Per una fondazione etica dei diritti dell’uomo

Autori: Berti Enrico

Il tema da trattare si presenta con un carattere di attualità per i arie ragioni. Anzitutto non si finisce mai, nel mondo, di lottare per i diritti umani: è inutile ricordare i luoghi dove ancora questa lotta impegna enormi masse di persone, dal Sud Africa, alla Cina, all’Europa Orientale.
Il tema dei diritti umani riveste grande attualità anche dal punto di vista teorico in questo anno di ricorrenza del II centenario della rivoluzione francese: il 1789 fu l’occasione per una delle più famose dichiarazioni dei diritti dell’uomo che siano mai state promulgate. Forse ci si attendeva, nelle numerose manifestazioni che sono state fatte per ricordare la rivoluzione francese, una maggiore attenzione per la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, che in fondo rappresenta uno degli aspetti più validi, forse il più valido, di tutta quella vicenda. Invece il dibattito che c’è stato tra gli studiosi quest’anno è stato rivolto soprattutto ad altri aspetti del problema: si è parlato a lungo del Terrore e dei suoi aspetti negativi, dell’esistenza di una continuità o meno tra le diverse fasi della rivoluzione, ma non molta attenzione è stata rivolta alla “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”.
Comunque, anche in questa occasione si è venuta consolidando una constatazione che ormai è di dominio pubblico: che, cioè, sul tema dei diritti umani esiste oggi un largo consenso di opinioni.
Non si trova più quasi nessuno disposto a contestare la validità dei diritti dell’uomo; su di essi c’è una convergenza, in senso positivo, tra orientamenti culturali, politici e religiosi anche molto diversi fra loro. Riconoscere la validità dei diritti umani è diventato, oggi, quasi un luogo comune.
Certo, se si va un poco a guardare quali sono le motivazioni ed anche qual è il significato che ciascuno dà a questo consenso così largo e generale sui diritti dell’uomo, si trovano subito differenze, incertezze, oscurità. Per esempio, tutti sono d’accordo nel riconoscere la validità di questi diritti, ma l’accordo viene subito a mancare appena si discute a chi essi devono essere riconosciuti, se a tutti gli esseri umani o soltanto a quelli che sono nel pieno possesso delle loro capacità fisiche e psichiche.
Così anche ci si accorge dell’esistenza di parecchi dissensi, quando ci si domanda, uscendo un po’ dal generico, quali sono i diritti umani che devono essere riconosciuti. Sii alcuni di essi è abbastanza facile essere d’accordo: la vita, la libertà, la giustizia.
Ma, spingendosi un po’ più oltre, si pone il problema, ad esempio, dell’assistenza medica: è giusto riconoscerla proprio a tutti, in tutti i momenti e in tutte le forme possibili? E l’istruzione, è giusto garantirla a tutti fino ad una età avanzata? E il diritto ad avere certe vacanze, certe comodità, certi comforts?
Su questo probabilmente non tutti sono d’accordo, quindi il consenso è più superficiale che altro, o per lo meno non è completo.
Il punto, poi, su cui non esiste assolutamente nessun consenso, è proprio quello relativo alla fondazione. Quando si domanda su cosa si fondano, come si giustificano, con quali argomenti e ragioni si possono difendere i diritti umani, qui immediatamente le posizioni divergono. J. Maritain, il filosofo francese cattolico che ha così influenzato la cultura del nostro tempo, si trovò nel 1948 a lavorare nell’UNESCO in una commissione che doveva fare un’inchiesta su ciò che gli uomini di cultura pensavano a proposito della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, promulgata dalle Nazioni Unite proprio in quel periodo. Il filosofo racconta che trovò tutti d’accordo i rappresentanti dei vari paesi, culture, filosofie, orientamenti politici, sul contenuto della carta, cioè sull’enumerazione dei diritti, ma, avendo egli dovuto chiedere a ciascuno perché, per quali ragioni essi sostenessero i diritti dell’uomo, ciascuno diede una risposta diversa. C’era un disaccordo totale sulle ragioni, cioè sulla fondazione di questi diritti.
Anche un filosofo italiano di grande prestigio e autorevolezza, Norberto Bobbio, più volte ha avuto occasione di dire che i diritti umani non sono dimostrabili, non è possibile darne una fondazione filosofica: essi devono essere difesi, realizzati, ma non devono essere messi in discussione, proprio perché è impossibile arrivare con argomenti razionali a darne una vera e propria fondazione.
Quello che si può fare è, partendo dalla constatazione sulla quale tutti sono d’accordo, vedere se è possibile trarne delle implicazioni, cioè delle ragioni che siano, magari non esplicitamente né consapevolmente, ma tuttavia di fatto, effettivamente ammesse da tutti coloro che riconoscono il valore dei diritti. A mio avviso, è possibile dimostrare che una fondazione etica è sottintesa, è implicita, è necessariamente richiesta nelle posizioni di coloro che sono disposti a riconoscere la validità di questi diritti.
La fondazione a cui si può arrivare in questo modo, forse, non e una fondazione filosofica, nel senso più rigoroso del termine, cioè qualcosa di incontrovertibile; è una fondazione che può avere tutto il valore che hanno in generale gli argomenti della filosofia pratica. Essa non è come la matematica o la geometria, che dispongono di assiomi evidenti e sono in grado di costruire dimostrazioni su cui tutti sono costretti a dare il proprio assenso. Si suol dire che la matematica non è un’opinione, proprio perché in essa non c’è spazio per l’opinabile, si tratta di dimostrare: si dimostra o non si dimostra.
Secondo alcuni è possibile fare questo anche in filosofia, secondo altri no, ma certo la parte della filosofia in cui è più difficile realizzarlo è la filosofia pratica, perché questa non ha a che fare con principi universali, di validità assoluta. La filosofia pratica si occupa delle azioni umane, del singolo e della società, le quali sono soggette a continue variazioni, a fluttuazioni, hanno un certo margine di imprevedibilità, sono frutto di decisioni libere e quindi non è possibile ricondurle a leggi immutabili ed eterne. Ecco allora che, nell’ambito della filosofia pratica, non si possono portare delle ragioni altrettanto rigorose quanto quelle della matematica e della geometria.
Questo non vuol dire che in essa non sia possibile discutere ed argomentare, che non si possano portare ugualmente delle ragioni a favore o contro una certa tesi, perché, in definitiva, si può dire che una determinata posizione è più valida, più fondata, più giustificata rispetto ad un’altra.
Se ci si accontenta di un tipo di fondazione di questo genere, con un grado di rigore sufficiente, anche se non assoluto, comunque tale da indurre a preferire una certa posizione piuttosto che quella opposta, è possibile dimostrare come il consenso generale sui diritti umani implica una determinata etica, cioè è fondabile dal punto di vista di un’etica abbastanza precisa ed individuabile.
Il tipo di ragionamento che propongo sì rifà al pensiero di un filosofo tedesco conosciuto e tutt’oggi vivente, molto apprezzato: Karl-Otto Apel, uno degli esponenti della cosiddetta seconda generazione della Scuola di Francoforte. Dopo i famosissimi Horkheimer, Adorno e Marcuse, che negli anni Sessanta avevano ispirato addirittura la contestazione studentesca, nella Scuola di Francoforte è subentrata una nuova generazione di filosofi, di cui i più conosciuti sono appunto Apel e Habermas. Apel ha elaborato una filosofia chiamata “pragmatica trascendentale”, la quale consiste nel mostrare come alla base del nostro modo di comportarci, cioè della prassi, dell’azione concreta degli uomini, si trovino dei presupposti che devono essere esplicitati e che coloro che si comportano in un determinato modo sono costretti ad ammettere, se non vogliono cadere nella “contraddizione pragmatica o performativa”, cioè in una contraddizione tra ciò che dicono e ciò che fanno.
Apel, in verità, usa l’espressione “contraddizione performativa o pragmatica” per dire cose che erano già state dette molti secoli fa da Aristotele. Un esempio di contraddizione performativa addotto da Apel è questo: se uno dice “Io non esisto”, il fatto che egli lo dica smentisce ciò che dice, cioè c’è contraddizione tra l’atto del dire, che può essere compiuto soltanto se si esiste, e il contenuto della cosa detta, cioè “Io non esisto”. Questo è un caso tipico, molto elementare, di contraddizione performativa.
Esso ricorda ciò che Aristotele obiettava ai negatori del “principio di non contraddizione”: quando essi sostenevano che non c’è alcuna differenza tra il dire una cosa e dire il suo contrario, lui rispondeva: “Ma allora perché, quando andate a Megara, vi mettete in cammino e non ve ne restate a casa, se per voi è la stessa cosa andare o non andare? Oppure perché, quando camminate, fate bene attenzione a non cadere in un pozzo, se per voi non c’è nessuna differenza tra il cadere e il non cadere nel pozzo?” In tal modo egli rivelava una contraddizione tra un certo modo di agire e un determinato contenuto di pensiero.
Tutti coloro che ammettono la validità dei diritti umani, se non vogliono cadere in una serie di contraddizioni pragmatiche o performative, devono onestamente riconoscere che a fondamento dei diritti umani esiste una determinata etica, una determinata concezione dell’uomo, una determinata concezione di ciò che è bene e ciò che è male. E questo vale a prescindere dall’orientamento filosofico, religioso e politico che uno può avere.
Si sa benissimo che in tutte le dichiarazioni dei diritti umani non solo in quella francese del 1789, ma prima ancora con la dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America, la costituzione della Virginia, la stessa costituzione degli USA e poi in tutte le costituzioni moderne, compresa la nostra) si afferma che tutti gli uomini per natura sono liberi ed uguali. Se diciamo, appellandoci ai diritti umani, che non è giusto che nel Sud Africa i neri siano discriminati dai bianchi e siano sottoposti ad una serie di restrizioni, è perché riteniamo che non ci sia differenza tra ricchi e poveri, tra colti ed ignoranti, cioè che per natura gli uomini sono uguali ed hanno uguali diritti.
Dire questo significa riconoscere che c’è una certa caratteristica, una certa proprietà, che è comune a tutti gli uomini, indipendentemente dalla razza, dal sesso, dalla condizione sociale, dalla nascita, e che li distingue da ogni altro essere vivente, per esempio dagli animali, tant’è vero che si parla di diritti “umani”, cioè dell’uomo.
Oggi c’è anche qualcuno che parla dei diritti degli animali, e la cosa ha qualche fondamento, perché anche gli animali sono in grado di provare piacere e dolore, q, quindi è ingiusto farli soffrire inutilmente.
Tuttavia anche coloro che difendono i diritti degli animali, si guardano bene dal metterli sullo stesso piano dei diritti dell’uomo: nessuno si soglia di pretendere, ad esempio, il diritto all’istruzione per gli animali. Allora implicitamente si riconosce che esiste qualcosa che unisce fra di loro tutti gli uomini, che li accomuna e che nello stesso tempo li distingue dagli animali, dalle piante, da qualsiasi altro essere. Questo è quello che si chiama tradizionalmente “natura” umana.
Oggi per molti filosofi usare la parola “natura” è motivo di scandalo, perché si pensa che ci sia sotto qualche imbroglio di tipo teologico. Poiché si dice, infatti, che la natura è opera di Dio, uno che ammette la natura teme di essere costretto ad ammettere l’esistenza di Dio, ad ammettere la creazione, con tante altre cose connesse a questa. Oppure si dice che il termine “natura” deriva dalla filosofia medioevale, dalla scolastica, e quindi si teme che esso comporti il riconoscimento di essenze immutabili, non ammissibili dal punto di vista della scienza.
Il concetto di natura era ancora molto in auge alla fine del Settecento, tant’è vero che in tutte le dichiarazioni dei diritti dell’uomo si dice che “per natura” gli uomini sono uguali. Rousseau diceva: “Gli uomini nascono liberi ed uguali”, la natura infatti ci riporta alla nascita, cioè al momento in cui uno non dovrebbe essere né ricco né povero, né colto né ignorante.
Fino a tutto il Settecento il concetto di natura non creava difficoltà; invece a partire dall’Ottocento si è cominciato a metterlo in discussione, si è detto che chi crede nella natura non tiene conto della storia. La storia ci insegna infatti che tutto cambia e che anche il modo di pensare, di comportarsi, cioè i costumi, la morale, sono determinati da particolari condizioni storiche, quindi non si deve parlare di una natura umana uguale per tutti gli uomini. Inoltre il concetto di uguale vale non solo per gli uomini che esistono oggi, ma anche per quelli che sono esistiti nei secoli precedenti e per tutti quelli che esisteranno nel futuro, se sono uomini. Questa è stata la prima critica al concetto di natura, fatta in nome della storia e dello storicismo.
Poi nel Novecento una nuova critica è stata fatta sulla base delle “scienze umane”: l’etnologia, l’antropologia, la psicologia, la sociologia. Queste mostrano infatti come gli uomini siano diversi l’uno dall’altro, come altresì lo sono i popoli, cioè abbiano sentimenti e abitudini diverse.
Ma, se si dubita che esista una natura umana, coerentemente bisognerebbe respingere l’idea che gli uomini hanno gli stessi diritti. Se invece si ammette che tutti gli uomini godono degli stessi diritti, a prescindere dal luogo in cui nascono, dal momento in cui vivono, dalla razza a cui appartengono, vuol dire che, malgrado i mutamenti e le apparenze, qualcosa di comune esiste, una base minima c’è e questo minimo si chiama “natura”.
In cosa consiste questa natura? Che cos’è questo minimo che accomuna tutti gli uomini? Una volta si diceva: l’uomo è un “animale razionale”. Anche questa sembra ormai un’affermazione proibita, perché non si sa che cosa significa “razionale”. Uno pensa subito allo spirito, all’anima, alla ragione, e allora chi non crede nell’anima non è più d’accordo. Lasciando stare questa formula, sembra che l’uomo si distingua da tutti gli altri esseri viventi perché è in grado di comunicare, ed è in grado di farlo per mezzo di un linguaggio fatto di termini universali. Pertanto c’è qualcuno che ha proposto di sostituire alla formula tradizionale di “animale razionale” una formula nuova: “animal symbolicum”, animale capace di esprimersi per mezzo di simboli. Esprimersi per mezzo di simboli significa comunicare, perché il simbolo è tale solo in quanto viene compreso da qualcuno a cui è comunicato.
Il dato della comunicazione sembra costituire la natura, ma con questa nuova definizione non si è andati molto lontani da quello che si diceva con l’espressione “animale razionale”, perché ratio in latino era la traduzione dal greco lógos, che non significa solo ragione, ma anche linguaggio, parola, comunicazione. Per questo uno dei più antichi filosofi, Eraclito, diceva che il lógos è ciò che accomuna tutti gli uomini, ossia il koinón, ciò che è comune, e che in virtù del lógos tutti gli uomini vivono nello stesso mondo, non in un mondo loro particolare, come accade a quelli che sognano. Infatti la differenza tra l’essere svegli e il sognare è che, quando si è svegli, si è tutti nello stesso mondo, cioè si ha qualcosa in comune, e questa dimensione comune è il lógos.
Dopo l’uguaglianza, un altro diritto affermato da tutti è la libertà. “Gli uomini nascono ovunque liberi ed uguali”, diceva Rousseau, e aggiungeva: “e adesso sono dappertutto in catene”. Quindi la libertà è considerata un diritto che appartiene a tutti per natura. Ma, se si ammette ciò, si attribuisce all’individuo una capacità, una qualità, un qualche cosa che non si incontra in tutti gli esseri. Nessuno si sognerebbe di dire che un sasso è libero, che è libera una pianta, la quale deve crescere in un determinato modo, o che è libero un animale, il quale obbedisce a determinati istinti. Riconoscere la libertà è un modo per indicare ciò che una volta si chiamava la spiritualità dell’uomo. Anche qui, però, molti preferiscono non parlare di questo, perché ciò potrebbe implicare una serie di obblighi spiacevoli dal punto di vista morale; invece non esitano a parlare di “libertà”. La libertà, però, non è concepibile se non quando si ammette qualcosa che va un poco più in là del puro istinto, o condizionamento biologico, fisiologico o psicologico, e dunque “sporge”. Lo si chiami come si vuole, ma questo è comunque qualcosa che non si lascia ridurre al semplice dato deterministico ed ambientale.
Tra i diritti fondamentali si considerano libertà ben più impegnative rispetto a quella elementare di compiere o meno un certo movimento, e sono le libertà di parola, di opinione, di stampa, di associazione, di creare partiti politici e di concorrere, nella forma consentita dalla legge, anche alla conquista del potere. Chi oggi si permetterebbe di dubitare di tali libertà? Nessuno può dire “tu non hai il diritto di parlare, di pensare in questo modo e di scrivere ciò che pensi”.
Però riconoscere questo, significa riconoscere che l’uomo è un soggetto capace di comunicare agli altri le proprie opinioni, di difenderle con determinati argomenti, capace di rispondere alle obiezioni, di tener conto delle ragioni contrarie, cioè capace di inserirsi in un certo contesto di relazioni argomentative, perché, se non ci fosse da argomentare, non avrebbe senso neppure rivendicare la libertà di opinione, di parola, di stampa. Se uno non dovesse servirsene per diffondere il suo modo di pensare, e per cercare di convincere gli altri che quel modo è giusto, non avrebbe ragione di essere la rivendicazione del diritto a tali libertà. Nel momento in cui si ammette questo, si riconosce anche che l’uomo è capace di argomentare, cioè di dare ragioni a favore o contro una determinata tesi, di chiedere ragioni, spiegazioni, cioè è capace di compiere tutta una serie di operazioni gravide di implicazioni anche di ordine morale.
Apel non è l’esponente di una filosofia tradizionale, metafisica; egli dice che oggi viviamo nell’era della scienza e che quindi il punto di partenza di ogni nostra argomentazione deve essere il modo di operare proprio degli scienziati. Poi aggiunge, però, che gli scienziati in genere formano una comunità all’interno della quale si discute. La comunità scientifica argomenta, gli scienziati si fanno obiezioni, si oppongono delle ragioni. Ma nella discussione scientifica, condotta in tal modo, si ammette tutta una serie di presupposti, che hanno un significato morale, in quanto si riconosce a ciascuno il diritto di interloquire, di fare obiezioni, e ciascuno obbliga se stesso a tener conto di queste obiezioni. Quindi si riconosce l’uguale dignità degli interlocutori, la libertà di parola, di opinione, la capacità che ciascuno ha di ragionare. Questi presupposti finiscono col fare dell’uomo un soggetto particolare, ben caratterizzato, con una serie di proprietà che non appartengono ad altri soggetti.
Un diritto su cui oggi in teoria non c’è forse un consenso universale, ma in pratica esiste più largamente di quanto non si creda, è il diritto di proprietà. In fondo anche Marx, il pensatore che più vigorosamente ha contestato il diritto di proprietà, nel momento in cui descrive la condizione dell’uomo nella società capitalistica, caratterizzandola per mezzo del concetto di alienazione, cioè quando dice che l’operaio viene alienato dal prodotto del suo lavoro e deve riappropriarsene, riconosce che l’operaio avrebbe il diritto a possedere il frutto del suo lavoro. Il fatto che questo gli venga tolto, costituisce appunto un’alienazione, cioè una espropriazione indebita, a cui bisogna porre rimedio per mezzo della riappropriazione. Ciò significa riconoscere il diritto di proprietà, almeno sui frutti del proprio lavoro.
Ebbene, riconoscere questo diritto, significa ammettere una realtà che sembra ovvia, ma che molti filosofi contestano. E’ vero che non c’è quasi nulla che non sia stato contestato da qualche filosofo, ma questa è una realtà di particolare importanza, cioè l’identità personale. Questo significa che una persona è sempre la stessa e mantiene la sua identità nei diversi momenti della sua vita; di conseguenza chi ha compiuto un certo lavoro, ha diritto a possederne il frutto, perché si suppone che chi ha lavorato non è cambiato dopo aver finito di lavorare.
Quando poi si estende il diritto alla proprietà fino a farne un diritto all’eredità, sì suppone, e sembra ovvio, che noi abbiamo diritto a possedere i beni che i nostri avi possedevano, perché abbiamo mantenuto la nostra identità.
Su questo però molti filosofi non sono d’accordo, perché negano che esista un soggetto, una sostanza immutata al di sotto di tutti i cambiamenti che essa subisce nelle esperienze, nel modo di pensare, nelle vicende della vita. In che senso possiamo dunque dire di essere rimasti gli stessi? Hume, per esempio, il grande filosofo scozzese del Settecento, dice che l’identità personale dipende solo dalla coscienza o dal perdurare della coscienza, cioè dalla memoria; siamo sempre gli stessi perché ricordiamo la nostra infanzia, nostro padre e nostra madre. Se però ci capita un incidente e perdiamo la memoria, non siamo più gli stessi.
Ciò ha conseguenze sul diritto di proprietà: se uno non è più la stessa persona, non è più il legittimo proprietario dei suoi beni; chi ha perso la memoria, non ha più diritto ad avere nulla di quello che aveva. Però nessuno considera giusta questa conseguenza. Allora vuol dire che nel riconoscimento del diritto di proprietà presupponiamo il concetto di persona come sostanza che permane identica a se stessa, quali che siano i mutamenti da essa subiti a livello fisico e psichico. Questo è il concetto antico di persona, definita da Boezio come “rationalis naturae individua substantia”, cioè una sostanza individuale di natura razionale.
Anche il principio della responsabilità personale su cui si fonda il diritto penale, per cui uno è chiamato a rispondere davanti alla legge delle azioni che compie, presuppone che la persona che viene punita sia la stessa che commise il delitto.
Altri filosofi contemporanei negano l’identità della persona. Recentemente è stato pubblicato il libro di un filosofo americano, Derek Parfit, intitolato Ragioni e persone. Parfit, filosofo analitico, dice che nella persona c’è una identità simile a quella che esiste in una nazione: la nazione non è sempre composta dagli stessi individui, però, se riconosciamo che erano italiani quelli che cent’anni fa erano in Italia, e che siamo italiani anche noi, ammettiamo una continuità di storia, di abitudini, di tradizioni, di costumi, di modi di pensare, non la permanenza di un identico soggetto. Ciascuno di noi, secondo Parfit, è come una nazione, cioè una serie di individui successivi, legati fra di loro da vincoli come la memoria, la tradizione, le abitudini. Accettando una teoria del genere, si deve dubitare delle responsabilità penali. E’ giusto, ad esempio, che si punisca una persona per un reato commesso dieci o venti anni fa?
Anche sul concetto di persona oggi la discussione è aperta. Un filosofo italiano, abbastanza giovane e conosciuto, Sebastiano Maffettone, ha scritto un bel libro nel 1989, Valori comuni, dove sostiene che esiste appunto un consenso su certi valori condivisi da tutti, quali sono i valori comuni, e che questi sono l’insieme dei diritti che appartengono alle persone. Il punto chiave della questione, anche se non viene particolarmente approfondito da Maffettone, è questo: chi sono le persone, che cosa significa essere persona? Lui risponde che non ogni essere umano è una persona e fa una differenza tra esseri umani e persone; si può essere un essere umano e non una persona. La persona deve avere come suo requisito l’integrità, cioè il pieno possesso di tutte le sue facoltà fisiche e mentali. Se qualcuno perde una di queste facoltà non è più integro; è sempre un essere umano, ma non è più una persona. Allora il neonato è persona o non è persona? E se non è persona, ha diritti? Se i diritti sono solo delle persone, chi non è persona non ha diritti e quindi non ha diritto di proprietà, gli si può portare via tutto. Le persone prossime alla morte, che perdono le loro facoltà, perdono anche tutti i diritti, cessano per questo di essere persona?
La tesi che vi propongo è questa: coloro i quali sì dichiarano favorevoli ai diritti umani, coloro che riconoscono la loro validità, devono ammettere che esiste una natura umana, che l’uomo è per natura diverso dagli animali, che questa natura è posseduta da un soggetto permanente, se non vogliamo dire sostanziale, che si chiama persona, cioè devono ammettere tutta una determinata concezione dell’uomo che non è pacifica, che non è condivisa da qualsiasi filosofia. E’ facile essere d’accordo sui diritti, e infatti l’accordo è quasi generale, ma è molto più difficile essere d’accordo sulle implicazioni di questi diritti; però, se uno è coerente con se stesso, se non vuole cadere nella contraddizione performativa, come capita a chi dice: Io non esisto”, deve coerentemente ammettere anche queste implicazioni. Ciò significa ammettere una determinata etica, significa tentare di dare una fondazione etica ai diritti umani.
Tuttavia uno potrebbe dire: ammettiamo che esista una natura umana, che esista una legge naturale, ma come si fa a conoscerla? Se anche esiste, noi non possiamo tenerne conto, perché non la conosciamo. La difficoltà qui è fondata, perché i primi che sostennero i diritti naturali, i giusnaturalisti, per esempio, come Ugo Grozio, dicevano che esiste una natura ed esistono delle leggi, dei principi, dei diritti collegati alla natura, i quali sono evidenti a tutti. Grozio era un po’ cartesiano e quindi credeva che esistessero le idee innate, chiare e distinte, evidenti a tutti, e quindi ammetteva che anche i diritti e le leggi di natura sono evidenti a tutti e non hanno bisogno di essere dimostrati. Questo filosofo credeva in Dio e che tutti gli esseri siano stati creati per volontà divina, ma riteneva che questa fosse una complicazione inutile: a lui premeva che il diritto naturale fosse accettato anche dai non credenti; infatti egli diceva che il diritto naturale sarebbe stato valido “etsi Deus non daretur”.
Le obiezioni sono venute subito: Locke ha contestato le idee innate di Cartesio, dicendo che non è vero che tutti gli uomini pensano in ugual modo; infatti, andando a guardare i costumi dei diversi popoli, si vede che verità ovvie per alcuni non lo sono affatto per altri. Quindi, anche ammettendo che esista una natura, può accadere che, questa non sia conosciuta da tutti nello stesso modo, come prova il fatto che ciascuno si comporta in maniera diversa.
Questa difficoltà aveva motivo di esistere in una cultura come quella del Sei-Settecento, che aveva assunto come modello indiscutibile di sapere la matematica. E’ chiaro che, se pretendiamo in ogni campo della vita umana la stessa evidenza, lo stesso rigore, la stessa forza dimostrativa che ritroviamo nella matematica, ben pochi settori sono suscettibili di essere conosciuti. E’ facile dire che a proposito dei diritti naturali questa conoscenza non c’è. Certi diritti che a noi sembrano evidenti e naturali, come la libertà, non lo erano per gli antichi greci e romani, i quali ritenevano naturalissimo che alcuni uomini dovessero essere schiavi. Anche gli Stati Uniti d’America hanno fatto una guerra tremenda intorno alla metà dell’Ottocento per eliminare la schiavitù, che era sopravvissuta fino a quel momento negli stessi paesi cristiani; neanche il cristianesimo era bastato per rendere evidente l’ingiustizia della schiavitù. Ecco allora che la conoscenza della natura progredisce, non è data immediatamente, in modo evidente, fin dall’inizio, ma è una conoscenza graduale, in parte oscura, suscettibile di arricchirsi.
Questo è accettabile, se si ammette che l’unica forma di sapere valido non sia solo la matematica, ma sia possibile anche un diverso tipo di sapere, fatto di domande, risposte, obiezioni, argomentazioni, che non hanno lo stesso rigore della matematica. Abbandonando la pretesa di una conoscenza assoluta, si può arrivare ad una conoscenza della natura umana.
Infine c’è un’ultima difficoltà ed obiezione. Molti dicono: anche se ammettiamo che esista una natura umana, e che essa possa essere conosciuta, non si vede perché da questa conoscenza si debbano ricavare delle prescrizioni, cioè delle indicazioni su come ci si deve comportare. Questa è una posizione molto diffusa nel pensiero contemporaneo, la divisione tra giudizi di fatto e giudizi di valore. I fatti sono una cosa e devono essere descritti; ammettiamo di riuscire a descriverli e quindi a conoscerli; perché mai da questa descrizione si deve ricavare una norma, un comando?
Da un modo di “essere” perché mai dovremmo ricavare un “dover essere”: l’essere e il dover essere sono due piani separati tra di loro. In questo modo si presuppone una eterogeneità tra l’ambito della conoscenza e l’ambito dell’azione.
Anche questo modo di pensare è, però, legato ad una visione della realtà ormai superata, cioè è legato alla visione meccanicistica della natura propria del Seicento e del Settecento. I filosofi di quel tempo si immaginavano la natura come un’immensa macchina, cioè come un insieme di masse soggette a spostamenti, a movimenti nello spazio, sotto l’azione di forze. Se la natura è questo, veramente non si capisce perché deve essere considerata come legge. Prendiamo una legge qualsiasi, per esempio quella di gravità: un corpo abbandonato a se stesso cade. Quali implicazioni di ordine morale si possono ricavare da una simile legge? E’ uno stato di cose, un fatto, ma non è un valore. Se la natura è solo questo, non c’è speranza di ricavare da essa delle prescrizioni e dei diritti. Però il concetto di natura che noi usiamo e consideriamo è ben diverso: quando parliamo di natura, supponiamo che esista un certo ordine naturale. In medicina la salute è uno stato naturale, la malattia uno stato patologico, e bisogna fare di tutto per tornare allo stato naturale. E perché mai la salute è più naturale della malattia? Da un punto di vista puramente fisico sono due situazioni analoghe.

Quando si dice che l’uomo non deve perturbare l’equilibrio della natura, significa che si riconosce a quell’equilibrio un valore che deve essere difeso. Si è parlato della possibilità di creare un individuo subumano, un ibrido tra un uomo e una scimmia, da adibire a lavori servili. Ciò però ripugna a molti: perché? Contro quali leggi e norme va questo fatto? Chi afferma che esso è sbagliato, riconosce un ordine naturale contro il quale non si deve andare. Ecco perché dall’esistenza e dalla conoscibilità della natura si ricava il valore prescrittivo e normativo di essa per coloro che riconoscono i diritti naturali. Tutti quelli che riconoscono i diritti umani, per non cadere in contraddizione, devono dunque ammettere che alla base di essi c’è un’etica.

una legge qualsiasi, per esempio quella di gravità: un corpo abbandonato a se stesso cade. Quali implicazioni di ordine morale si possono ricavare da una simile legge? E’ uno stato di cose, un fatto, ma non è un valore. Se la natura è solo questo, non c’è speranza di ricavare da essa delle prescrizioni e dei diritti. Però il concetto di natura che noi usiamo e consideriamo è ben diverso: quando parliamo di natura, supponiamo che esista un certo ordine naturale. In medicina la salute è uno stato naturale, la malattia uno stato patologico, e bisogna fare di tutto per tornare allo stato naturale. E perché mai la salute è più naturale della malattia? Da un punto di vista puramente fisico sono due situazioni analoghe.

Quando si dice che l’uomo non deve perturbare l’equilibrio della natura, significa che si riconosce a quell’equilibrio un valore che deve essere difeso. Si è parlato della possibilità di creare un individuo subumano, un ibrido tra un uomo e una scimmia, da adibire a lavori servili. Ciò però ripugna a molti: perché? Contro quali leggi e norme va questo fatto? Chi afferma che esso è sbagliato, riconosce un ordine naturale contro il quale non si deve andare. Ecco perché dall’esistenza e dalla conoscibilità della natura si ricava il valore prescrittivo e normativo di essa per coloro che riconoscono i diritti naturali. Tutti quelli che riconoscono i diritti umani, per non cadere in contraddizione, devono dunque ammettere che alla base di essi c’è un’etica.

NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 17.10.1989 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.