Spingendo la notte più in là

Dopo aver sentito considerazioni come quelle di Alfredo Bazoli e Gianni Riotta, a me viene spesso la domanda: “Perché ho scritto questo libro?”. Intendo dire che quando ho pensato di scrivere il libro, non partivo da un’analisi così approfondita. Mi è venuta più facile dopo, quando l’ho riletto. Eppure devo riconoscere che, a un certo punto, ho sentito un bisogno fortissimo di scrivere. Me lo sono chiesto: “Che cos’è che mi spinge?”. In fin dei conti ho iniziato a scriverlo che avevo 36 anni, ero appena andato a vivere negli Stati Uniti, stavo per avere due figlie, dovevo occuparmi come giornalista della campagna elettorale americana: avevo ben altre cose su cui investire il mio tempo e il mio futuro. Inoltre ho sempre pensato che il nostro paese avrebbe fatto meglio a concentrare le proprie energie non in un continuo rivangare il passato, al fine di alimentare uno scontro abbastanza sterile in cui ci si rinfacciano colpe di trenta o quarant’anni prima. Avrebbe piuttosto dovuto occuparsi della sfida cinese, del fatto che le nostre università non sono competitive ecc. In una parola: tutti quanti avremmo fatto meglio ad occuparci di ciò che sta davanti a noi. Allora, proprio per questo, più di una volta mi sono chiesto: “Scusa, perché, se sei convinto di questo, ti stai imbarcando in un’operazione del genere?”.
Mi accorgo che ho appena usato l’espressione “imbarcando in un’operazione” che mi richiama il fatto che ho scritto quasi tutto il libro negli Stati Uniti (anche se erano anni che scrivevo su quadernetti, raccoglievo idee, pensieri, frasi di persone) e l’ho scritto in una sorta di “non tempo”. Iniziavo cioè a scriverlo sempre quando in Italia era mezzanotte, vale a dire lo scrivevo dalle sei del pomeriggio all’una di notte americane, quando l’Italia dormiva. Probabilmente lo facevo perché, in quelle ore, non avevo nessun tipo di interferenza italiana: non suonava il telefono e non mi chiamava nessuno, per cui era come se potessi avere un certo distacco. Per esempio, non ho mai detto a mia madre che stavo scrivendo un libro: lo ha letto solo quando il libro è stato pubblicato. Ho infatti sempre pensato che se le avessi detto che stavo scrivendo un libro che riguardava lei, riguardava mio padre ecc., mia madre avrebbe iniziato a fare domande, a raccontare, a entrare nel merito, a chiedermi di leggere le parti già scritte. Probabilmente faticavo non poco a reggere la mia, di fatica e di ansia, e non ero in grado di reggere anche la sua o quella dei miei fratelli. Per questo parlavo prima di “imbarcarmi” in una cosa che, onestamente, è stato un percorso anche di sofferenza.
A un certo punto ho capito che l’ho fatto proprio per i motivi cui accennavo prima, anche se può sembrare strano. L’ho fatto per l’idea che ci si debba occupare della Cina, si debba guardare avanti, che mi potessi occupare delle mie figlie, della campagna elettorale americana ecc. Perché dico questo? Ho sentito di aver bisogno che, per poter guardare avanti, almeno una parte del paese conoscesse il mio punto di vista: c’era qualche cosa da “sanare”. Trovavo cioè profondamente ingiusto, faticoso, irritante, il fatto di una rimozione sempre più ampia di quanto era accaduto negli anni Settanta.
Due, in particolare, i motivi. Il primo è un dato pratico. Chiunque oggi in Italia abbia quarant’anni, aveva due anni quando c’è stata la strage di piazza Fontana e non ne aveva nemmeno cinque quando è stato ucciso mio padre. Cioè chi oggi è nato dopo il 1967 non ha una memoria strutturata e critica di quei fatti. Una cosa che mi ha sempre colpito facendo il giornalista è il dare, nei giornali, tutto per scontato: se si parla dell’assassinio di Casalegno si presuppone, scrivendone sui giornali, l’esistenza di una memoria di tale assassinio. In realtà, almeno metà del paese non ne ha affatto memoria. Allora mi sono chiesto: “Chi porta avanti la memoria? chi la racconta?”. Ogni volta che entravo in una libreria e andavo allo scaffale dedicato ai libri sul terrorismo, lo vedevo pieno di memorie di ex terroristi. C’è chi si è pentito, chi ha nostalgia, chi velatamente rivendica. Intendiamoci: non penso che gli ex terroristi debbano essere condannati al silenzio. Se una persona sconta la pena a cui è stato condannato, ha il diritto di uscire. Se la legge e la società prevedono che sia reinserito, possa trovare un lavoro e, anche, possa essere eletto in parlamento e ci sono cittadini italiani che lo eleggono in parlamento, dal mio punto di vista non è uno scandalo. Però mi preoccupo quando la memoria, il dibattito e la voce che si sente è solo quella.
Ho avuto la sensazione, soprattutto negli ultimi anni, che la memoria delle vittime e la voce dei parenti delle vittime – quest’ultima espressione a me non piace per niente, ma non ho mai trovato un altro modo per definire le vedove, gli orfani, i fratelli e le sorelle di chi è stato ucciso – fossero state completamente messe da parte. È stato, ed è, completamente dimenticato e rimosso il dibattito sulle verità storiche e sulla giustizia. C’è come una grande stanchezza su questo. Siamo a Brescia, conoscete bene la difficoltà di ottenere verità e giustizia sulla strage che c’è stata in piazza Loggia. Mi sono sempre immaginato un tavolo ideale, attorno al quale vedevo convenire i mezzi di comunicazione, la politica, gli ex terroristi e, pensavo, le vittime di quegli anni. M’immaginavo si dovesse discutere a quel tavolo di come si può voltare pagina e invece vedevo che il mio spazio – io chiaramente m’identifico con quel quarto posto – era sempre più ridotto. Se andate a vedere i giornali o gli atti parlamentari anche solo di un anno fa, troverete che il dibattito era esclusivamente sull’idea di superare e chiudere una stagione e, quindi, su come reinserire o restituire i diritti agli ex terroristi. Cosa a cui, ripeto, non sono contrario. Tuttavia, nel dibattito, era completamente rimosso il resto.
Gianni Riotta ha citato il Sudafrica. Dobbiamo ricordare al riguardo la Commissione per la verità e la riconciliazione, presieduta da Desmond Tutu, per cui si è affermato il principio: “riconciliazione in cambio di verità”. Cosa non funziona, invece, nel nostro paese? È l’idea che ci si possa riconciliare senza però mettere al primo punto la verità: senza mettere al centro la memoria, il ricordo, le sofferenze inflitte. Pensiamo, per fare un esempio, a Carol Tarantelli, che era sposata con l’economista Ezio Tarantelli, ucciso dalle Brigate rosse. Lei, americana di Boston, città nella quale aveva conosciuto il futuro martito, ora insegna psicologia all’università di Roma. Mi raccontava che il Ezio è stato assassinato in università e a sparargli sono stati in due. Uno è stato preso, condannato, ha scontato parte della sua pena; poi, per buona condotta, ha avuto i benefici di legge. È uscito dal carcere. Ma non ha mai fatto il nome del complice. Carol Tarantelli mi diceva: “Tante volte cammino per la strada, vado al cinema e penso: chissà se in questo cinema c’è l’assassino di mio marito?”.
Ecco, dunque, che cosa mi sono trovato di fronte: un paese che non si è fatto carico di tutto questo; e una politica che pensa a voltare pagina, senza però assumere su di sé il bisogno di verità e di giustizia che pure era presente. Allora ho pensato: “No, a me l’idea che il mio posto a tavola non ci sia più, non va bene”. Per cui mi sono chiesto quale fosse la strada da intraprendere. C’è un punto che sia Alfredo sia Gianni hanno messo al centro: sono le persone.
Ho fatto studi di storia e ho sempre pensato che la storia non si deve fare con i fatti privati: ritengo che le vicende private e personali non dovessero influire nei processi storici e nei processi giudiziari. Tanto è vero che mia madre non ha mai voluto che noi ci andassimo di persona in Cassazione. Perché diceva: “Una vedova e degli orfani non entrano in Cassazione: quello è l’ultimo grado di giudizio; e ha bisogno di serenità, per giudicare. Non può trovarsi di fronte a una mozione degli affetti, a qualcosa cioè che possa influenzare il giudizio”. Mi capite, dunque, se dico che per me il privato non dovrebbe influenzare la storia. Ad un certo punto, però, ho realizzato cosa facevano i terroristi prima di uccidere una persona: ne facevano un simbolo; e farne un simbolo significava spersonalizzarla, toglierle l’umanità.. Allora, provate a pensare: mio padre a 34 anni – quando è stato ucciso e aveva due figli, ne aspettava un terzo, lavorava, aveva i suoi difetti e i suoi pregi – non era più un uomo. Era diventato un “servo della CIA”. Ancora nel 1995 ho trovato scritto su un settimanale italiano che mio padre lavorava per la CIA e si era addestrato in America. Ora, mio padre non parlava neanche l’inglese, non è mai stato negli Stati Uniti, ha fatto un solo viaggio nella sua vita, quando è stato in Spagna in viaggio di nozze con mia madre. Nessuno però si era fatto scrupolo di andare a verificare. Queste sono tutte cose che si sono trascinate negli anni.
Una storia analoga a cui mi sono molto affezionato è quella del dottor Luigi Marangoni, medico del Policlinico di Milano, di cui era il direttore sanitario. Aveva la “colpa” di cercare di far funzionare l’ospedale; e siccome lì c’era un gruppo di “autonomia”, per il quale un ospedale funzionante era sintomo che qualcosa nella società funzionava, ne andava boicottato il funzionamento. Per cui tutte le sere staccavano la spina al frigorifero contenente le sacche di sangue che servivano per gli interventi chirurgici del giorno dopo. Dopo tre o quattro volte, il dottor Marangoni ha fatto una piccola indagine interna per cercare di capire chi era il responsabile e quali fossero le dinamiche. Tre infermieri gli segnalarono i responsabili e il gruppo di appartenenza. Allora andò a parlare con loro e gli disse: “Questa cosa non può più capitare e, se accade ancora, vi denuncio”. Naturalmente, il giorno dopo accadde di nuovo. Lui li denunciò. Poche settimane dopo, i tre infermieri che avevano “fatto la spia” vennero gambizzati dentro l’ospedale e il dottor Marangoni capì che sarebbe stato ucciso. Cosa che successe. Però, prima di ucciderlo – parlavo prima del “simbolo” –, ci fu una campagna dentro l’ospedale fatta di scritte e di volantini anonimi, dove lui era diventato l’“americano” – con la kappa – l’uomo che voleva portare la sanità americana, lavorava per conto delle multinazionali, contro i pazienti. Se ne rese conto e una notte disse alla moglie: “Non sono la persona che stanno cercando di dipingere; quello è un mondo che non mi appartiene”.
Allora – per ritornare al punto da cui ero partito – quando ho realizzato che c’era questa opera di spersonalizzazione, ho preso una decisione. E ho dovuto rompere una mia forte ritrosia. Ho capito che allo stesso modo in cui i terroristi hanno dovuto creare dei simboli, hanno dovuto spersonalizzare, per uccidere, così oggi le vittime del terrorismo vengono consegnate a una memoria ritual-burocratica, che prevede, una volta all’anno, la deposizione di una corona di fiori; e nulla più. Non disturbano. Gli si dà un contentino. Di fronte a questo ho detto: “No”. Forse – ho pensato – la cosa giusta da farsi è che a quel tavolo non mi ci sieda più. Ne appronto un altro; e da quest’altro tavolo racconto la storia come l’ho vista io e come l’hanno percepita tante persone che hanno avuto un’esperienza simile alla mia. La racconto, cioè, raccontando le persone.
Bisogna, dunque, fare i conti con le persone. Bisogna fare i conti con il giudice Alessandrini. Non solo con l’ottimo giudice che fu capace di indagare con la stessa autonomia di giudizio sulle trame rosse e sulle le trame nere; ma anche il giudice che era capace di passare il giorno di Natale a Pescara, da dove era tornato, dopo un giro per parenti, a cercare un televisore a colori per far vedere Goldrake a colori al figlio. Oppure con il dottor Esposito, capo dell’antiterrorismo di Genova, che chiamavano “il frate certosino” perché faceva le indagini con scrupolo ed era un uomo piccolo e tarchiato. Non era un poliziotto in stile “Rambo”. Svolgeva le indagini ricostruendo i dettagli come fossero puzzle. Bisogna restituire tutto questo, perché soltanto rimettendo al centro le persone e la vita, secondo me, si mette in crisi il meccanismo della spersonalizzazione.
Prendiamo ancora l’esempio di mio padre. Come si fa, di fronte all’evidenza, a continuare a usare il cliché: il “commissario-finestra”, l’“americano”?. No! Confrontatevi con un uomo che aveva circa 32 anni, quando hanno iniziato a fargli la campagna di stampa contro e il linciaggio. Lo dipingevano come il rappresentante appunto della CIA e dei poteri oscuri a Milano, a 31-32 anni. Un uomo che, quando con mia madre – lei ne aveva 25, con due figli e un terzo in arrivo quando rimase vedova – andava al cinema doveva entrare a spettacolo iniziato, perché temeva che, se lo avessero riconosciuto, non gli avrebbero lasciato vedere il film. Questo lo dico non perché io pensi che si debba per forza portare un carico emozionale per sconfiggere la violenza, ma perché credo che si deve far riflettere su cosa sia la violenza. Perché penso – e con ciò vorrei concludere – che se non si racconta ai ragazzi d’oggi tutto questo, i ragazzi sono autorizzati a pensare che davvero in Italia ci sia stata una guerra civile, che i brigatisti fossero dei Che Guevara – una sorta di eroi romantici che hanno perso, mentre lo stato ha vinto –, di cui si può tenere il poster in camera. Ciò che vorrei è che ci si renda conto che questi eroi romantici in realtà sparavano in faccia ai giornalisti, mettevano bombe, uccidevano persone che non erano in guerra con nessuno. Questo è fondamentale.
Al riguardo ci sono anche piccole cose, piccole attenzioni che sono fondamentali. Faccio sempre l’esempio di Sergio Seggio – Sergio penserà, che se mai gli è capitato di vedermi da qualche parte, che ce l’ho con lui – perché è molto chiaro l’esempio. Sergio Seggio negli ultimi anni è stato intervistato moltissimo. È un ex terrorista: apparteneva a Prima linea; ha scritto un libro di memorie, con un titolo che io trovo un po’ troppo forte, Una vita in prima linea. Seggio oggi è impegnato nel sociale ed uno che rilascia spesso interviste. Non sono affatto contrario a che questo accada. Penso però una cosa: ogni volta che ho letto un’intervista a Sergio Seggio, soprattutto in cui gli si chiedeva di commentare altri episodi di terrorismo, per esempio la morte di D’Antona, di Biagi, dell’agente Petri, delle cosiddette nuove Brigate rosse, ecco ogni volta trovo scritto: “Sergio Seggio, oggi impegnato nel sociale con il gruppo Abele di Torino, sostiene che le nuove Brigate rosse ecc.”. Chi legge e non ha memoria storica, perché non è obbligato ad averla, cosa pensa? Di questo ex terrorista pensa che è una persona impegnata nel sociale. Sergio Seggio ha pagato per le sue responsabilità, ha pagato con il carcere e la sua pena l’ha scontata. Le pene si concludono. Le responsabilità, però, no: non si concludono. Quelle restano.
Allora penso che ci prima dell’intervista ci dovrebbe essere scritto: “Sergio Seggio, l’assassino dei giudici Alessandrini e Galli, oggi impegnato nel volontariato ecc.”. Altrimenti, se togliamo le parole in mezzo alle due virgole, primo abbiamo rimosso Alessandrini e Galli: non ci sono più, non hanno piu diritto di cittadinanza; è rimasto solo Seggio. C’e solo la sua voce, mentre gli altri sono scomparsi. Secondo: se non mettiamo quelle parole, perché stiamo intervistando Sergio Seggio? Devo riflettere sulle sue parole, capendo che certo la persona che ho di fronte oggi è diversa, ma pure ha certe responsabilità. Perché, diversamente, se c’è questa rimozione, che tipo di dibattito e di vaccinazione nei confronti della violenza possiamo fare?

NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 5.10.2007 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.