Una speranza per l’Africa dall’inferno del Burundi

Tematiche: Testimoni

Buonasera a tutti. Mi spiace non poter parlare la vostra bellissima lingua italiana, ma credo che
gli italiani parlino con le mani, con i gesti, così come i burundesi.
Quando ho ricevuto la lettera di invito della vostra Cooperativa, ho visto che era a Brescia e sono rimasta davvero colpita, colpita per diversi motivi: ero molto amica di monsignor Ruhuna, l’arcivescovo che è stato ucciso nel mio Paese. Quando ero giovane lui mi parlava spesso degli aiuti che Brescia dava ai cristiani del mio popolo, il popolo burundese, e lui è un modello per me e mi dà l’occasione di dirvi grazie per essere al nostro fianco.
Avevo però un motivo per dire no, perché ogni volta che qualcuno viene dall’Africa qui da voi, è per presentare un progetto, per mendicare. Io invece volevo dare un altro volto degli africani e dei burundesi.
Siccome sono una ribelle, vorrei stasera sognare con voi un mondo più umano, più fraterno.
Non sono qui stasera per raccontarvi le miserie che ci sono nel mio Paese, vengo a parlarvi della speranza, della speranza in mezzo alle atrocità. Vengo a mendicare il vostro cuore, perché possiamo essere tutti risplendenti della gloria di Dio.
Le persone mi chiedono sempre: “Perché non chiedete mai?”. E io dico: “Siamo tutti principi, principesse, figli di Dio. Dio ci ha dato tutto. Dio si è fatto uomo perché noi potessimo essere Dio. Cosa potremmo chiedere ancora?”.
Quando un giornalista mi ha chiesto, quando io avevo trecento bambini di meno di due anni e degli adolescenti colpiti da granate, senza mani o mutilati: “Perché fai questo?”, ho risposto: “Siamo stati creati per amore e per amare”. Ecco la motivazione più bella, la risposta più bella della persona umana. E lui: “Ma lei, con simili atrocità, con simili dolori, mi risponde col sorriso? È cinica?”.
Gli ho risposto: “Ma chi le ha detto che dobbiamo portare tutto il mondo sulle nostre spalle? Pensate che il mondo si possa cambiare solo con le lacrime e con la tristezza? È Dio che porta il mondo! Volete prendervi troppo sul serio? Pensate di essere voi a dover cambiare il mondo?”.
Anche se non voglio raccontarvi queste atrocità, vorrei dirvi chi è la donna che vi parla e che vi ha illustrato il percorso, ma non vi ha detto perché ha dovuto fare questo.
Sono nata in un Paese che è abituato a uccidere e che ha banalizzato la morte. Ai miei fratelli e sorelle burundesi che sono qui, nella sala, vorrei chiedere perdono, perché dirò quello che le orecchie burundesi non vogliono sentire e che spesso dà fastidio. Voglio anche chiedere scusa agli italiani che hanno vissuto in Burundi, perché forse hanno teso l’orecchio a delle persone che sono astute.
Nel Burundi si è incominciato ad uccidere nel 1961, quando hanno ucciso il nostro principe. Ma le persone hanno taciuto, la comunità internazionale ha taciuto. Hanno ucciso il primo ministro Hutu nel 1965, e i Tutsi hanno chiamato questo fatto “avvenimento”. Ancora, nel 1972 sono stati uccisi contadini Tutsi e quasi tutti gli intellettuali Hutu, e ancora una volta tutto questo è stato chiamato “avvenimento”. Quando ero a scuola, avevo 16 anni, li abbiamo chiamati “orfani degli avvenimenti”. E ci sono state molte vedove Tutsi, che sono state chiamate “vedove degli avvenimenti”. E guai ai missionari che hanno osato dire qualcosa: sono stati esiliati dal Paese.
Allora, vi racconterò la mia storia personale, che comincia qui.
Quando ho saputo che un professore, un professore molto bravo che amavo tanto, era stato caricato su un camion militare, una donna burundese si è alzata: ho osato alzarmi e andare via dalla scuola. E mi sono chiesta: “Ma perché non piangiamo? Abbiamo pregato il nostro Padre in chiesa, e poi, quando portano via i nostri fratelli, tacciamo!” Ho avuto un brutto voto in educazione.
Ho perso mio padre quando avevo 5 anni e mia mamma mi ha cresciuto con i valori cristiani. Quando sono tornata a casa le ho chiesto: “Ma perché gli Hutu sono dei ribelli?”. E mia mamma mi ha detto:”Tu non capisci. Diciamo il rosario”. Io ho detto:”No, sono stanca delle vostre preghiere, sono stanca del rosario quando si uccidono delle persone, sono stanca di queste preghiere, le preghiere senza azioni non mi dicono assolutamente niente”. E mia mamma mi ha detto:”Ma allora cosa fai?”. Io le ho detto:”Penso che siamo troppo vigliacchi. Io voglio cambiare, voglio diventare insegnante”. Quando sei insegnante puoi comunicare un’altra educazione. Sono andata quindi in una scuola normale, perciò mista, e così ho avuto il mio diploma nel 1979.
Ho cominciato a insegnare proprio nel liceo che l’arcivescovo aveva fatto costruire. A Ruyigi, dove sono nata, il 98% della popolazione è Hutu. Io invece sono Tutsi, e come il 2% della popolazione ho lavorato e studiato a Ruyigi. Allora ho chiesto come mai la maggior parte dei bambini a scuola era di etnia Tutsi. Ho detto una frase che non è piaciuta, ho detto:”questa è una bomba a scoppio ritardato. Questi bambini che non vanno a scuola un giorno diventeranno ribelli”. E quindi sono stata rifiutata, io Tutsi, dalla scuola, e sono stata presa in giro su un giornale in cui si diceva “i Tutsi la definiscono traditrice, invece gli Hutu non hanno fiducia in lei: dà fastidio a tutti, anche alla Chiesa”. Ma il primo che ha dato fastidio è stato Gesù, che ha dato fastidio ai pagani, che ha dato fastidio agli Ebrei, ha dato fastidio a tutti. Quindi, se vogliamo seguirlo, anche noi dobbiamo dare noia. E allora ho deciso di adottare ed educare dei bambini. E quindi ho cominciato ad adottare Cloé, che era Hutu, protestante, e che viene dal sud del Paese, da cui viene la maggior parte dei dirigenti del mio Paese, e quindi non li amiamo. E ho detto: “Cloé sarà una sfida: una donna Tutsi che adotta un bambino Hutu, protestante, che viene dal sud, e in più (la donna) non si vuole sposare”. Avevo 23 anni.
Quando l’ho portata nella mia famiglia, tutti hanno detto: “Ecco la pecora nera, ecco la folle”.
Sulla collina in cui sono nata effettivamente questa era una pazzia, poiché era una collina tutta di Tutsi, e dove mio nonno che era poligamo, che ha ingannato i missionari, ha fatto battezzare tutte le sue sei mogli, dicendo ai missionari che avrebbe tenuto soltanto una moglie. Ed è qui che è stata creata questa comunità. Ma proprio in questo momento sono nate le peripezie, le sofferenze, le incomprensioni, le maldicenze, le calunnie di Maggy. Ma salterò questa parte, non voglio essere chiacchierona come le vecchie signore che amano parlare e parlare…
Arriverò subito al giorno del 21 ottobre 1993, un giorno cruciale. In quel momento avevo a casa con me sette bambini che avevo adottato nel mio cuore, tre Tutsi e quattro Hutu.
Quando è stato assassinato il primo presidente Hutu, Ndadaye, che era stato eletto democraticamente, gli Hutu si sono offesi, e hanno iniziato ad uccidere i loro vicini Tutsi. Volevo scappare, ma non sapevo dove andare, poiché gli Hutu mi dicevano: “Anche noi scapperemo, andremo verso la Tanzania”; invece i miei zii Tutsi mi dicevano:”Ma dove metteremo i tuoi bambini Hutu?”.
Ho deciso allora di rifugiarmi presso il Vescovado, dove avevo cominciato a lavorare due anni prima. Sono partita il 22 ottobre 1993. Il 23 ottobre sono arrivati i militari Tutsi; sono venuti per la repressione e per proteggere i Tutsi di Ruyigi, e hanno ucciso gli Hutu, anche quelli che in realtà non avevano fatto nulla. Io ero andata a prendere i miei fratelli e sorelle di battesimo per proteggerli nel Vescovado. (Il 24 ottobre 2007 abbiamo festeggiato l’anniversario, non un anniversario di morte ma l’anniversario della vittoria dell’amore sull’odio). E quel 24 ottobre sono arrivati nel Vescovado i Tutsi per uccidere gli intellettuali Hutu, per vendicarsi.
“Anche se ci fossero qui delle persone che hanno ucciso – ho detto – voi non potete uccidere a vostra volta i vostri fratelli, come Caino. Io non vi darò le chiavi”. E allora non mi hanno lasciato parlare, mi hanno legata a una sedia, hanno cosparso l’edificio con la benzina, hanno dato fuoco, hanno obbligato le persone a scappare, ma le hanno uccise davanti ai miei occhi. Raccontandovi ciò, non voglio fare come nel film “Hotel Rwanda”. Vorrei dirvi, con il mio volto, che non sono le atrocità che mi sono rimaste. Verso le 17 ho guardato naturalmente tutti questi cadaveri. Ho provato disgusto. Sono andata in cappella. Ho detto:”Signore, la mia mamma mi aveva insegnato che tu sei un Dio d’amore, dimmi come sei, Dio, amore qui oggi. E nel momento in cui stavo iniziando a piangere, ho sentito la voce di Cloé in sacrestia. I miei sette bambini erano tutti vivi. Ho capito questa vocazione, della quale voglio parlarvi oggi. Questa vocazione all’amore, che tutti questi bambini potevano riprodurre oggi una nuova generazione.
Quattro bambini Hutu, e tre Tutsi, e altri venticinque bambini che ero riuscita a proteggere. Allora li ho guardati e ho detto: “Voi sarete la nuova generazione che illuminerà le tenebre del Burundi”. Sono scappata, senza sapere dove sarei andata. Prima ad un cimitero, poi un cooperante tedesco mi ha protetta. E il giorno dopo ho avuto dei bambini Tutsi che non avevano gli occhi. Li ho accolti tutti, ma non sapevo cosa dare loro, se non questa fede smisurata nella Provvidenza. Da questi venticinque bambini siamo arrivati a circa diecimila 14 anni dopo, e credo di essere la donna più felice del mondo, perché nessuna donna ha 10.000 figli. Non sono la mamma delle vittime. Sono la madre della speranza.
Questi bambini sono cresciuti. Oggi più di 35 giovani sono all’Università in Burundi. Tre quarti dei miei colleghi oggi sono ex-bambini della Maison Shalom.
Vorrei concludere con questo messaggio: ognuno di voi è capace, con la forza dell’amore, di spostare le montagne dell’odio fraterno. Ognuno di noi è capace di farlo, perché abbiamo abbastanza amore nel nostro cuore. Niente resiste all’amore. Anche il peggior criminale, se gli offrite questo amore, s’inginocchierà. É la cosa che ci manca di più, e che più manca nel mondo, perché da una parte alcuni muoiono per aver mangiato troppo, dall’altra si muore per non aver mangiato abbastanza: mentre 800 miliardi di dollari sono stati spesi per la guerra in Iraq, quando si chiede per l’Africa si dice: “No, non abbiamo abbastanza soldi”.
Ma non sono qui per chiedervi di piagnucolare su di noi, perché oggi tutti fanno così, quando si parla dell’Africa. E non voglio che gli africani diventino delle vittime. Quando sentite parlare gli africani, spesso si lamentano dell’Europa, si lamentano di essere delle vittime, ma le vittime di chi?
E voglio concludere con uno scherzo. Spesso viaggio in aereo. Vedo spesso i nostri ministri, i nostri vescovi viaggiare in aereo. E vedo sulla valigia di un ministro che lui parteciperà ad un incontro sull’eliminazione della povertà in Africa. È in business class. E ha un bicchiere di champagne. E si incontrerà col segretario della Commissione europea, che è in classe economica. E poi vedete le cartelle, in cui c’è scritto “Orfanotrofio di Santa Maria Della Misericordia”. Oppure vedete una Ong locale con scritto “Assistenza ai bambini colpiti dall’ AIDS”. E allora scopro che non siamo altro che dei mendicanti eterni. E sogno un giorno di viaggiare in un aereo che mi porta al Nord, con un progetto di un europeo che è venuto al Sud, un progetto che parli della “gioia di vivere”. Perché anche voi non venite a chiederci dei progetti?: “Non avete nessun progetto per noi?”.
È questo che vorrei chiedervi, cioè di permetterci di costruire un mondo di felicità.
Direte ancora: “La pazza del Burundi…”
Vorrei che questa pazzia vi contagiasse oggi, vorrei chiedervi di alzarvi tutti e di tenervi per mano. Vi chiedo di ripetere quello che dirò, ballando e cantando: la main dans la main…la main dans la main….

NOTA: testo non rivisto dall’Autore della conferenza tenuta a Brescia il 25.10.2007 su invito della Cooperativa cattolico-democratica di Cultura.