Il ruolo dell’agricoltura: scelta strategica per i paesi in via di sviluppo

I primi chiarimenti decisivi sul problema della sicurezza alimentare nel paesi poveri risalgono agli inizi degli anni Settanta. Prima di allora, infatti, si credeva che la maggior parte dei problemi di malnutrizione nei paesi in via di sviluppo dipendesse da insufficienza proteica. E’ stato invece dimostrato più volte da studi rigorosi che la questione delle proteine è uno degli aspetti del problema, ma non è l’ostacolo più serio neanche nei paesi più poveri. Il problema principale è la mancanza di potenziale energetico nel regime alimentare dei poveri. Vorrei mettere in evidenza un punto: la sufficienza calorica non è data solo o prevalentemente dall’apporto proteico e può comunque non essere assicurata affatto se vi è carenza di vitamine e minerali. Le carenze di vitamine e minerali sono così specifiche e legate ai vari ambienti che è quasi impossibile intervenire direttamente attraverso una politica adeguata. Siamo quindi costretti a prendere in considerazione l’insufficienza calorica e le politiche specifiche che possono risolvere questo problema.
Per poter delineare una diagnosi del problema dobbiamo innanzitutto introdurre alcuni concetti di base, rammentando che i problemi di sicurezza alimentare hanno luogo a tre livelli principali. Il primo è a livello globale, il mondo nel suo insieme, poi a livello nazionale, delle singole nazioni, e quindi, per ultimo, a livello locale o familiare. Ci riferiremo, quindi, costantemente a questi tre livelli.
Il problema della sicurezza alimentare può essere concettualmente articolato in due distinte questioni. La prima è la disponibilità fisica del cibo, che coinvolge, di riflesso, il problema della produzione a livello mondiale, della produzione e delle importazioni a livello nazionale, nonché un’analisi della produzione e degli acquisti a livello locale. Il secondo aspetto del problema è che la sola disponibilità di prodotti alimentari, in quantità adeguate alla domanda, non significa necessariamente che le popolazioni siano in grado di comperarli; per poterli acquistare, gli individui devono disporre di un reddito, che permetta loro di ottenere cibo in misura sufficiente, mentre i prezzi non devono essere troppo alti.
Agli inizi degli anni Settanta vi era una grossa preoccupazione: sembrava che il mondo stesse esaurendo le proprie risorse alimentari. Da allora questi timori sono scomparsi, soprattutto per due motivi. Da una parte è chiaro che durante gli anni Settanta la produzione alimentare è cresciuta più velocemente rispetto alla crescita demografica; e questo non solo nel mondo sviluppato, ma anche nei paesi in via di sviluppo, dove la crescita totale è stata superiore di circa l’1% rispetto alla crescita demografica. Queste tendenze non sono nuove, sono tendenze a lungo termine ed è ormai evidente, per tutti coloro che si occupano di statistica, che la produzione agricola a livello mondiale cresce così rapidamente da sopravanzare facilmente il tasso di incremento della popolazione mondiale.
L’altro fattore attiene alle problematiche dei prezzi: anche se la tendenza della produzione è favorevole, questo non significa che un paese povero come il Bangladesh possa facilmente acquistare il cibo, in presenza di un’elevata lievitazione dei prezzi. Dall’analisi storica sappiamo, però, che durante gli ultimi cento anni i prezzi del frumento e del mais sono calati, tendenza che è continuata durante gli anni Settanta e Ottanta. Lo stesso vale per il riso. I prezzi del riso non sono calati allo stesso ritmo del frumento e del mais, tuttavia durante gli ultimi vent’anni non si sono verificati aumenti, né sono previsti per i prossimi anni.
Da questo quadro abbastanza positivo a livello mondiale si potrebbe forse concludere che la situazione rispetto al problema della fame è in fase di miglioramento, ma sfortunatamente le cose non vanno proprio così. Cercheremo ora di capire quante persone sono denutrite dal punto di vista calorico e qual è stata l’evoluzione di questa malnutrizione. Cercare di misurare quante persone soffrono di fame è, senza alcun dubbio, un compito molto difficile. Infatti, non conosciamo il consumo di cibo pro capite nei paesi in via di sviluppo ed abbiamo notevoli incertezze riguardo alla definizione di adeguatezza nutritiva. Dalla nostra esperienza nel settore della sicurezza alimentare siamo arrivati, comunque, a due proiezioni della malnutrizione. La prima è basata sul 90% del fabbisogno nutritivo fissato dalla FAO. Il soddisfacimento del 90% del fabbisogno nutritivo sembra dare energia sufficiente alle persone non solo per non ammalarsi, ma anche per permettere un accettabile livello di attività (vale a dire che possono lavorare o forse giocare a pallone durante il loro tempo libero). La seconda, che corrisponde all’80% del fabbisogno nutritivo fissato dalla FAO, rappresenta un livello al di sotto del quale la persona avrà quasi sicuramente problemi di salute, ne soffrirà e non sarà in grado di lavorare.
Nel 1980 la popolazione che si trovava in una situazione di rischio dal punto di vista nutritivo oscillava, a seconda degli indicatori utilizzati, tra i 335 milioni come valore minimo e 724 milioni come valore massimo: si può, quindi, capire il notevole grado di incertezza che caratterizza queste valutazioni. Se, dunque, non si può essere sicuri sul livello assoluto di malnutrizione, è, però, possibile vederne la tendenza evolutiva con il passare degli anni. Al riguardo tutte le nostre proiezioni concordano su un fatto, cioè che il numero di persone in una situazione di rischio dal punto di vista nutritivo è aumentato durante l’ultimo decennio.
Oltre a voler individuare quante sono le persone povere, è fondamentale, altresì, il sapere dove si trovano queste persone, o dove si trovano quelle malnutrite. Ed è abbastanza chiaro che, qualunque sia la definizione utilizzata, la maggior parte delle persone denutrite si trovano nell’Asia meridionale ed orientale. Il secondo gruppo per dimensioni secondo questi calcoli si trova in Africa, circa 152 milioni di persone. Il numero di persone in situazione di rischio dal punto di vista nutritivo è, invece, relativamente basso nel Medio Oriente ed in America Latina.
Se osserviamo poi la tendenza generale, registriamo marcate differenze a seconda delle regioni. A prescindere dal livello nutritivo utilizzato, il numero delle persone in situazione di rischio è aumentato soprattutto in Africa. Nel Sud e Sudest asiatico abbiamo avuto tassi di crescita simili, ma, poiché l’Africa è partita da una base più bassa, le risultanze dell’Africa sono state molto peggiori durante l’ultimo decennio rispetto a quelle del Sud e Sudest asiatico. In questi giorni si sente sempre di più parlare dell’Africa e della sua insufficiente produttività; tuttavia non dobbiamo dimenticare che il più grosso problema nutritivo si trova ancora nel Sud e Sudest asiatico. Per quanto riguarda invece l’America Latina ed il Medio Oriente il numero di persone in situazione di rischio nutritivo è in diminuzione.
Quando consideriamo il numero di persone coinvolte, il problema alimentare assume proporzioni enormi. Tuttavia, quando rapportiamo la quantità di cibo che sarebbe necessaria per risolvere il problema nutritivo, le quantità risultano trascurabili se considerate a livello mondiale. Anche se confrontiamo il deficit calorico totale con la produzione alimentare e la disponibilità di cibo degli stessi paesi nei quali vivono queste persone, il problema non sembra troppo grave. Secondo i nostri calcoli, il deficit alimentare totale corrisponde, infatti, a circa il 3,4% della disponibilità di cibo nei paesi con popolazione in situazione di rischio dal punto di vista nutritivo. Va, altresì, riconosciuto che, aumentando la produzione alimentare in questi paesi del 3,4%, non avremmo per ciò stesso eliminato la fame; un aumento del 3,4% nella produzione alimentare in quei paesi verrebbe probabilmente assorbita dai gruppi di popolazione più agiati e contribuirebbe in minima parte a risolvere il problema della malnutrizione. La ragione per la quale mi soffermo su questi dati è per chiarire che il problema della fame, della mancanza di sicurezza alimentare, non è necessariamente un problema di produzione, ma è soprattutto un problema di reddito della popolazione. Queste persone non hanno un potere d’acquisto sufficiente per comperare il cibo, che è generalmente disponibile nel loro stesso paese.
Per riassumere la nostra diagnosi sul problema della sicurezza alimentare, possiamo dire che la fame non è un problema di tendenza produttiva o di tendenza dei prezzi internazionali; nella maggior parte dei paesi non è neanche un problema di produzione o di prezzi interni, anche se nel caso dell’Africa la bassa produzione alimentare ha rapporto con la lenta crescita dei redditi. In particolare, a livello locale, la disponibilità non è quasi mai un problema. Possiamo visitare il mondo in via di sviluppo, possiamo attraversare la regione più povera e trovare negozi nei quali comperare cibo. A livello locale, cioè, il problema della malnutrizione cronica è un problema di povertà e non di produzione.
La produzione mondiale durante gli ultimi decenni non ha subito molte oscillazioni. Il coefficiente di variazione per la produzione mondiale dei cereali è di solo il 4% e, d’altra parte, il decennio scorso è stato caratterizzato da una notevole instabilità nei prezzi mondiali. Dobbiamo, tuttavia, riconoscere che in nessun momento durante gli anni ’70 è stato difficile, per i paesi in via di sviluppo che se lo potevano permettere, comperare cibo sul mercato internazionale. Nonostante questa instabilità non vi è mai stato un problema di disponibilità alimentare, ed il calo dei prezzi, sul finire del decennio, non è tanto riconducibile all’aumento della produzione, quanto, piuttosto, ad un calo della domanda. La crisi petrolifera ha ridotto i redditi sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo, l’agricoltura ha passato il periodo critico dei primi anni ’70, e, di conseguenza, i prezzi sono ritornati ai livelli dell’inizio del decennio.
Analizzando il problema a livello nazionale, appare centrale il problema delle fluttuazioni degli aggregati economici e finanziari. Innanzitutto, le variazioni nella produzione alimentare di una nazione superano di gran lunga la disponibilità di cibo globale; parliamo, infatti, di un coefficiente di variazione che oscilla tra il 10 ed il 20% nella produzione alimentare. I paesi devono poi affrontare le oscillazioni dei prezzi alla frontiera, che corrispondono ai loro prezzi di importazione. Se prendiamo in considerazione i prezzi alla frontiera vediamo che le oscillazioni, misurate in valuta locale, tendono generalmente a superare le oscillazioni dei prezzi internazionali. Anche se i paesi possono cercare di stabilizzare queste oscillazioni è tuttavia chiaro che davanti ad una produzione variabile i prezzi non si possono stabilizzare senza causare una notevole instabilità nei propri conti d’importazione e tutti i paesi che hanno cercato di stabilizzare i prezzi alimentari hanno dovuto affrontare una notevole instabilità nei loro conti con l’estero.
Il problema della sicurezza alimentare può, dunque, essere particolarmente grave a livello nazionale, specie se si considera che, oltre alla variabilità nella produzione e nei prezzi internazionali, vi sono altre fonti di instabilità. Le entrate dall’esportazione possono, infatti, variare considerevolmente, l’aiuto da paesi terzi può non essere costante, le possibilità di credito possono anch’esse cessare. Non a caso, nell’attuale congiuntura economica è abbastanza difficile per un qualsiasi paese in via di sviluppo ottenere crediti dal mercato internazionale.
Quando l’analisi si sposta a livello locale o a livello familiare le difficoltà sono rilevanti, perché le nostre conoscenze sulle fluttuazioni sono inferiori rispetto a quelle nazionali o internazionali. Una delle ragioni principali di ciò dipende dal fatto che non abbiamo praticamente alcun dato che segua le famiglie per più anni in modo da poter valutare le variazioni dei loro consumi alimentari. Le poche informazioni di cui disponiamo suggeriscono che a livello locale si presenta un serio problema di instabilità, anche se i paesi sono in grado di stabilizzare i prezzi e la disponibilità a livello nazionale. Non è, peraltro, difficile capirne le ragioni: una grande nazione può avere una buona situazione dal punto di vista .alimentare, ma, allo stesso tempo, registrare una grave siccità in alcune regioni, e qui i redditi crollano verticalmente. Le stesse oscillazioni nel consumo alimentare hanno diverse cause e possono dipendere da siccità, tifoni o guerre. Gli studi più recenti ed affinati mostrano, comunque, con sufficiente evidenza che il problema della disponibilità di cibo non è mai il problema principale.
Il fatto oramai dimostrato è che, persino durante le carestie, la mancanza di disponibilità di cibo è raramente considerevole. La grande carestia del Bengala durante la seconda guerra mondiale, che ha prodotto milioni di vittime, era associata ad una marginale riduzione nella disponibilità di cibo. Durante la carestia era, di fatto, possibile entrare in un negozio di alimentari e comperare quantità sufficienti di cibo. Le persone maggiormente colpite erano i lavoratori senza terra poiché essendo privi di lavoro, non disponevano di alcun reddito: sono, quindi, stati proprio loro a morire in grande numero. Tale evoluzione si è palesata anche in altre .situazioni, come in Etiopia durante gli anni ’70, e nella grande siccità del Sahel, dove è ancora una volta chiaro che sono state le persone relativamente povere a perdere la loro fonte di reddito, e quindi di approvvigionamento alimentare, nonostante che, in linea di massima, in queste regioni il cibo si potesse ancora comperare.
Prima di concludere questa sezione vorrei mettere in evidenza due punti. La carestia è un fenomeno di classe sociale; generalmente non colpisce le classi con reddito medio o alto delle regioni colpite, ma i poveri, che perdono la loro occupazione, le opportunità di salario e che hanno esaurito i loro risparmi. Ed un’altra cosa va ricordata: vi sono situazioni nelle quali la disponibilità di cibo costituisce veramente un problema, soprattutto durante i conflitti, quando diventa impossibile trasportare il cibo da una parte del paese all’altra; ma queste situazioni sono abbastanza limitate e le organizzazioni internazionali sono sufficientemente preparate ad affrontarle. Non si può, cioè, affermare che la disponibilità di cibo non sia mai un problema, ma certamente lo è molto meno di quanto si pensi.
Vediamo, allora, di analizzare le possibilità di intervento. I vari interventi per migliorare la sicurezza alimentare, sia che si parli del problema cronico o di quello transitorio, dipendono fondamentalmente dal potere di acquisto reale dei poveri, o delle persone colpite. Questo si può ottenere in diversi modi: fornire direttamente il cibo, concedere aiuti sotto forma di denaro, utilizzare dei progetti di sviluppo per migliorare i loro redditi, trovare misure a livello nazionale che tendano i ridurre i prezzi.
Ci chiediamo: ha senso accrescere il potere di acquisto sotto forma di cibo? L’idea che sta alla base di questo approccio è: per ogni chilogrammo di frumento offerto la famiglia consumerà un chilogrammo di frumento in più. Sfortunatamente questa è un’idea molto semplicistica sul comportamento dei poveri. I poveri hanno molte necessità impellenti, possono avere necessità sanitarie, problemi di istruzione; così quando ricevono un chilogrammo di frumento, quello che fanno generalmente è di ridurre l’acquisto di qualche altro tipo di alimento. Esistono delle controversie rispetto a quanto ridurranno i loro acquisti di alimenti, ma quasi tutti concordano che le riduzioni sono considerevoli e che l’approccio migliore per una politica d’intervento è partire dal presupposto che il povero considererà il chilogrammo di frumento ricevuto come una entrata sotto forma di reddito e, quindi, si comporterà come se avesse ricevuto la stessa quantità di reddito sotto forma di denaro. Esistono due indicazioni per quanto riguarda le politiche di intervento che emergono da questa diagnosi. La prima precisa che, senza dubbio, è molto costoso cercare di raggiungere determinati obiettivi nutritivi attraverso il trasferimento di cibo. La seconda linea-guida è quella per la quale, se siamo costretti a fornire reddito in forma di cibo, allora dovremo fornire cibi che abbiano un alto valore di reddito, ed occorre cercare di fornire cibi che, una volta rivenduti sul mercato o scambiati, permettano un alto guadagno.
Ma torniamo un attimo sul problema cronico. Dall’analisi fin qui condotta sul reddito emergono chiaramente due fenomeni: innanzitutto, ciò che migliora la crescita economica è positivo per la sicurezza alimentare; in secondo luogo, tutto ciò che migliora la distribuzione del reddito è positivo per la povera gente. Interventi che favoriscono l’agricoltura, interventi che favoriscono l’occupazione piuttosto che l’impiego di capitali, interventi che favoriscono i piccoli agricoltori piuttosto che i grandi sono tutti desiderabili dal punto di vista della sicurezza alimentare. Ma il problema centrale è che non possiamo, comunque, arrestarci qua, non possiamo aspettare la crescita senza fare niente. Poiché la sofferenza è troppo grande, la domanda che dobbiamo porci è: cosa possiamo fare per alleviare i problemi della fame oggi, oltre a quegli interventi che favoriscono la crescita?
Le politiche alimentari specifiche per la mancanza di sicurezza alimentare cronica comprendono tre possibilità. La prima è costituita da politiche di fornitura alimentate. Sono politiche che hanno come obiettivo l’aumento della disponibilità di cibo all’interno dell’economia nazionale attraverso l’aumento della produzione o delle importazioni per ridurre i prezzi. Considerando questo tipo di politica, dobbiamo sempre tenere presenti due fattori. Innanzitutto dobbiamo considerare chi sono i poveri. Se i poveri sono compratori netti di cibo, come per esempio nel caso di lavoratori senza terra o poveri urbani, trarranno beneficio da prezzi più bassi, avranno un aumento di reddito e aumenteranno anche l’acquisto di cibo grazie a questa riduzione dei prezzi. In molti paesi asiatici la maggior parte dei poveri sono indubbiamente compratori netti di cibo e per questi paesi ha senso seguire politiche che hanno come obiettivo la riduzione dei prezzi alimentari. Tuttavia nei paesi africani la realtà è diversa; essi sono, in quanto produttori, vicini all’autosufficienza; ma i poveri che diventano sempre più venditori netti di cibo si aiutano di più aumentando i prezzi agricoli piuttosto che riducendoli.
La cosa importante da capire è, quindi, che non possiamo utilizzare un tipo di politica dei prezzi per tutti i paesi se vogliamo che ne traggano beneficio i poveri: dobbiamo conoscere e adattare la politica dei prezzi al contesto specifico del paese. Ed un’altra cosa va aggiunta al riguardo. Molti paesi danno grande importanza all’autosufficienza alimentare, ma inseguire ciecamente l’autosufficienza alimentare spesso implica mantenere alti i prezzi alimentari in modo tale da incentivare gli agricoltori ad aumentare la loro produttività. La ricerca cieca dell’autosufficienza alimentare può essere molto dannosa per la gente povera che è compratrice netta di alimenti.
Tenendo in considerazione questo dilemma, la seconda politica di intervento che viene spesso attuata si concretizza in un doppio regime dei prezzi, sovvenzionando i prezzi alimentari e mantenendo alti i prezzi dei produttori, in modo da avere entrambi i vantaggi. In linea di massima questo è un tipo di politica che è molto più attraente rispetto ad una politica di depressione dei prezzi alimentari, tuttavia è di difficile attuazione. Se vogliamo che le nostre sovvenzioni alimentari vengano utilizzate da un settore molto ridotto della popolazione, o solo dai poveri, bisogna dire che questo è attuabile solo nei paesi sviluppati dove i poveri costituiscono una frazione molto ridotta della popolazione. Nei paesi in via di sviluppo, invece, ci troviamo spesso in situazioni dove il gruppo interessato costituisce forse il 40% della popolazione, un numero non certo ridotto e del quale fanno parte molti agricoltori. Quindi anche le sovvenzioni dei prezzi alimentari, dirette a determinate fasce della popolazione, non sono facilmente attuabili. Un altro sistema per sovvenzionare gli alimenti, che è fattibile ed è stato utilizzato, per esempio, in Messico ed in Egitto, è quello di sovvenzionare un cibo lavorato, come per esempio il pane e le tortillas, mantenendo alti i prezzi del prodotto di base. Queste politiche possono funzionare, ma a volte sorgono altri problemi. Il caso messicano è, per esempio, significativo: molte persone non comperano più le tortillas, e se le fanno loro, cosicché le sovvenzioni non riescono ad arrivare a questa povera gente. E’, quindi, una politica utile e opportuna in qualche caso, ma non sempre.
Le ultime politiche di intervento sono costituite da progetti per aumentare il reddito, promuovere l’impiego pubblico, la costruzione di infrastrutture in regioni povere ed i progetti di sviluppo agricolo per piccoli agricoltori. Ancora una volta questi progetti di intervento possono funzionare, anche se non sono certo una panacea, ma sono particolarmente adatti soltanto in quelle circostanze nelle quali i poveri sono piccoli agricoltori, che devono comperare e non vendere. Si può quindi dire che, per questioni di deficienza alimentare cronica, è possibile aiutare la gente, ma non è facile e le soluzioni da adottare devono adattarsi alla situazione nazionale, in quanto dipendono dalla costituzione della popolazione. Dipende da dove si trovano i poveri, quali sono le loro fonti di reddito e quali sono le spese che devono sostenere; solo se si conoscono tutte queste informazioni si può ideare una politica specifica per un particolare paese.
Mentre per raggiungere la sicurezza alimentare strutturale è molto difficile definire una soluzione generalizzata, per una sicurezza alimentare transitoria si possono enucleare due obiettivi, per quanto riguarda la politica di intervento. Il primo è quello di stabilizzare i prezzi. La maniera più efficace è una politica di mercato libero, modificato durante gli anni in cui i prezzi sono bassi, cui corrispondono, invece, sussidi all’importazione durante gli anni caratterizzati da prezzi elevati. Molti paesi in via di sviluppo hanno, in realtà, seguito questa politica, con la conseguente destabilizzazione dei conti per l’importazione. E’ esattamente per questa ragione che a metà degli anni ’70 il Fondo Monetario Internazionale ha creato una struttura di finanziamento compensatoria, uno strumento che permette ai paesi che si trovano al momento in difficoltà per importazioni di alimenti di contare sulle risorse del FMI, per acquistare temporaneamente cibo e poi pagarlo. Poiché negli ultimi sei o sette anni i prezzi sono calati, ben pochi paesi hanno utilizzato questo strumento finanziario; ma se si dovessero avere nuove fluttuazioni nei prezzi alimentari, del tipo di quelle registrate nel 1973, il FMI potrebbe diventare uno degli agenti principali per la sicurezza alimentare.
Esistono, comunque, due strumenti praticamente inefficaci per stabilizzare i prezzi. Per evitare la speculazione i paesi a volte nazionalizzano il commercio dei cereali alimentari. Dove è stata effettuata, questa soluzione non ha avuto successo e la maggior parte dei paesi hanno abbandonato ogni volta queste politiche. La seconda politica, che risulta spesso costosa, è quella di costituire grosse scorte-cuscinetto, nazionali. Purtroppo, scorte di piccole dimensioni non garantiscono molta stabilità, e bisogna quindi mantenere scorte di notevoli dimensioni per ottenere questo effetto di stabilizzazione, con un costo troppo elevato rispetto al livellamento delle fluttuazioni sul commercio internazionale.
Per quanto, infine, concerne il problema delle carestie, occorre rammentare che esse sono una combinazione di scarsità di cibo unita ad una mancanza di reddito e risparmi per comperare il cibo rimasto. Bisogna, cioè, ricordare che la spedizione di cibo ai paesi colpiti non è sufficiente. Le persone che si trovano in una situazione di rischio non hanno i soldi per comperare il cibo anche se questo viene spedito. Nel caso speciale delle carestie dobbiamo, quindi, consegnare il cibo direttamente alle persone in difficoltà o dobbiamo fornirgli il denaro per comperarlo. Ancora una volta, esistono molti modi per fornirgli questo denaro, ma l’importante è capire che la semplice spedizione di cibo non può essere e, di fatto, non è sufficiente.

NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 16.11.1984 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.