Sull’equivalenza cultura-repressione e sull’edonismo freudiano

Il paradosso psicanalitico può essere così riassunto, con le stesse parole di Freud: «l’aggressività contro la civiltà è un così potente ostacolo che il difendersi da essa può rendere tanto infelici quanto l’aggressività stessa». Ma allora che fare? Val la pena compiere lo sforzo dell’incivilimento che caratterizza il cammino umano se il gioco non vale la candela? E come difendere la civiltà e la stessa sopravvivenza della razza umana dagli assalti furiosi dello spirito di distruzione? Si può e spesso si deve energicamente dissentire dalla psicanalisi, soprattutto quando da metodo di analisi e di terapia si trasforma disinvoltamente in concezione del mondo e della vita; ma è certo che essa ha contribuito a sfatare «l’entusiastico pregiudizio» di un progresso in linea retta e che il cammino della nostra cultura sia destinato a portarci necessariamente alle altezze di una perfezione inimmaginabile.
Molti, troppi interrogativi fa sorgere nella mente l’impostazione riduttivistica del problema data da Freud e dai suoi epigoni. E’ assurda l’identificazione tout court di cultura e repressione, di razionalità e devitalizzazione. E’ questa la linea a cui s’ispirò la nicciana deformazione di quella grande e ricchissima personalità che fu Socrate, l’iniziatore insuperabile di ogni autentico umanesimo. Purtroppo quella linea è stata ossessivamente assunta a presupposto da tanta parte dell’irrazionalismo contemporaneo. Si deve invece ricordare una realtà in varia misura da tutti sperimentata: occorre distinguere fra la «cultura» che umanizza e le strozzature, le deformazioni alienanti che accompagnano i mutamenti richiesti dai processi di «civilizzazione». Non è affatto vero che la conquista di un valore, in campo etico o scientifico o artistico, comporti di necessità una frustrazione, anche a livello di risonanza psicologica. Ciò che veramente disumanizza è sempre la mutilazione, il misconoscimento dell’universalmente umano e non certo l’esercizio e lo sviluppo perfettivo, la «cultura» di quei poteri che fanno di un essere una persona. L’uomo – aveva detto Pascal nel famoso frammento sull’uomo che non è né angelo né bestia – farà bene a ricordarsi di essere un buon animale; e tuttavia, a essere schietti, la pienezza come pura e semplice espansione della vitalità non può fondare nessuna convivenza perché essa, indiscriminatamente considerata, si risolve in egoismo, in egocentrismo, in disvalore etico, psicologico e spirituale. L’etica non sopprime la vitalità, anzi la preserva e la potenzia nell’atto di umanizzarla.
Però il discorso non può fermarsi qui. Al di sopra del pur legittimo bonum delectabile congiunto all’espansione della nostra vitalità, almeno fino al punto che non soverchi o spenga quella altrui, deve grandeggiare il bonum honestum. Il primato spetta al bene morale per il quale, ove sia richiesto, si deve essere pronti al sacrificio, ad accettare anche ciò che deprime la nostra vitalità (si pensi ad un servizio divenuto ingrato e stressante, che però deve essere reso ai nostri simili) e persino il carcere, la tortura, la morte. «Il bene morale non è affatto un comparativo, ma uno schietto positivo», come è stato ben detto da Hartmann, proprio perché riassume in sé tutto ciò che attua le più profonde esigenze dell’uomo e costituisce la più alta perfezione della persona, anche quando una scelta secondo il valore più elevato rende drammatica una vita.
La problematicità, i dubbi fecondi, le autocritiche dell’iniziatore della psicanalisi sono in gran parte scomparsi nel freudomarxismo di Wilhelm Reich e di Herbert Marcuse; ma soprattutto sono del tutto assenti nella pseudomistica del ‘tutto e subito’ che si è creduto di poter dedurre da essi, nel rifiuto indiscriminato non solo del ‘rinvio’ in quanto tale, ma dalle tappe di sviluppo e di maturazione che a nessuno è dato saltare. Il pansessualismo, che Freud in qualche modo cercò di attenuare nelle ultime espressioni del suo pensiero e che fu oggetto di non infondate critiche da parte di avversarsi e di più o meno infedeli discepoli, ora torna in onore con Reich e Marcuse. L’esaltazione dell’istinto in quanto tale viene esibita senza scrupoli e senza remore, di là dai confini legittimi della sua funzione biologica e dal suo ruolo nell’economia di una vita pienamente umana. Alla libido, all’Eros sono attribuite capacità di metamorfosi, che farebbero arrossire Ovidio, compiti di organizzazione e di ricostruzione sociale, di cui risultano chiaramente incapaci ad ogni elementare indagine critica.
«L’aspirazione erotica a fare del corpo intero un soggetto/oggetto di piacere – dice testualmente Marcuse – richiede un raffinamento continuo dell’organismo e genera l’abolizione del lavoro faticoso, il miglioramento dell’ambiente, la vittoria sulle malattie e sul deperimento, la creazione del lusso». La liberazione degli istinti non potrà non essere «un rovesciamento del processo di civilizzazione, un sovvertimento della cultura, ma dopo che la cultura ha terminato la sua opera e ha creato un’umanità e un mondo atti a essere liberi». La realizzazione di questo groviglio di sogni miracolistici è affidata ai fantastici poteri di autosublimazione dell’Eros. Ma quand’anche fosse realizzabile, sarebbe davvero auspicabile un futuro marcusiano? Si può allineare alla spontaneità dell’istinto l’ideale di perfezione a cui devono tendere l’uomo e la società? E’ lecito confondere la giusta aspirazione a liberare il lavoro intellettuale e manuale da condizioni oppressive con la mitica scomparsa di ogni sforzo e di ogni fatica? L’utopia nebulosa del capo della contestazione degli Anni Sessanta è poi una meta degna dell’uomo? A noi sembra piuttosto un’aggiornata e complicata versione di un antichissimo mito, il mito dell’età dell’oro. L’anelito a migliorare sia moralmente che socialmente è serio e indistruttibile nell’uomo; ma questo anelito, per diventare una forza feconda di liberazione, di giustizia, di fraternità, dev’essere educato e diretto verso mete ben diverse da quelle del pansessualismo utopistico.

In AA.VV., “La perfezione oggi”, Liviana Editrice, Padova 1977, pp. 237-239.