). E dunque si può ben fare a meno anche dello stile di vita che, a partire dal mondo antico, sul modello della teoria è stato modellato: quello stile di vita basato sul distacco e sulla contemplazione disinteressata. Ricordiamoci dell’immagine di Schopenhauer che guardava dalla sua finestra le rivoluzioni usando il cannocchiale.
Oggi invece, al posto della teoria, abbiamo davvero, come recitava la XI tesi a Feuerbach di Karl Marx, un “rovesciamento nella prassi”. Ma nell’età della tecnica si tratta di una prassi ben delimitata e unilaterale. Una prassi che si riduce a procedure delle quali possono essere offerte spiegazioni, ma di cui non può essere dato il senso. Il tema del senso non può essere surrogato da spiegazioni varie: vi ho insistito più e più volte in altre sedi. Ma sull’esigenza di un senso può certamente cadere l’oblio. È questa la forma di nichilismo che sperimentiamo oggi, nella maniera più piena. Dico oggi, nell’età della tecnica: il nichilismo dell’eclissi del problema del senso; il nichilismo dell’indifferenza nei confronti del problema del senso.

3. Certo, ‘indifferenza’ si dice in molti modi. E in altri luoghi, pure, ho precisato che cosa questo termine vuol dire. Così come ho mostrato anche come nello stesso atteggiamento teorico è insito un rischio ben preciso di cadere in una condizione d’indifferenza. Di più. Potremmo dire che la malattia dell’indifferenza di cui oggi sperimentiamo il decorso è il frutto del privilegio della teoria che ha dominato la mentalità occidentale. È questo privilegio della teoria, infatti, ciò che ha preparato la strada alla possibilità che venga lasciata l’iniziativa alle procedure di una tecnica sempre più autonoma, capace di autoalimentarsi, e sempre meno controllabile dagli esseri umani. Così, assumendo un atteggiamento contemplativo, lasciamo fare: preparandoci, indifferentemente, ad assistere parimenti alla nostra rovina.
Ma ciò su cui soprattutto voglio attirare l’attenzione è quell’indifferenza che si cela anche dietro esperienze che sembrano invece essere, nel modo migliore, esempi di partecipazione. E che appunto vengono decantate come tali. Mi riferisco al web 2.0: il cosiddetto web partecipato.
Una riflessione preliminare, però. Vi siete accorti di come, nella nostra epoca, le stesse parole si prestino a veicolare significati davvero disparati? Vi siete accorti di come le parole diventino etichette, utili per usi (o abusi) ideologici: contenitori vuoti che possono dire tutto e il contrario di tutto? Un esempio immediato sul quale riflettere: la parola ‘libertà’.
Perché ciò accade? Perché si è ormai perso lo spessore semantico di un termine. E lo si è perso perché si è persa la consapevolezza della sua storia. Si è persa l’intelligenza del fatto che vari significati si sono sedimentati bensì in uno stesso significante, ma componendosi in una costellazione variabile, dinamica, e tuttavia sufficientemente unitaria. Ora questo legame, questo connettivo unitario è venuto meno. I diversi significati risultano disgregati e dispersi. Direbbe Lord Chandos, il personaggio di Hofmannsthal: le parole “ci si sfarinano in bocca come funghi ammuffiti”.
Lo stesso accade appunto per la parola ‘relazione’. La rete offre modi di relazione. La rete, il web, è funzione di relazione. Ed è vero, certamente. Ma di che tipo di relazione si tratta? Questo, appunto, è il problema. Rispondiamo allora a questa domanda distinguendo 3 tipi di uso della rete: quello connesso all’internet tradizionale; quello relativo ai social network (il web 2.0); quello correlato alle applicazioni (o app) dell’iPod, dell’iPhone o dell’iPad.
Il web tradizionale, internet, presenta la possibilità di una relazione nella quale il soggetto, posto di fronte al computer e disposto a navigare, trova in ciò un accrescimento delle proprie possibilità di scoperta, un ampliamento delle proprie conoscenze, un potenziamento delle proprie capacità. Il tutto abbattendo le barriere dello spazio e del tempo. Il tutto facendo una serie di esperienze che si muovono all’interno di una dimensione parallela a quella della realtà quotidiana: la dimensione della cosiddetta “realtà virtuale”. La relazione che viene sperimentata in questo caso è dunque una relazione di scoperta e, insieme, di costruzione di sempre nuove reti: come un ragno che percorre una ragnatela contribuendo a produrla.
La relazione dei social network è invece più marcatamente interattiva. Facebook, i blog su cui postare e attendere commenti, wikipedia: sono tutti esempi di un uso del web in cui alla scoperta dell’individuo si somma l’interazione con altri individui. La logica è quella dello scambio. Nel migliore dei casi, è quella della condivisione. Ma si tratta sempre di scambio e di condivisione compiuti da individui: i quali, dietro uno schermo, isolati l’uno rispetto all’altro, trovano forme virtuali di interazione reciproca.
Il mare aperto della rete, le possibilità infinite di sorpresa che possono essere sperimentate navigando nel web si trovano invece ben recintate, delimitate e assicurate sul nostro iPhone. Qui abbiamo trovato terra e gettato l’ancora. Le icone che abbiamo scaricato, per lo più a pagamento, sono infatti come il giardino dissodato nel quale sappiamo bene che cosa incontreremo: c’è solo da cogliere ciò che c’interessa. Qui l’individuo si relaziona anzitutto con il suo strumento multimediale, che diventa medio essenziale, rassicurante, per la fruizione delle infinite possibilità del web.
Che cosa accade dunque in questi tre casi? Che si parte sempre da un individuo isolato, il quale poi decide di entrare in relazione: nella rete, con altri individui su Facebook, toccando l’icona sullo schermo del suo palmare. Accade dunque che la relazione è accessoria, ulteriore, non costitutiva dell’individualità stessa dell’individuo. Può essere motivata, come per lo più lo è, da curiosità o interesse, da utilità o bisogno. Ma in fin dei conti la relazione qui ha un unico scopo: essa serve per rafforzare l’individualità dell’individuo. Il quale rimane pur sempre un individuo isolato. E non si capisce perché, in ultima analisi, all’infuori di questi contingenti motivi psicologici, debba poi effettivamente usare internet per entrare in relazione con altri. In una parola: nella rete la relazione è, in ultima analisi, qualcosa d’indifferente.

4. Nella rete la relazione è qualcosa d’indifferente. Il che vuol dire: non è una relazione vera. Il che non stupisce, stando a quello che ho detto all’inizio. Se è vero che oggi non sono gli strumenti tecnologici a essere al nostro servizio, ma siamo noi a essere in funzione di essi, comprendiamo bene perché, se ci manteniamo su questa linea, solo due atteggiamenti sembrano possibili: quello di chi si adegua (e magari si compra subito l’iPhone 4) e quello di chi teorizza, cercando in un improbabile distacco il senso di questi processi e la salvezza rispetto ad essi. Mentre il mondo continua invece a fare il suo corso.
Che fare, invece, in questa situazione? In precedenza avevo già accennato a una risposta. Che si collocava sul piano di un radicale ripensamento del rapporto tra teoria e pratica. Il quale comportava una rinnovata attenzione e un rinnovato modo di sperimentare ciò che ci viene consegnato dalla tradizione etica del pensiero occidentale. Ho chiamato in un mio libro questo diverso rapporto fra i due ambiti del pensare e dell’agire, che l’indagine filosofica è in grado di mettere a fuoco, di praticare e di sviluppare, con l’espressione “TeorEtica”.
TeorEtica indica un pensiero che non si limita alla contemplazione, ma che è consapevole della potenza performativa del proprio procedere. Ma se questo è vero, se cioè pensare è ipso facto agire, allora nasce subito la questione relativa a quali principî, a quali criteri un tale pensiero deve riconoscere come guida per questo suo procedere: affinché esso possa avere senso; affinché non si trasformi in una mera procedura meccanica, ad esempio calcolabile logicamente; affinché possa essere il frutto di un’autentica libertà motivata. La risposta a questa domanda è una risposta etica: di quell’etica che inabita la teoria e, appunto, la motiva; di quell’etica che però la teoria è chiamata a esprimere e a svolgere in termini condivisibili e universalizzabili.
Al di là di questo discorso di fondo, al quale altrove ho dedicato una specifica ricerca, ciò che m’interessa nell’immediato, di fronte alla crisi di senso che attraversa l’epoca in cui viviamo, di fronte all’indifferenza che contraddistingue l’età della tecnica come età del nichilismo compiuto, è di trovare una via d’uscita. E la via d’uscita può consistere in questo. Se è vero che, come abbiamo visto, il fattore scatenante l’indifferenza è il punto di vista per il quale si parte dall’individuo isolato anche quando – come accade con le nuove tecnologie multimediali – lo si vede poi in relazione, cioè (almeno all’apparenza, o quanto meno tecnicamente) connesso, allora bisogna muovere da un altro punto di partenza. Bisogna muovere dall’idea che noi non siamo anzitutto individui-indivisi, ma siamo esseri fin da sempre, fin da subito, fin dall’inizio in relazione.
Ciò significa che il nostro stesso essere, in quanto dinamico agire, è quello di esseri in relazione. E se siamo anzitutto esseri in relazione – in rete, potremmo dire parafrasando un linguaggio alla moda –, allora siamo nel modo migliore quello che siamo se nel nostro agire risultiamo coerenti, cioè conformi a questa nostra struttura relazionale. In altre parole, siamo nel modo migliore ciò che siamo – vale a dire: agiamo bene – se agiamo in modo tale da promuovere relazioni. In una formula: se, nel nostro agire, promuoviamo relazioni, fecondamente, invece che inibirle e bloccarle. Questa è la formula dell’agire buono. Questa è la formula dell’etica: la formula che intende appianare, nel caso dell’essere umano, la discrepanza (su cui poggia la libertà) tra essere e poter essere.

5. Concludendo, non ho avuto la pretesa, con la mia chiacchierata, di definire in maniera prescrittiva una strategia di comportamento. Ho inteso piuttosto indicare i termini di una situazione – quella che tutti noi possiamo sperimentare – individuarne la genesi, stabilire possibilità alternative, contro la tentazione, da un lato, di un pensiero riduttivo e, dall’altro, di un pensiero unico. L’indagine filosofica non può certamente produrre una salvezza: come ancora, in certa misura, riteneva Hegel. Può però aprire possibilità. Può tenere aperte possibilità altre. Ampliando il potenziale semantico delle parole, recuperando il loro valore, evidenziandone la logica interna. Affinché, a partire da qui, tutti noi possiamo essere ricondotti alla scelta fra l’una o l’altra delle possibilità che, anche grazie all’indagine filosofica, ci sono state riattivate.
La filosofia, dunque, non è il proprio tempo appreso con il pensiero, ma è invece il recupero delle possibilità che il proprio tempo, nella sua realizzazione e strutturazione logica, tende a occultare. Non è la contemplazione delle rovine dopo che la storia ha compiuto il suo corso, ma è l’accompagnamento dei processi strutturali dei quali, in certa misura, siamo corresponsabili, allo scopo di indirizzarli e guidarli: nei limiti e negli ambiti, più o meno ampi, che sono propri di ciascuno. La filosofia non è paragonabile alla civetta, l’animale sacro a Minerva, ma semmai al ragno: che, come dicevo, tesse la tela che attraversa. In una parola, essa non è contemplazione, non è teoria: è TeorEtica.
NOTA: testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 23.9.2010 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.